Gianni Toniolo, Il Sole 24 Ore 27/1/2016, 27 gennaio 2016
DEBITO PUBBLICO E CREDIBILITA’ ITALIANA
Mai nella nostra storia abbiamo avuto un rapporto debito-Pil tanto elevato quanto quello attuale (135%, se sarà confermata per il 2015 la crescita del reddito dello 0,8 per cento). Fanno eccezione gli anni immediatamente successivi alla prima Guerra mondiale, (159% nel 1922) a causa dei debiti contratti con gli alleati durante la guerra, poi consolidati e pagati solo in minima parte.
Dall’inizio della Grande Recessione, il debito pubblico degli italiani è cresciuto di circa 600 miliardi, grosso modo 10 mila euro per ciascuno di noi (Davide Ricardo non si stupirebbe che gli italiani risparmino invece di consumare). L’espansione della spesa pubblica in disavanzo è stata ovunque la risposta alla caduta della domanda aggregata. Usa e Regno Unito l’hanno applicata in modo massiccio con buoni risultati, i paesi europei più timidamente. L’Italia partiva malauguratamente da un debito già molto elevato (102% del Pil nel 2007) ed esce dalla crisi con un debito aumentato di circa un terzo, tanto da costituire oggi forse il principale problema economico del Paese, anche – ma non solo – per il suo legame con i problemi del sistema bancario (non è una coincidenza che lo spread sui nostri titoli sovrani sia inversamente correlato alle quotazioni dei principali istituti di credito).
La montagna del debito accumulato frena la crescita del reddito e dell’occupazione: favorisce la rendita, si accumula nei bilanci delle banche, con effetti negativi sulla loro capacità di sostenere le imprese, sottrae al bilancio pubblico, con il pagamento degli interessi, risorse che sarebbero preziose per gli investimenti pubblici e per rendere stato lo sociale più amico della crescita oltre che l’uguaglianza. Soprattutto, un livello tanto elevato di debito mette il paese nelle mani volatili dei mercati – come nella crisi di fine ’800, come nel 2011 e come mostra la storia di altri paesi – creando un clima di incertezza nemico degli investimenti. Infine, e non è cosa da poco, un indebitamento al limite della sostenibilità toglie alla politica fiscale la flessibilità necessaria per smussare gli andamenti ciclici. Se ci fosse un’altra crisi avremmo minore spazio di manovra che in quella recente.
Storicamente, la strada maestra per la riduzione del peso del debito è stata quella della crescita accompagnata da credibili impegni a contenere il disavanzo pubblico. Così l’Inghilterra abbatté a poco a poco sia il debito (oltre il 200% del Pil) accumulato per sconfiggere Napoleone sia quello creato nella guerra al nazismo. Così fece l’Italia tra il 1894 e il 1911, nei primi anni Venti e, con maggiore timidezza, tra il 1994 e il 2007 (perse invece l’occasione di fare altrettanto negli anni Ottanta e ancora ne paghiamo le conseguenze). Ma la nostra crescita attuale è fievole (anche a causa dell’elevato indebitamento, in un circolo vizioso che deve essere allentato), l’inflazione, amica dei debitori, è prossima a zero. Nel futuro prossimo, dunque, la riduzione del rapporto debito/Pil non potrà che essere lenta. Ciò rende il paese, a cominciare dal suo sistema bancario, più fragile di altri di fronte alla volatilità dei mercati e a “incidenti di percorso”, esogeni e domestici, sempre in agguato.
I rischi legati a un elevato indebitamento si riducono, anzitutto, mostrando nei fatti che la riduzione del rapporto tra debito e reddito è una priorità strategica nazionale. Tra il 1898 e il 1911 successivi governi hanno coerentemente perseguito, indipendentemente dal loro colore, la riduzione del debito. Tutta la classe dirigente del Paese aveva compreso che si trattava di un primario interesse nazionale. Gli effetti positivi di questa coerenza sulla stabilità del sistema finanziario italiano si apprezzarono durante la crisi mondiale del 1907. Oggi, l’insistenza per sforamenti del disavanzo pubblico per piccole frazioni di punto, riducono l’avanzo primario mentre contribuiscono in modo trascurabile alla crescita, manda segnali ambigui ai mercati e indebolisce la posizione contrattuale del Governo in seno alla Ue sulle questioni di ben altra rilevanza che giustamente solleva. Per aumentare la crescita e ridurre i rischi sistemici, bisogna attenersi a un percorso di lungo periodo di riduzione del debito e rendere più attraente l’Italia agli investitori con le cosiddette riforme. È importane anche la retorica: diciamo chiaramente agli italiani che queste cose si fanno nell’interesse del Paese, non perché le chieda l’Europa. Riconosciamo piuttosto, anche nel discorso pubblico, che l’Europa – perfino questa Europa tanto difettosa – è quanto di meglio un paese più fragile di altri possa avere per ridurre i rischi che vengono dalla geopolitica e dall’economia globali. Per questo motivo, è per noi molto più importante ottenere una maggiore condivisione europea dei rischi che nuove piccole flessibilità di bilancio. Ma la sfiducia reciproca spinge in senso opposto. Mostrando un credibile impegno alla riduzione, seppure lenta, del debito, l’Italia può contribuire a ridurre il gap di fiducia tra gli stati membri, avrà più peso e carte migliori nel negoziato sull’Unione Bancaria, a cominciare dal Single Resolution Fund, la cosa più importante di cui oggi abbiamo bisogno.