varie, 27 gennaio 2016
APPUNTI SUL VOTO USA PER IL FOGLIO ROSA
MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA 27/1 –
They have all come to look for America»: l’ultimo spot tv della campagna di Bernie Sanders prima del voto in Iowa e New Hampshire non contiene promesse elettorali, non parla di programmi. Solo la musica e le parole di America di Simon & Garfunkel mentre scorrono immagini delle fattorie del Mid-West, della costa atlantica americana, scene familiari e poi immagini di centinaia di migliaia di supporter del politico progressista del Vermont che affollano i suoi comizi.
Mentre Hillary Clinton cerca, per ora senza successo, di far breccia tra i giovani democratici che le preferiscono Sanders, il senatore socialdemocratico appena sbarcato nel partito di Obama comincia a corteggiare la generazione dei baby boomers , i cinquantenni e sessantenni ormai sopravanzati dai millennials (i trentenni) nel mondo del lavoro, ma che demograficamente sono ancora la generazione più consistente come numeri. E anche quella elettoralmente più importante, visto che gli anziani votano molto più dei giovani.
La ex first lady, raggiunta da Sanders nei sondaggi in Iowa e superata in quelli del New Hampshire, ha cercato di recuperare terreno tra i ragazzi dandosi un’immagine più sbarazzina e ottenendo l’ endorsement di cantanti come Katy Perry e Demi Lovato e quello di attrici come Lena Dunham: personaggi cari al pubblico giovanile. La maggior parte di loro però, continua a preferire il vecchio socialista del Vermont, un senatore che sta per compiere i 75 anni, all’ex Segretario di Stato: i sondaggi dicono che il 68 per cento dei democratici di età compresa tra i 18 e i 24 anni preferisce Sanders, mentre solo un giovane democratico su cinque si dice a favore di Hillary Clinton.
Lo zoccolo duro della ex first lady è quello degli americani meno giovani: tra gli elettori sopra i 45 anni Hillary raggiunge il 60 per cento dei consensi, mentre Sanders si ferma al 33. Per questo la campagna del senatore sta cercando di fare breccia nel cuore dei boomers , vecchi sentimentali, eterni Peter Pan invecchiati quasi senza accorgersene. Cosa meglio delle malinconiche melodie di Simon & Garfunkel? I due musicisti, che da tempi immemorabile litigano su tutto e che hanno separato i loro destini su una cosa sono d’accordo: il sostegno a Bernie Sanders.
«Bernie mi piace» ha spiegato Art Garfunkel alla stampa americana, «e piace anche a Simon, noi siamo liberal . Mi piace la sua battaglia, mi piace la sua dignità. Ha ragione a denunciare le diseguaglianze economiche e a criticare la Clinton che incassa 275 mila dollari per un discorso».
Il team della campagna dell’ex first lady accusa il colpo, ma cerca subito di contrattaccare accusando Sanders di ignorare le minoranze etniche: «Sembra che per lui i neri non contino», sostiene David Brock, un dirigente di Correct the Record, una SuperPAC (cioè un’organizzazione politica con obiettivi non esplicitamente elettorali) che fiancheggia la campagna della Clinton. Nello spot, notano nel quartier generale di Hillary, si vedono quasi solo uomini e donne bianchi, «potrebbe essere un pezzo della campagna di Trump».
Mentre gli strateghi elettorali dei due fronti cominciano ad azzuffarsi nell’imminenza della sfida del voto, Hillary cerca di recuperare tra i giovani anche adottando una mimica molto più pronunciata. L’altra sera, sul palcoscenico del «town hall meeting» organizzato dalla Cnn, ha riso in continuazione, agitato le braccia, fatto mossette con le spalle, distribuito occhiate d’intesa. Servirà a qualcosa?
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LUCIA ANNUNZIATA, LA REPUBBLICA 27/1 –
La più pazza delle campagne elettorali americane sotto la lente di Arianna Huffington: «Donald Trump può vincere. Sanders a 70 anni è appoggiato dai giovanissimi Millennials, Hillary Clinton non appare una persona autentica, ma probabilmente ce la farà», prevede la fondatrice e responsabile del gruppo Huffington Post, in Italia di ritorno dal World Economic Forum di Davos.
Che cosa rende unica questa campagna statunitense?
«È la prima volta che un candidato chiede il bando dagli Stati Uniti di una intera religione, quella musulmana. E, dopo aver fatto questa proposta, continua ad essere in testa e ad essere trattato seriamente dai media. Il maggiore pericolo che vedo in questa situazione è che l’estremismo diventi mainstream, diventi sistema. Estremisti ce ne sono dappertutto, la differenza qui è che i media trattano Trump come un candidato legittimo quando non lo è. Anche se fa impennare l’audience».
Alcuni media hanno tentato però di sfidarlo.”Huffington Post” ad esempio lo ha a lungo relegato nella sezione intrattenimento. Per poi ricredersi. Perché?
«Per la proposta di bandire i musulmani. Ora lo seguiamo come un grave pericolo politico. Ogni volta che lo nominiamo ripetiamo che è un sessista e razzista, e cerchiamo nuovi modi per denunciare chi è. Abbiamo realizzato ad esempio un video con un ragazzo di 13 anni che ha raccontato perché non vuole crescere nell’America di Trump. Una testimonianza molto emozionante, che ha raccolto 2,2 milioni di visite. Ne raccoglieremo tante altre come questa. Come tutti i demagoghi Trump fa appello alla paura. Il nostro è un tempo di grande transizione, siamo nel mezzo di una rivoluzione industriale, i salari della classe media non sono cresciuti, mentre è cresciuta la diseguaglianza, gli Usa hanno perso due guerre, in Afghanistan e in Iraq, è la fine della Superpotenza americana».
Dunque Trump ha davvero possibilità di diventare presidente?
«Certo. A Davos lo ha detto anche David Gergen che è stato consigliere di molti presidenti».
Viceversa, questo significa anche che siamo di fronte a un grande fallimento del partito democratico...
