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 2016  gennaio 25 Lunedì calendario

PETROLIO, IL PARADOSSO DELLA PRODUZIONE

È dalla dinamica degli investimenti che nasce la crisi petrolifera che stiamo vivendo. Molte compagnie e Paesi petroliferi hanno annunciato tagli ai propri piani di spesa: quasi nessuno, tuttavia, ha fermato gli investimenti già avviati qualche anno fa per lo sviluppo di nuova capacità produttiva. In molti casi, le prime produzioni frutto di quegli investimenti stanno arrivando solo adesso sul mercato, mentre altri investimenti sono in via di completamento, e i loro effetti si vedranno nei prossimi due-tre anni. Il risultato è che la capacità produttiva e l’offerta di petrolio continuano e continueranno a crescere. È come se gli investimenti passati avessero dato vita a una lenta ma poderosa onda di tsunami, che dopo aver viaggiato per miglia nell’oceano si sta infine abbattendo sulle coste, spinta da un’inerzia inarrestabile. Per effetto di quell’onda, la produzione di petrolio di quasi tutti i paesi del mondo sembra aver sfidato la legge di gravità dei prezzi, in alcuni casi in modo sorprendente. La Russia, per esempio, mese dopo mese sta battendo i record produttivi dell’era post-sovietica, nonostante le sanzioni internazionali e una situazione finanziaria difficile; ciò le consente di rimanere il più grande produttore di greggio al mondo con l’Arabia Saudita (anche se i sauditi hanno una maggiore capacità produttiva, in parte non utilizzata). Contro ogni logica apparente anche il caso del Canada, il quarto produttore globale di petrolio. Nonostante costi di sviluppo tra i più alti al mondo, il paese ha superato una produzione di 4 milioni di barili al giorno (mbg), record storico. Stupefacente il caso del Mare del Nord (suddiviso tra Norvegia e Gran Bretagna), da oltre 15 anni un’area produttiva in costante declino. Grazie a investimenti superiori ai 120 miliardi di dollari tra il 2012 e il 2015, le produzioni norvegesi e britanniche sono tornate a crescere. Forte la crescita anche nei due principali produttori Opec dopo l’Arabia Saudita, Iraq e Iran, con quest’ultimo che si appresta a aumentare ancora la propria produzione dopo l’eliminazione di parte della sanzioni internazionali. E gli Stati Uniti? Secondo molti “esperti” avrebbero visto evaporare la produzione di petrolio da shale, troppo costoso per reggere la caduta dei prezzi. Ma per disdetta di quegli esperti, lo scorso aprile la produzione americana ha toccato un quasi-record storico (9.7 mbg, solo greggio); in seguito è calata (oggi si aggira sui 9.2 mbg), ma troppo poco rispetto a quanto tutti vaticinavano. Vale la pena di ricordare che i sauditi – e con loro la quasi totalità degli osservatori – ritenevano che già a 75 dollari a barile di quotazione del greggio, la produzione USA sarebbe crollata di almeno 3 mbg! Probabilmente, proprio gli Stati Uniti saranno il paese che più risentirà della crisi dei prezzi nel corso del 2016. La produzione scenderà, tra fallimenti di molte compagnie dello shale e passaggi di mano degli asset produttivi migliori a società più solide. Ma attenzione: la produzione di shale oil diminuirà, ma ancora una volta meno di quanto molti si aspettano. La sua resistenza dipende da continui avanzamenti delle tecnologie, migliore conoscenza dei giacimenti, maggiore efficienza delle società, e una drastica caduta dei costi. Questo fenomeno non è limitato ai soli Stati Uniti: al contrario, è un fattore esteso a livello mondiale, che contribuisce a rendere meno penosa la crisi per molti produttori di petrolio. Mentre tutti si concentrano sui prezzi in caduta libera, pochi guardano all’altra parte dell’equazione: anche i costi di sviluppo e produzione stanno crollando, rendendo più basso il breakeven degli investimenti. Noleggiare un impianto di perforazione negli Usa costava in media 26.000 dollari al giorno alla fine del 2014: adesso si fa fatica a noleggiarlo per 12-13.000 dollari. Con la crisi dei prezzi, è calata la domanda di servizi per l’industria petrolifera, e le società che forniscono quei servizi sono costrette a abbassarne selvaggiamente i costi per sopravvivere. In questo quadro, i produttori sperano che nel 2016 la domanda di oro nero aumenti in misura sufficiente ad assorbire almeno una parte dell’eccesso di petrolio che si venuto a creare. Tutto può succedere, ma personalmente sono scettico (come lo ero nel passato). Quasi certamente i consumi aumenteranno, trainati dai prezzi bassi; ma l’incremento necessario a eliminare l’eccesso produttivo – che ha raggiunto i 3 mbg (senza considerare le ampie scorte già accumulate) - sarebbe troppo ampio. Peraltro, quell’eccesso produttivo non tiene conto della capacità produttiva inutilizzata esistente nel mondo, che prima o poi potrebbe arrivare sul mercato. I due motori che negli ultimi anni hanno sostenuto la pur modesta crescita della domanda mondiale – Cina e India - non bastano più da soli a dare l’impulso che servirebbe a un sostanziale rimbalzo dei consumi. Inoltre, le politiche per l’efficienza energetica e la lotta all’inquinamento locale che si stanno dispiegando in molte parti del mondo agiscono in qualche modo da freno a una robusta crescita della domanda, come pure il rafforzamento del dollaro e la riduzione dei sussidi in favore dei prodotti petroliferi in molti paesi emergenti. Certo, il mercato potrebbe riprendersi in caso di un’esplosiva crisi geopolitica. Tuttavia, come ha dimostrato il ridottissimo impatto della fiammata nei rapporti tra Arabia Saudita e Iran all’inizio dell’anno, non dobbiamo mai dimenticare una legge non scritta della relazione tra petrolio e geopolitica: le crisi geopolitiche tendono ad avere effetti ridotti o nulli quando la capacità produttiva globale eccede di gran lunga la domanda, soprattutto quando vi è sufficiente capacità inutilizzata disponibile per compensare eventuali interruzioni degli approvvigionamenti di greggio dai paesi interessati alle crisi. In queste condizioni, sembra molto difficile che il 2016 possa rappresentare un anno di sostanziale ripresa per i prezzi del greggio. Al contrario, sono più alte le probabilità che questi tocchino nuovi minimi prima che si scorga qualche luce alla fine del tunnel.
Leonardo Maugeri, Affari&Finanza – la Repubblica 25/1/2016