Arturo Zampaglione, Affari&Finanza – la Repubblica 25/1/2016, 25 gennaio 2016
COCA-COLA IN CRISI, IL RITORNO ALLE ORIGINI
Dal grattacielo di One Coca-Cola Plaza ad Atlanta, dove ha sede la società che da 130 anni inonda il mondo di bollicine zuccherate ed è il simbolo del bere all’americana, sta per essere lanciata una maxi-campagna pubblicitaria. Lo slogan? Taste the feeling (Assaggia le sensazioni). Sostituirà la vecchia strategia di marketing del 2009 (Open Happiness), che tentava di associare le celebri bottigliette a un senso di felicità collettiva, concentrandosi invece sul loro «gusto rinfrescante». Ovvero, sulle qualità del prodotto, più che sul ruolo social.
Dietro al nuovo messaggio pubblicitario c’è il tentativo di rilanciare il brand di base della multinazionale di Atlanta e soprattutto di reagire al «movimento tellurico», come lo chiama il New York Times, che sta cambiando le abitudini alimentari di 320 milioni di americani con effetti potenzialmente catastrofici su Big Food, cioè sui colossi del cibo e delle bevande Made in Usa. Nel caso della Coca-Cola si assiste anche a un altro fenomeno: mentre la bevanda tradizionale, la formula “classic”, tiene tutto sommato le posizioni, franano tutte le mille variazioni sul tema (light, diet, zero eccetera) delle quali gli americani «non si fidano».
La nazione che ha regalato il fast food al resto del mondo e che ha imposto a livello globale i suoi cereali zuccherati, le sue bollicine iper-caloriche, i suoi cibi confezionati, ha cambiato direzione. I consumatori, specie i cosiddetti Millennials, cioè i giovani tra i 20 e i 37 anni, tradiscono le marche famose e chiedono sempre più prodotti freschi e organici. E a farne le spese sono i nomi simbolo dell’alimentazione: McDonald’s, General Mills e soprattutto la Coca-Cola. I consumi pro-capite di bevande gassate sono scesi negli Stati Uniti del 25% dal 1998. A vantaggio di chi? Dell’acqua: perché gli americani sembrano sempre più consapevoli dei pericoli dello zucchero nel provocare problemi di peso e obesità, e al tempo stesso dei rischi per la salute dei dolcificanti artificiali che sono alla base delle bevande light o diet. Nello stesso periodo la domanda di succo d’arancia confezionato, un baluardo del “breakfast all’americana”, è crollato del 45%. Le vendite di Corn Flakes e altre scatole di cereali zuccherati sono calate di un quarto dal 2000. Il fatturato dei locali McDonald’s è in diminuzione da tre anni.
Secondo un sondaggio, il 42 per cento dei giovani americani «non si fida» dei colossi dell’alimentazione. Intanto negli ultimi 5 anni è salito del 10 per cento il consumo di verdura e del 30 per cento quelle di cibo fresco già confezionato. Big Food cerca di reagire. E già da tempo il mangaer turco-americano Muhtar Kent, 63 anni, e da sette chief executive della Coca-Cola, ha avviato – con l’aiuto del suo numero due, James Quincey, 50 anni, appena arrivato ad Atlanta dopo aver guidato le operazioni europee – un ambizioso piano strategico di ristrutturazione, di tagli dei costi (3 miliardi di dollari entro il 2019) e di rafforzamento di immagine e di mercato del prodotto base.
Intendiamoci: la Coca-Cola Company è ancora un gigante globale che presenta ottimi risultati di bilancio, a tutto vantaggio di una marea di piccoli azionisti e grandi investitori, a cominciare da Warren Buffett, “l’oracolo di Omaha”, che attraverso la sua holding Berhshire Hathaway ne controlla il maggiore pacchetto, con il 9,2% del capitale. Alle dipendenze di Kent ci sono 129mila dipendenti sparsi per il mondo. Il fatturato del 2014 (i dati del bilancio dell’anno scorso saranno ufficializzati a febbraio) ha superato i 45 miliardi di dollari, con utili netti di 7,8 miliardi. Quotata a Wall Street con il simbolo KO e inclusa tra le 30 aziende-chiave dell’indice Dow Jones industrials, la Coca-Cola, pur non facendo faville in Borsa, ha reagito saldamento agli ultimi scossoni degli indici. Le quotazioni sono stazionarie rispetto ai valori massimi: mercoledì scorso, mentre i mercati cercavano faticosamente di riprendersi dalla paura cinese e dalle intemperie del petrolio, erano a 41 dollari, poco sotto ai 43 dei valori massimi raggiunti negli ultimi 12 mesi. La capitalizzazione di Borsa è di 180 miliardi di dollari, rispetto ai 137 miliardi della concorrente più diretta, la PepsiCo guidata dall’indiana Indra Nooyi, e rispetto agli 8,7 miliardi (solo a titolo di paragone) della Fiat-Chrysler di Sergio Marchionne.
Al di là di questa solidità di fondo, osservano però gli analisti, la Coca-Cola si trova di fronte a una sfida epocale e proprio il 2016 sarà un primo banco di prova. Come può contrastare il tradimento di quel 63 per cento di americani, che l’anno scorso, secondo un sondaggio Gallup, hanno confessato di aver messo al bando le bollicine? Come deve reagire di fronte all’allarme lanciato dalla Organizzazione mondiale della sanità, l’agenzia dell’Onu che ha sede a Ginevra, secondo cui le bevande zuccherate sono le principali responsabili dell’epidemia di diabete, obesità e carie? Come può impedire che un crescente numero di amministrazioni locali americane impongano tasse specifiche sulle bottiglie di «soda» (come vengono chiamate negli States), in nome della salute del pubblico, e in particolare dei ceti più deboli che ne consumano di più?
Sul fronte interno la Coca-Cola, assieme alle altre grandi società di bevande, ha lanciato da tempo una controffensiva legale, sguinzagliando avvocati e società di Pr, per bloccare i tentativi di frenare i consumi di zucchero con l’arma fiscale. Un’altra speranza di Atlanta è che i trend di mercato nei paesi meno avanzati, e dove c’è meno consapevolezza sui pericoli dello zucchero, controbilancino i cali nelle nazioni più progredite: anche se il recente apprezzamento del dollaro rischia di ridimensionare, in termini di bilancio complessivo della casa-madre, gli utili conseguiti dalle consociate all’estero.
E comunque il problema di fondo resta quello dei consumatori americani: il chief executive Kent, il numero due Quincey e il direttore marketing del gruppo, Marco de Quinto, puntano al suadente messaggio della nuova campagna pubblicitaria “Taste the feeling”. Ma sanno anche che non sarà facile, come ricorda una iniziativa anti-Coke degli attivisti del Centro per la scienza nel pubblico interesse. Ironizzando su un vecchio e famosissimo spot della Coca-Cola, in cui si vedevano dei giovani su una collina che cantavano «I’d like to buy the world a Coke» (Vorrei comprare una Coke al mondo), il Centro ha diffuso un video su YouTube che mostra un gruppo di degenti in ospedale mentre intonano una strana canzone: «Vorrei comprare al mondo una bevanda che non fa ammalare…».
Arturo Zampaglione, Affari&Finanza – la Repubblica 25/1/2016