«Direi al fallimento dell’intero establishment, che non ha capito le paure e le ansie di milioni di americani. Quando Obama e altri dicono che l’economia va bene stanno in verità sottostimando la realtà: la produttività è alta, ma i salari sono rimasti bassi e la gente è molto provata, anche psicologicamente».
Preferisci parlare di “establishment” invece che di destra e sinistra...
«Come Huffington Post, da anni crediamo che la divisione fra destra e sinistra sia obsoleta. La grandi questioni del nostro tempo, clima, disuguaglianza, rivoluzione tecnologica, non sono né di destra né di sinistra, ma hanno a che fare con la stabilità del mondo. È questo che l’establishment in generale non ha capito ».
L’ex sindaco di New York Michael Bloomberg vuole correre da indipendente. Può battere Trump?
«Se la sfida sarà Trump contro Sanders, Bloomberg ha una possibilità, se sarà Hillary contro Trump ne ha meno. Bloomberg ci sta certo pensando, ma dipende dalle primarie».
Sanders e Trump due facce di un identico estremismo?
«No, completamente sbagliato. Chi fa questa lettura annacqua il pericolo Trump. Sanders parla ai giovani, ai Millennials (i giovani nati intorno al passaggio di millennio, ndr), che chiedono un paese più equo, meno diviso: negli Usa c’è ancora forte l’idea che Wall Street non abbia pagato per la distruzione di case e pensioni di milioni di americani. Come è accaduto con l’elezione di Corbyn in Gran Bretagna, anche negli Usa i Millennials sono la forza maggiore dietro il settantenne Sanders, una sorta di riconnessione fra nonni e nipoti. Infine, Sanders è percepito come una persona autentica e Hillary no. La ricerca di autenticità dei Millennials è la loro caratteristica peculiare, tocca i consumi, i rapporti, i social media, tutto».
Hillary cerca di andare alla Casa Bianca con l’aiuto del marito ex presidente, usa il denaro delle lobby. Valori estranei a quelli di cui una volta si fregiava il femminismo...
«Per me la cosa più importante è che lei sia chiara nella sua proposta. Non mi sorprendono le sue alleanze. Quando vuoi fare il presidente usi tutto, ma vorrei sapere meglio quel che sostiene, dove traccia la sua linea, quali sono le cose su cui non accetterà compromessi. Con Sanders è chiaro, con Hillary no».
Hillary rischia la sconfitta?
«Sì, ma è molto brava nella campagna elettorale, ha l’appoggio delle donne e un grande tesoro cui attingere. Vincerà anche se perde in Iowa e New Hampshire».
Ti ascolto e non posso evitare di pensare quanto sia cambiato l’“Huffington Post”. Quando ho cominciato a lavorarvi, quattro anni fa, era una testata genericamente liberal. Oggi mi sembra molto più forte nelle sue scelte. Penso anche alla difesa di Tsipras in Grecia. O questa posizione è dettata dalle tue origini greche?
«Più politici? Non credo. Siamo solo più grandi, visto che siamo presenti in 15 paesi. Al di là delle mie origini greche credo sinceramente che la posizione tedesca sia insostenibile. Difende soluzioni punitive senza senso. Non si può crescere solo tagliando. Che il Fondo monetario internazionale voglia oggi un altro taglio alle pensioni è inumano, oltre che un disastro. La mia è una scelta di buon senso. Se l’Unione europea adotta misure che destabilizzano la Grecia, l’ultima è quella sui migranti, cosa si ottiene? Se Tsipras perde, vinceranno gli estremismi di destra o di sinistra. È questo quello che serve all’Europa?».
Hai incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel. La ammiri, la rispetti?
«Rispetto il suo carisma, ma sono sorpresa della sua miopia, dalla sua mancanza di comprensione della storia. Se alla Germania non fossero stati cancellati i debiti, non ci sarebbe stato il miracolo economico tedesco».
Hai mai immaginato a un certo punto di tornare in Europa, lasciare il giornalismo e abbracciare la carriera politica?
«No, per nulla. Credo che la nostra posizione sia la migliore per avere un impatto. La politica è diventata l’ultimo posto da cui ci si riesce a spiegare…».
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PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA 27/1 –
La campagna di Hillary Clinton è molto preoccupata, perché alla vigilia del voto in Iowa non si aspettava di trovarsi in queste condizioni, minacciata da un socialista come Bernie Sanders. Però resta convinta che «lei non diventerà presidente solo se muore», come ci ha detto uno strettissimo collaboratore, a meno che ad abbatterla non ci pensi l’inchiesta in corso dell’Fbi sulla mail privata usata al dipartimento di Stato.
La campagna in generale va bene. Aveva l’obiettivo di raccogliere 100 milioni di dollari di finanziamenti entro la fine del 2015, e ne ha ricevuti 120. Il problema è che ora sta spendendo troppo in Iowa per colpa di Sanders, e quindi dovrà prendere prestiti. Non userà i “SuperPac”, perché avendo contro Bernie è impensabile. Quindi l’unico modo in cui i veri ricchi possono contribuire è dare soldi ai victory fund, cioè i fondi del partito, con cui però la campagna non si può coordinare e che potranno essere usati solo dopo la nomination.
Battuta da Obama
I consiglieri danno per scontata la sconfitta nel New Hampshire, mentre l’Iowa è contesissimo. Stanno facendo di tutto per vincere, perché una sconfitta riporterebbe alla memoria quella del 2008 contro Obama, innescando lo sconforto. Allora Hillary perse perché non aveva una buona organizzazione sul terreno, che stavolta invece esiste: «Porteremo fisicamente gli elettori ai caucus». La strategia è anche corteggiare O’Malley, perché se non arriverà al 15%, i suoi voti dovranno andare a Clinton o Sanders, decidendo il confronto. Nessuno contesta la gestione di John Podesta e Robby Mook: «Se stavolta si perde – dice dunque la fonte – è per Hillary». Il problema è sempre il solito: «Non è brava come il marito Bill a fare campagna, odia l’Iowa dove vuole venire il meno possibile, e non eccita nessuno perché è in giro da troppo tempo. È percepita come espressione dell’establishment e questo la frena, soprattutto tra i giovani». La campagna però pensa che comincerà a vincere dal Nevada il 20 febbraio e la South Carolina il 27, perché nel resto del paese Sanders non è conosciuto e non ha organizzazione. Da quel momento in poi riprenderà la marcia verso la nomination e la vittoria a novembre. A meno che la salute, sempre una preoccupazione alla sua età, non la fermi.
