Stefano Cingolani, Pagina99 23/1/2016, 23 gennaio 2016
ACCIAIO, LACRIME E SANGUE NELLE VENE DELL’EUROPA
«Tagliare, tagliare, il problema è sempre lo stesso»: il visconte Etienne Davignon, uno degli uomini più potenti del Belgio, è convinto che la siderurgia europea sia di fronte allo stesso dilemma degli anni ’80 quando lui, commissario al Mercato interno, presentò il primo piano di lacrime e sangue. Nel mondo oggi ci sono circa 540 milioni di tonnellate in più. In Europa l’eccesso di capacità produttiva è pari a 80 milioni di tonnellate su 217 installate. Se è così, il destino dell’Ilva di Taranto scavalca i cittadini intossicati o gli operai licenziati, passa sopra anche alla storia secolare di un gruppo dove sprechi pubblici e bramosie private s’intrecciano fin dalla nascita: la posta in gioco, infatti, è il futuro industriale dell’intero continente.
Al tavolo del risiko siedono le vecchie potenze, come i tedeschi che finanziarono due guerre mondiali, i Thyssen e i Krupp fusi in unico gruppo di livello mondiale. Ma si sono autoinvitati i nuovi magnati, per esempio i Mittal, indiani saliti in vetta conquistando il colosso americano Bethlehem Steel e il plantigrado ffanco-spagnolo-lussemburghese Arcelor. Ci sono poi i russi di Severstal che si sono presi la Lucchini, gli algerini di Cevital che già attizzano i forni di Piombino. E soprattutto arrivano i cinesi.
Il carbone e l’acciaio hanno insanguinato le valli del Reno tra la Lorena e l’Alsazia, hanno dilaniato il vecchio continente, hanno messo a soqquadro il mondo intero. Poi «un’Europa senza guerre», come sognava Jean Monnet, è nata nel 1951 con il primo mercato unico continentale, la Comunità del carbone dell’acciaio (Ceca), entente cordiale tra Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia e Benelux, scaduta nel 2002, ma entrata in crisi già vent’anni prima, quando Davignon fu incaricato di mettere fine al protezionismo costringendo i baroni degli altoforni a ristrutturarsi.
La selezione è stata durissima e l’Italia ha pagato a caro prezzo il sistema delle quote: 50 mila posti di lavoro e 6 milioni di tonnellate in meno. La chiusura di impianti obsoleti tra il 1980 ed il 1989 ha dimezzato gli occupati. Addio al quinto centro siderurgico per costruire il quale furono spianati gli aranceti di Gioia Tauro. AlloraTaranto rimase, più che una cattedrale nel deserto, un gigante solitario.
Il piano europeo ha messo fine a una storia cominciata nell’immediato dopoguerra con Oscar Sinigaglia, e la divisione del lavoro tra siderurgia pubblica e dinastie private. Mentre la crisi della Finsider chiude anche l’epoca dell’acciaio di Stato. Il gruppo aveva accumulato nel periodo 1980-1987 perdite per circa 12 mila miliardi di lire, pari mediamente al 16% del fatturato, con punte vicine al 25 percento. Nel biennio 1991-92, per arginare lo squilibrio finanziario, l’Iri immette capitali freschi per 650 miliardi; ma l’indebitamento aumenta, raggiungendo, al 31 dicembre 1993, i 10.067 miliardi di lire. Non c’è alternativa alla privatizzazione che, però, si rivela un’altra occasione perduta.
In tutta Europa avviene una grande concentrazione, invece l’Italia sceglie lo spezzatino: i Riva si prendonogli impianti di Genova e Taranto, i tedeschi di ThyssenKrupp gli acciai speciali di Terni, a Lucchini va Piombino, la Dalmine a Rocca. L’idea di far nascere un campione nazionale privato viene frustrata. Riva poteva diventarlo? Forse, ma l’Ilva s’è rivelato un boccone indigesto per un gruppo di mediataglia.
Se Davignon ha ragione, il ciclo siderurgico si trova a una nuova svolta strutturale. Negli anni ’80 doveva rispondere alla concorrenza giapponese e coreana, oggi il pericolo viene dalla Cina. Nel frattempo alcune grandi potenze come la Francia hanno ceduto lo scettro. I tedeschi si sono specializzati nei nuovi materiali trovando nell’industria meccanica, soprattutto nell’auto, lo sbocco nazionale. In Gran Bretagna, dove domina il gruppo indiano Tata, il settore «è un inferno», come scrivono i giornali.
E Taranto? L’impianto più grande d’Europa fa gola, soprattutto ora che il governo mette a disposizione un miliardo per il risanamento ambientale. Se finirà alla Mittal entrerà in concorrenza gioco forza con l’altoforno di Florange in Lorena. Forse l’avrà vinta o forse entrambi saranno ridimensionati. Se davvero si materializzerà la fantomatica cordata italiana, i nuovi “capitali coraggiosi” dovranno presentarsi con una strategia chiara perché nemmeno loro potranno sfuggire alla maledizione del visconte.
Nel giugno 2013 la commissione europea ha approvato un altro piano, questa volta per favorire la riconversione ambientale. Ma inutile negare che la siderurgia è particolarmente sensibile anche alla geopolitica. Complottismo? Non proprio. Nel 2006 quando viene messa in vendita la Arcelor, si fa avanti Giuseppe Lucchini (subentrato al padre Luigi) insieme a Alexej Mordashov l’oligarca russo a capo della Severstal. Racconta Ugo Calzoni che per tanto tempo ha svolto un ruolo di primo piano al fianco dell’allora re del tondino: «Si poteva fare finta di nulla di fronte alla nascita di un colosso dell’acciaio che andava dall’Atlantico al Pacifico tutto in mani russe?». Infatti, la cordata italo-russa perde e vince Lakshmi Mittal, grazie a Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco a lungo alleato di Giovanni Bazoli, e a un altro socio chiave: il Granducato del Lussemburgo. Perché, nonostante viviamo nella società immateriale, l’acciaio sta ancora lì a determinare le sorti di popoli e Paesi.