Se vincerà, i posti assicurati sono due: Podesta capo dello staff, e Jake Sullivan consigliere per la sicurezza nazionale. Il resto è aperto. Per il vice si agita molto Julian Castro, che è bravo e ispanico, ma è troppo giovane e non farebbe vincere il Texas. L’alternativa più citata è il senatore della Virginia Tim Kaine: ha esperienza, equilibrerebbe il ticket, è stato governatore e porterebbe uno Stato decisivo a novembre. Per segretario di Stato si parla di Wendy Sherman, leader del negoziato sull’Iran, o l’attuale capo dello staff della Casa Bianca, Dennis McDonough. La campagna ha cominciato a discutere la linea di politica estera, e sul rapporto con l’Europa ha già un punto fermo: vuole una Ue forte, si opporrà con tutti i mezzi al suo indebolimento.
Il patto
Obama e Clinton hanno fatto un patto, perché entrambi hanno bisogno dell’altro: lui per non lasciare la Casa Bianca ai repubblicani; lei per ricevere almeno parte degli elettori liberal e giovani che lo avevano votato nel 2008, e adesso stanno con Sanders.
Bloomberg non viene considerato un avversario credibile, mentre tra i repubblicani l’unico che temono è Rubio. Però pensano che il Gop possa davvero arrivare alla Convention senza un candidato sicuro con la maggioranza. L’establishment repubblicano spera che dopo l’Iowa e il New Hampshire gli sconfitti comincino a ritirarsi, convergendo su Rubio, ma si rischia comunque che alla fine a decidere siano i superdelegati a Cleveland. I finanziatori repubblicani sono disperati perché non riescono nemmeno ad entrare in contatto con Trump: a lui i soldi non servono e quindi non gli parla neppure. I vertici del Gop sono quasi rassegnati a perdere a novembre. Cercano di farlo nel modo più dignitoso, per poi ricostruire il partito. Per questo puntano su Paul Ryan, che fra 4 anni potrebbe essere il candidato presidenziale su cui scommetteranno, per fare in modo che Hillary duri solo un mandato.
Paolo Mastrolilli
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PAOLO GUZZANTI, IL GIORNALE 27/1 –
L’America sta soffrendo una crisi di rigetto. Sia il trapianto di Donald Trump come candidato unico e separato dei repubblicani, che quello troppo lobbista e istituzionale della Clinton, provocano reazioni di rifiuto all’interno degli stessi partiti. Fra un anno il nuovo presidente americano sarà già insediato a Washington dopo essere stato eletto a novembre, ma la politica, come la stessa società americana, non trovano pace. Fra cinque giorni sarà la volta del caucus in Iowa e il lunedì successivo nel New Hampshire. Ai nastri di partenza sempre loro, Trump per il GOP e Hillary per i democratici, ma tutti si accorgono che mai e poi mai si era vista una tale rissosità isterica e personalizzata come durante questa prima fase della campagna elettorale. E dunque i due campi sono in subbuglio per trovare un’alternativa, un piano B. Ecco dunque spiegata la natura di una eventuale candidatura dell’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg. Bloomberg è un repubblicano ma correrebbe come indipendente: adorato dai newyorchesi, abortista, pro matrimonio gay, liberal e conservatore al tempo stesso rappresenterebbe il giusto mix che l’elettore medio americano gradirebbe senza estremismi ed estremisti.In campo repubblicano i conservatori, l’anima del partito, sono furiosi: Trump sembra inarrestabile malgrado la proposta di chiudere le frontiere ai musulmani di tutto il mondo, cosa che in America suona come una bestemmia contro la Costituzione, nata proprio per garantire un rifugio a tutti gli esseri umani senza discriminazioni religiose, razziali, politiche o di genere. Gli arabo-americani sono milioni e protestano come americani, non come musulmani. Questa reazione di rigetto rianima i conservatori del Grand Old Party i quali come vecchi sacerdoti del tempio, vorrebbero essere liberati alla svelta dall’ingombrante outsider che si autofinanzia e non ha dunque bisogno di raccogliere fondi. Bloomberg risponde, libretto degli assegni alla mano, di poter correre rubando voti sia alla Clinton che a Trump, e gettando sul tavolo un miliardo di dollari. È pronto, ma non subito. Bisogna prima vedere come andrà la prima fase dei caucus che sono delle curiose forme di primarie con corsa campestre dei concorrenti che contano sul campo i propri elettori. Se Trump darà segni di debolezza e se Hillary mollerà (come molti pensano a causa della vicenda di Bengasi e delle email personali usate come governative) allora l’ex sindaco di New York metterà in campo la sua elegante figura di conservatore liberal che però non è popolarissimo nel resto dell’America.E poi abbiamo Bernie Sanders, settantacinque anni, che si è autoproclamato socialista in un Paese in cui non esiste un partito socialista e dove semmai ha vissuto nelle tenebre e nell’ortodossia il vecchio Partito comunista degli Stati Uniti. In che cosa consista il socialismo di Sanders nessuno l’ha capito bene, forse nemmeno lui, ma l’aggettivo colpisce i giovani e i radicali che guardano con simpatia al socialista inglese Jeremy Corbyn che nel Regno Unito rappresenta l’antimateria e l’antitesi di Tony Blair, liquidato ormai come un losco alleato di George W. Bush. Sanders punta su questo: polarizzare l’elettorato anti-Bush, che somiglia all’antico elettorato anti-Nixon, su cui poggiarono le fragili sorti di Jimmy Carter. C’è un’America di sinistra che chiede di essere rappresentata e Hillary Clinton non sa e non vuole rappresentarla. Sanders appare nei dibattiti e nei footage televisivi come un vecchio matto alla ricerca di un carisma ancora in costruzione, ma comincia a piacere davvero. Nel campo opposto, all’elettorato socialista di Sanders si oppone l’elettorato conservatore ispirato da Ted Cruz, senatore del Texas dove fu insediato grazie all’appoggio di Sarah Palin, la vulcanica ex governatrice dell’Alaska che adesso appoggia ufficialmente con un folcloristico endorsement Donald Trump. Donald Trump ha ricevuto sia il sostegno della pasionaria dei tea parties che quello inatteso di Vladimir Putin che lo trova divertente, convincente e con la schiena dritta: un altro se stesso. Trump ha dichiarato di non disprezzare il sostegno di Mosca ed ha detto che con la Russia occorre un rapporto non isterico ma fondato sulla guerra al terrorismo comunque si chiami e dovunque si annidi. Di conseguenza, il diffuso sentimento anti-russo dei conservatori americani consiglierebbe loro un candidato più ortodosso e pensano chiaramente a Ted Cruz, cubano di origine come l’elegante senatore della Florida Marco Rubio, ma di temperamento «wasp» come Ronald Reagan. I conservatori vorrebbero a questo punto che dei pesi morti come Jeb Bush, fratello, figlio dei presidenti omonimi ed ex governatore si decidessero a togliersi dalle scatole per non disperdere i voti. E questo Trump lo sa. A Trump, il senatore Cruz piace moltissimo e glielo dice nei fuori onda, ma sa anche che è l’unico suo possibile avversario. E dunque tende a metterlo ko arrivando a mettere in dubbio la sua eleggibilità, visto che Ted è nato per caso in Canada. Tanto accanimento ha un solo fine: depotenziare Cruz per poi chiamarlo, dopo lo scontro, a fare team con lui dopo la convention e la candidatura ufficiale. L’anima dell’americano medio, bianco o nero, latino o asiatico, è oggi come ieri centrista. Non cerca avventure, non cerca guerre, ma ha un cuore che batte in modo diverso dai cuori europei e dunque è difficilmente riconducibile alle categorie aristoteliche di destra e sinistra. L’americano medio è in ansia e vorrebbe un abbassamento di toni. Su questo conta l’ex sindaco di New York che si scalda in panchina augurandosi il peggio sia per Hillary che per Donald.
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ANTONIO CARLUCCI, L’ESPRESSO 27/1 – Bernard Sanders, detto Bernie, è andato anche nella tana del lupo pur di portare il suo messaggio. Ha fatto un discorso nell’aula magna di Liberty University, il college fondato dal reverendo Jerry Falwell, un evangelista ultra conservatore. "Liberty U" è nato per educare i giovani a vivere mettendo la religione al centro di ogni momento dell’esistenza. Bernie Sanders ha parlato per un paio di ore della sua campagna per diventare presidente degli Stati Uniti e del progetto di portare più eguaglianza nell’America del Terzo Millennio, dove l’uno per cento della popolazione è ogni giorno più ricca e il 99 per cento perde strada, a cominciare dalla classe media che vede il Sogno Americano come una meta difficilmente raggiungibile.
Quel giorno di settembre del 2015, quando Sanders entrò a Liberty University, vestiva i panni di candidato alle primarie del Partito Democratico destinato a sbattere contro la roccia cui aveva lanciato il guanto della sfida. Ovvero Hillary Clinton, che tutti davano per imbattibile nella corsa per la nomination. Oggi, quattro mesi più tardi, con la primarie dello Iowa e del New Hampshire alle porte (lunedì 1 febbraio e martedì 9 febbraio) il cenerentolo democratico è esploso nei sondaggi: stando alle analisi di RealClearPolitics in Iowa tallona da vicino la Clinton (47 contro 42,3), mentre in New Hampshire è balzato in testa con 12 punti di vantaggio (51 contro 39).
La situazione in campo democratico appare davvero confusa, con Hillary Clinton che rischia di finire sulle secche. Ed è confusa la situazione anche in campo repubblicano dove l’immobiliarista dal grande ciuffo cotonato Donald Trump è in testa nei favori degli elettori conservatori mettendo in un angolo i candidati dell’establishment repubblicano. La confusione ha raggiunto un livello così alto che l’ex sindaco di New York, il miliardario Michael Bloomberg, dopo aver fatto testare il suo nome in un paio di sondaggi molto riservati, ha fatto filtrare la notizia che sarebbe pronto a correre per la Casa Bianca come indipendente e a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio per finanziare l’impresa.
Di certo la maggioranza dell’elettorato democratico non è composto di "socialisti democratici", la definizione che dà di se stesso Bernie Sanders, liberal da sempre, posizionato all’ala sinistra del Partito Democratico, in missione tutti i giorni contro Wall Street, in Parlamento dal 1991, prima come deputato poi come senatore. Ma il suo messaggio ha fatto breccia nei due Stati - Iowa e New Hampshire - dove sono in maggioranza (94 e 92 per cento) i bianchi non ispanici che guardano al futuro con preoccupazione. Nel 2008, fece bingo in quei due stati Barack Obama, travolgendo Hillary Clinton che anche allora era partita favorita. Dopo quell’exploit, l’ex senatore afro americano fu capace di costruire un’alleanza più vasta in tutti gli altri Stati d’America mettendo insieme bianchi, neri, donne, blue collar, latinos, giovani e anziani. La domanda allora è: se Sanders si affermerà in Iowa e New Hampshire sarà capace di costruire una grande alleanza fondata sulle posizioni più liberal del Partito Democratico e ripetere l’impresa del primo presidente nero? O dovrà ripiegare perché le sue ricette sono improntate molto al progetto di una «rivoluzione politica», come lui definisce la sua campagna, e poco a un’offerta di governo capace di mantenere gli Stati Uniti in una posizione di leadership politica ed economica?
A dispetto dei sondaggi, intorno a Sanders, prossimo a compiere 75 anni, due matrimoni e un figlio, c’è un’aria di scetticismo: basta osservare la diffidenza e il fastidio per l’emergere del senatore del Vermont che traspare in due quotidiani come il "New York Times" e il "Washington Post", e la mancanza di appoggi ufficiali alla sua candidatura da parte dei democratici membri del Congresso. Nonostante ciò, Sanders ha messo insieme una rete di 200 mila volontari e nell’ultimo trimestre del 2015 ha raccolto quasi gli stessi finanziamenti della Clinton (33 milioni contro 37). Il cuore del suo programma è fatto di iniziative del governo per sostenere coloro che sono rimasti indietro e ridistribuire parte della ricchezza. L’ex studente della Chicago University che negli anni Sessanta fu il primo a inscenare una manifestazione davanti all’ufficio del rettore per reclamare la cancellazione del divieto per studenti bianchi e afro americani di abitare nello stesso dormitorio, vuole innanzitutto mettere mano alla riforma delle assicurazioni sanitarie voluta da Obama: progetta di renderla universale abolendo di fatto le assicurazioni private e trasformando il governo federale nell’unica società di assicurazione sanitaria. Questa operazione da sola avrebbe un costo di 1,38 milioni di miliardi di dollari all’anno e sarebbe pagata con un aumento delle tasse per i più ricchi, un aumento dei prelievi sui guadagni di Borsa, sui dividendi azionari e sui patrimoni ereditari.
Sempre la via dell’aumento della pressione fiscale servirà a finanziare gli altri punti chiave del programma di Sanders. Tassando una parte degli scambi effettuati ogni giorno a Wall Street, troverebbe i 75 miliardi di dollari l’anno per rendere gratuita l’iscrizione alle università pubbliche. Altre tasse per scoraggiare le emissioni di Co2. Balzelli anche per finanziare un programma da un milione di miliardi dedicato all’ammodernamento di strade, ferrovie, ponti e aeroporti che creerebbe molti posti di lavoro (secondo Sanders 13 milioni di nuovi occupati). E per un progetto dedicato al lavoro giovanile, nuova fiscalità per creare un fondo da 5,5 miliardi di dollari l’anno. Come per il progetto del congedo pagato dopo il parto.
L’America è pronta a mandare alla Casa Bianca un presidente con progetti basati sull’aumento delle tasse? Senza neanche scomodare gli avversari repubblicani basta osservare la reazione della candidata dell’establishment democratico Hillary Clinton. Negli ultimi dibattiti ha attaccato a testa bassa le idee dello sfidante, definendole negative, irrealizzabili, fondate sulla aspettative che l’America sia pronta per una rivoluzione politica mentre ha bisogno di razionali manifestazioni di governo saggio. Sanders, accusato anche di aver votato troppe volte con la lobby delle armi da fuoco, ha risposto per le rime alla Clinton: ricordando un suo discorso pagato con assegni a cinque zeri dalle grandi banche e il sì incondizionato di Hillary alla guerra in Iraq di George W. Bush.
Bernie Sanders non è mai stato un pacifista. Se ha detto no all’invasione dell’Iraq ha detto sì alla guerra contro l’ex Jugoslavia, a quella in Afghanistan. Del ruolo dell’America nel mondo ha questa idea: «Sugli aspetti cruciali della politica estera di oggi Hillary, con tutta la sua esperienza, è sulla strada sbagliata, io su quella giusta. L’esperienza è importante, tante persone hanno grande esperienza, ma non necessariamente hanno il giudizio corretto». Il candidato outsider vuole diplomazia al primo posto, la consapevolezza che lo strumento militare deve essere mantenuto sul tavolo di ogni questione di sicurezza, ma non ritiene che gli Usa debbano svolgere il ruolo di gendarme del mondo.
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TIM DICKINSON, CORRIERE DELLA SERA 27/1 –
Il senatore del Vermont Bernie Sanders, per i suoi sostenitori semplicemente «Bernie», è la sorpresa più atipica della politica americana. Si è autodefinito un «democratico socialista». Ha condannato un sistema economico «truccato» e una politica corrotta dai ricchi. Ha rifiutato il sistema di finanziamento elettorale Super PAC in base al quale i comitati possono sostenere un candidato con donazioni illimitate spesso anonime, scegliendo invece di basare la sua campagna su circa 750 mila donatori provenienti dai movimenti di base che hanno versato in media 30 dollari ciascuno. Rolling Stone ha incontrato Sanders nel suo ufficio in Senato. Non è un tipo da cerimonie e ostentazioni. Si toglie la giacca, la butta sul divano dietro di lui e resta in felpa blu del Burlington College. Appoggia le scarpe con la suola di gomma sul tavolino di fianco a una copia del nuovo libro di Robert Reich «Come salvare il capitalismo».
Cosa l’ha spinta a candidarsi alla presidenza?
«Questo Paese sta affrontando delle crisi straordinarie: il cambiamento climatico, l’iniquità dei salari e della distribuzione della ricchezza, un sistema politico corrotto che va verso l’oligarchia, il collasso della classe media, una politica sull’immigrazione che ha evidentemente fallito. Non credo che la politica tradizionale sia in grado di affrontare questi problemi».
Questo ci porta subito alla domanda principale: perché i democratici dovrebbero votare per lei e non per Hillary Clinton?
«Conosco Hillary da 25 anni, da quando era la First Lady. È una donna di forte impatto, molto intelligente e con una grande esperienza. Ma nessuno può negare che sia l’espressione della politica tradizionale. Si finanzia con i Super PAC, riceve donazioni da un numero significativo di persone molto ricche e rappresenta gli interessi delle corporation. Io non dico: “Votate Bernie Sanders, risolverà tutti i problemi”. È necessario che milioni di persone scendano in campo chiedendo che il governo rappresenti tutti i cittadini e non solo l’1%».
Per affrontare le disparità economiche lei propone una piattaforma democratica-socialista. Cos’è?
«Il nostro obiettivo dovrebbe essere creare una società in cui tutti i cittadini hanno la possibilità di vivere decentemente. Un sistema sanitario nazionale che garantisca assistenza medica a tutti, educazione pubblica di alto livello dall’età prescolare alla laurea. Eliminare le tasse nei college e nelle università statali. Ogni cittadino, a prescindere dal suo reddito, deve essere in grado di accedere a un’istruzione di qualità. Il salario minimo deve essere alzato in modo da garantire la sopravvivenza a tutti. Nessuno conosce la formula magica per la felicità. Ma se hai una certa sicurezza economica la tua vita sarà sicuramente migliore. Dovremmo fare quello che hanno fatto a Seattle o a Los Angeles e che stanno pensando di fare anche a New York: alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora».
Ha definito il riscaldamento globale la minaccia più grave che abbiamo davanti. Come pensa di affrontarla?
«Per l’America il cambiamento climatico è una minaccia più grave del terrorismo. Non voglio dire che il terrorismo non sia un problema serio, ma investiamo 600 miliardi di dollari all’anno nelle spese militari. Dobbiamo far convergere le risorse economiche e la volontà politica. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il nostro sistema energetico e allontanarlo dal combustibile fossile. Allo stesso tempo, consapevoli del fatto che ci saranno delle ripercussioni sull’industria del carbone e del petrolio, dobbiamo proteggere i lavoratori di questo settore. Dobbiamo fare in modo che abbiano dei nuovi posti di lavoro, dobbiamo svoltare in modo aggressivo verso l’energia solare».
Ha detto che a Wall Street «la frode è un modello di business». Corriamo ancora rischi di bolle speculative?
«Assolutamente. Abbiamo salvato Wall Street perché le banche erano “troppo grandi per fallire”. Oggi, tre delle quattro banche più potenti d’America sono ancora più potenti di quando erano già troppo grandi per fallire. Sono preoccupato della possibilità che saremo costretti a salvarle ancora? Sì. Se le banche sono troppo grandi per fallire, allora sono troppo grandi anche per esistere».
C’è qualche candidato repubblicano che secondo lei potrebbe essere un presidente valido?
«Se consideriamo i candidati nel loro insieme vediamo un partito che si è spostato molto, molto, molto a destra. Un partito in cui le persone mentono in continuazione per coprire gli interessi che rappresentano. Tolte le sottigliezze politiche, ecco quello che rimane: più tagli alle tasse per i miliardari, quasi tutti pensano che dovremmo tagliare la previdenza sociale, alcuni dicono addirittura che dovremmo privatizzarla. Tagliare Medicare, tagliare i fondi federali per l’educazione e per le mense scolastiche. Inoltre a quanto pare molti di loro sono interessati a trascinarsi in un’altra guerra in Medio Oriente. Potrei dire che in alcune circostanze Rand Paul ha detto qualcosa di sensato. Ma d’altra parte, cosa ha detto recentemente? Che io sono come Pol Pot?».
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MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA 27/1 –
«Per uscire da questa nuova crisi tutti puntano sull’effetto di traino dell’economia americana, quella che appare più in salute. Ma il nostro sistema è minato dagli squilibri crescenti nella distribuzione del reddito che, al di là di tutte le questioni di giustizia sociale, incidono in misura significativa anche sullo sviluppo del reddito nazionale. Nei prossimi mesi vedremo un significativo rallentamento e non escludo che alla fine del 2016 l’economia americana entri in recessione».
Celebre economista liberal dell’università di Berkeley, in California, ministro del Lavoro Usa durante la presidenza di Bill Clinton, Robert Reich per 25 anni ha assecondato, con le sue analisi, una crescita basata sui meccanismi della globalizzazione e sull’automazione dei processi produttivi, proponendo solo di attutire l’impatto di questa evoluzione naturale del sistema economico sul mercato del lavoro con reti di protezione sociale e una migliore formazione professionale. Da qualche tempo, però, Reich si è convinto, insieme ad altri suoi colleghi, che quella della polarizzazione dei redditi è diventata una grave patologia del capitalismo e ha cominciato a battersi per una sua profonda riforma.
Oggi lei va più in là: sostiene addirittura che questo tipo di capitalismo non solo rende i ricchi ancora più ricchi e i poveri più poveri, ma rischia addirittura di portare alla recessione. Perché?
«Con i nuovi problemi che emergono in Europa, la Cina che rallenta bruscamente, Brasile e Russia in crisi profonda, l’America non può più puntare su una crescita basata sulle esportazioni, tanto più che il dollaro si è rafforzato in modo sostanziale. Lo sviluppo dovrebbe essere sostenuto dalla domanda interna che per il 70 per cento è costituita, come lei sa bene, dalla domanda dei consumatori, cioè delle famiglie. Ma i consumatori nel 2016 non avranno abbastanza reddito disponibile per una crescita a pieno regime: il motore girerà a due cilindri, e questo per colpa dell’aumento delle diseguaglianze. Guardi i dati: il reddito medio degli americani, corretto al netto dell’inflazione, è inferiore del 4 per cento ai livelli del 2000. Cala molto anche la retribuzione media dei giovani, compresi i laureati. Quindi rallenta anche la formazione delle famiglie: più gente che rimane in casa con i genitori, meno matrimoni, meno figli, meno richiesta di nuove case, meno domanda di beni e servizi».
Recessione, allora?
«Sicuramente un forte rallentamento. La recessione è una forte possibilità, le attribuisco un livello di probabilità che va da 30 al 50 per cento».
Nell’intervista che facemmo sei mesi fa, poco prima dell’uscita del suo libro Come salvare il capitalismo, pubblicato in Italia da Fazi, lei concluse dicendo che quella di definire nuove regole non per trasferire reddito dai ricchi ai poveri, ma per andare verso una distribuzione più equa già nella fase di produzione della ricchezza non è solo una sfida sociale ed economica: è una sfida per la tenuta della democrazia.
«Be’, per convincersene basta dare un’occhiata alla campagna elettorale americana per la Casa Bianca. Lasci perdere per un attimo le posizioni politiche di ognuno di noi: io condivido gran parte delle proposte di Bernie Sanders e di certo non apprezzo i proclami, le idee e lo stile bombastic di Donald Trump, l’equivalente americano di Berlusconi. Ma oggi loro due sono i grandi fenomeni della campagna elettorale perché, in modi diversi, sono i campioni dell’antipolitica. Fanno appello gli stessi elettorati, di destra e sinistra: un ceto medio sfibrato dal continuo calo del suo potere d’acquisto che ha perso ogni fiducia nell’establishment, in chi gestisce un sistema, quello attuale, che non tiene più».
Certo, un europeo fatica a capire come un miliardario di New York che ama ostentare la sua ricchezza fino a costruire grattacieli dorati possa diventare il campione di contadini e operai del Mid-West o del profondo Sud americano.
«Esattamente per questo: i colletti blu conservatori tifano Trump perché vedono in lui non il miliardario ma una specie di “Superman” che promette di demolire l’establishment, compreso quello di Wall Street. Che, infatti, lo teme, ma non sa più cosa contrapporgli. All’estremo opposto, lo scenario nel quale si muove Sanders è molto simile. Sembrava un rivoluzionario destinato a raccogliere briciole nel mercato della politica e invece la sua proposta di cambiamento radicale, una vera rivoluzione politica, sta ricevendo consensi a valanga nel mondo democratico, mettendo in pericolo la candidatura della Clinton che propone continuità, pur con qualche miglioramento, rispetto all’era Obama. Gli elettorati sono molto diversi, ma lo scontento, il rifiuto dell’establishment, è lo stesso nel campo democratico come in quello repubblicano».
Eppure il bilancio di Obama non è poi così negativo. Ha tirato fuori il Paese dalla Grande recessione del 2008-2009, ha evitato una nuova depressione, ha riportato il mercato del lavoro quasi a una condizione di piena occupazione coi disoccupati ridotti al 5 per cento.
«I progressi ci sono stati, non c’è dubbio. Ma dietro quei dati del lavoro così positivi, come i quasi 300 mila posti in più a dicembre, c’è la realtà di mestieri sicuri e ad alto reddito che spariscono, sostituiti da lavori assai più precari e pagati assai meno. Molti americani sono addirittura usciti dal mercato del lavoro e molti degli impiegati di quelle statistiche hanno solo un lavoro part time. Il reddito medio non cresce o cresce di poco rispetto all’anno precedente mentre il confronto con 15 anni fa, come le dicevo prima, è deprimente. È per questo che c’è tanto scontento in giro, nonostante dati statistici così positivi».
Lei si è convinto, e lo ha scritto nel suo libro, che l’aumento delle diseguaglianze in Occidente non dipende solo da fattori oggettivi come la globalizzazione che fa entrare nel mercato la forza-lavoro dei Paesi a basso reddito. È cambiata soprattutto la bilancia del potere politico: più influenza dei ricchi, della finanza, delle grandi imprese contrarie a riforme destinate ad avere un impatto sulla distribuzione del reddito. Una evoluzione sua e di qualche altro esponente della cultura liberal o vede un movimento più ampio nella scienza economica?
«All’ultimo meeting dell’associazione degli economisti sono stati presentati ben 90 paper focalizzati sulle diseguaglianze e sui loro effetti: studi focalizzati sul circolo vizioso tra accumulazione della ricchezza e influenza politica sul Congresso. Qualcosa di profondo sta cambiando anche tra gli economisti mainstream».
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GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA 26/1 –
Donald Trump vuole riscrivere anche le regole dei dibattiti televisivi e, già che c’è, del giornalismo in generale: stabilire quali sono le domande «corrette» e quali no. Ieri ha confermato che non parteciperà all’ultimo confronto con gli altri candidati in Iowa, trasmesso in diretta questa sera da Fox news. Motivo? La giornalista Megyn Kelly, una dei due moderatori, ha un atteggiamento «pregiudizialmente ostile». Il responsabile della campagna di Trump, Corey Lewandoski, da sabato scorso sta cercando di convincere i dirigenti della catena televisiva a sostituirla in video. Le telefonate, le pressioni sono finite rapidamente sui siti online dei giornali. A Trump, è chiaro, tutto ciò non dispiace. Qualche giorno fa aveva detto: «potrei anche sparare a qualcuno sulla Quinta Avenue e non perderei voti». E, ieri mattina, in perfetta continuità, ha twittato: «Mi rifiuto di chiamare Megyn Kelly una bambolona, perché non sarebbe politicamente corretto. Invece la chiamerò solo una giornalista irrilevante». Certo, Kelly è bionda, ma anche Trump, in qualche modo, lo è.
La «anchor woman» si era fatta notare nel primo dibattito organizzato da Fox news il 6 agosto scorso, in particolare con questa domanda rivolta al sessantanovenne miliardario newyorkese: «Lei definisce le donne che non le piacciono “grassi maiali”, “cagne”, “esseri sporchi e pigri”, “disgustosi animali”. Sta per caso dichiarando guerra alle donne?». Trump, in qualche modo, svicolò, ma subito dopo cominciò a prenderla di punta.
Ex avvocato, 45 anni, sposata, tre figli, Kelly è uno dei commentatori più seguiti negli Usa. Nel 2014 la rivista Time l’ha inserita tra le 100 personalità più influenti del Paese. Fox news mantiene la posizione e accusa Lewandoski di aver apertamente minacciato Kelly. Sono seguite smentite e conferme da una parte e dall’altra. La giornalista si limita a osservare che Trump non può scegliersi gli interlocutori. Il candidato capolista dei sondaggi, invece, tira in ballo anche i soldi, uno dei suoi soggetti preferiti: «Voglio vedere quanti dollari faranno senza di me» e annuncia che passerà la serata con un gruppo di veterani feriti in guerra.
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PAOLO MASTROLILLI, LA STAMPA –
Se Donald Trump verrà eletto presidente, gli Stati Uniti avranno per la prima volta nella loro storia una first lady che ha posato nuda sulla copertina di un giornale. Melania Knavs, la modella slovena che ha sposato in terze nozze, lo fece nel 2000 su Gq, proprio per celebrare la loro focosa relazione. Questo dice qualcosa sull’America che verrebbe con lui, e su come l’aspirante capo della Casa Bianca vede le donne?
Lo scontro con la «Fox»
La domanda è lecita perché Trump, fra le altre cose, ha appena annunciato che stasera non parteciperà al dibattito presidenziale fra i candidati repubblicani, ospitato dalla Fox. Motivo: non sopporta la giornalista Megyn Kelly, che sarà fra i moderatori. La disputa era cominciata nel dibattito del 6 agosto scorso, quando Megyn aveva ricordato a Donald di aver definito le donne «maiali grassi, cani, animali disgustosi», e quindi gli aveva chiesto se questo era un linguaggio accettabile da parte di un Presidente degli Stati Uniti. Lui se l’era cavata con una battuta, «mi riferivo solo a Rosie O’Donnell», e poi aveva aggiunto che la correttezza politica è il cancro dell’America. La polemica ora è sfociata nella decisione di boicottare il dibattito di stasera, ma ha pure alimentato un dibattito sulla misoginia di Trump, a cui lui ha risposto esibendo appunto Melania, la figlia Ivanka, e tutte le donne che ha assunto in posizioni dirigenziali.
Modella slovena
Melania è nata nel 1970 in Slovenia, e ha studiato architettura all’università di Lubiana. A 18 anni aveva firmato con un’agenzia di modelle milanese, e da allora la sua vita era cambiata. Nel 1998, durante la «fashion week» di New York, era andata ad una festa organizzata da Paolo Zampolli al Kit Kat Club, dove aveva incontrato Donald. Lei aveva 28 anni; lui, impegnato allora nel divorzio dalla seconda moglie Marla Maples, ne aveva 52. Poco dopo si erano sposati con una cerimonia a Palm Beach, dove lei indossava un abito di Christian Dior da centomila dollari. Ora vive nella penthouse della Trump Tower sulla Fifth Avenue, decorata in stile Luigi XIV con marmi e oro, cresce il figlio Barron avuto con Donald, e cura la sua linea di gioielli.
Il marito la venera, almeno in pubblico, e la esibisce come una delle prove di quanto sia buono con le donne. Sarebbe la seconda first lady nata all’estero, dopo Louisa Quincy Adams che era entrata alla Casa Bianca nel 1825, e certamente una novità assoluta rispetto a Michelle Obama, Laura e Barbara Bush, Hillary Clinton, ma anche rispetto all’attrice Nancy Reagan.
Le donne di Donald
Donald dice che la sua storia con Melania smentisce tutte le accuse di misoginia, come pure quelle con la prima moglie Ivana e la seconda Marla, che finora hanno rifiutato di confermare le accuse di maltrattamenti insinuate dai suoi critici. È vero che Donald aveva posato sulla copertina di Playboy, nel 1980, e gestiva Miss Universo, ma per lui era tutto a fin di bene. La figlia Ivanka è l’erede designata della sua compagnia, la Trump Organization, dove il 43 per cento dei dipendenti sono donne. Nessuna società dello stesso tipo, secondo l’avvocato di Trump Michael Cohen, ha così tante signore in posizioni dirigenziali, tipo la senior vice president Rhona Graff, o la responsabile delle risorse umane Deidre Rosen. Già negli Anni Ottanta Louise Sunshine era stata vice presidente esecutiva della compagnia, e Barbara Res aveva gestito la costruzione della Trump Tower.
Anche per la corsa presidenziale Donald si è affidato ad una rappresentante del gentil sesso, Hope Hicks, che governa le sue relazioni pubbliche e in pratica fa da manager della campagna. Hope è una ex modella di 27 anni, ma questo cosa vuole dire? Donald dice di averla scelta solo perché è la migliore nel suo lavoro, come tutte le altre donne che hanno illuminato la sua vita.
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Sono la ”pancia” dell’America, uomini e donne (più i primi che le seconde) prevalentemente bianchi, scontenti o incattiviti verso la casta di Washington, frustrati da otto anni di un nero alla Casa Bianca (e dalla crisi economica), sempre più insofferenti verso emigranti, piccoli crimini, tasse federali (e locali), costi dei college e tutto ciò che è politicamente corretto. Vivono in ogni angolo degli States, dalle periferie delle coste alle praterie, dalle città del sud a quelle montane, sono agricoltori, infermiere, impiegati e assicuratori, una
middle class
sempre più povera, irritata e amante delle armi. Sono gli elettori di Donald Trump, il candidato-miliardario su cui (quasi) nessuno avrebbe scommesso un nichelino quando nel giugno scorso annunciò la propria candidatura a presidente degli Stati Uniti.
Per capire cosa pensino gli uomini e le donne che vogliono che l’America «torni quella di un tempo», la Cnn ha raccolto dichiarazioni e commenti, battute e insulti di chi ha deciso - ed è la maggioranza dell’elettorato repubblicano - di votare per Trump. «Quelli che vengono qui dalla Cina o dall’Indonesia vogliono solo fare figli; loro si prendono tutto e a noi non resta nulla» (Paul Weber, Appleton, Iowa); «Torno e qualcuno si è preso la mia casa, mangia il mio cibo, ruba i letti dei miei figli e i soldi dal mio portafoglio » (Deena, Myrtle Beach, South Carolina); «L’Islam è patriarcale, sono un musulmano se mio padre è musulmano. Per questo è innegabile che Barack Obama sia nato musulmano» (Michael Rooney, Worcester, Massachusetts); «Nessuno si preoccupa più dei bianchi, la discriminazione contro di noi è reale» (Rhett Benioff, Raleigh, North Carolina); «Gli americani bianchi hanno fondato l’America, adesso veniamo messi da parte per colpa del presidente e dei media » (Patricia Saunders, South Carolina); « Hey, hey, ho, ho, All the Muslims have to go » (uno degli slogan preferiti ai rally elettorali di Trump. «Tutti i musulmani se ne devono andare», negli Usa oggi sono quasi due milioni quelli dichiarati). «Lo amo perché è un businessman. Quello che dice di fare lo fa» (Linda Wilkerson, North Carolina).
Non mancano le sorprese. Curt Handschug, elettore indipendente che nel 2012 ha votato per Obama, oggi non vede altra scelta: «O Trump o nessuno».