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 2016  gennaio 25 Lunedì calendario

CINA, PETROLIO, FONDI SOVRANI, BANCHE GLI SCOGLI SULLA ROTTA DEI MERCATI GLOBALI

DAVOS - Cina, petrolio, deflazione, rallentamento della crescita globale. Si sapeva già tutto, ma l’inizio del 2016 è stato un brusco risveglio per chi aveva investito i propri denari nelle Borse mondiali. Poi i mercati hanno recuperato, ma nessuno è disposto a scommettere che sia finita qui. L’unica certezza è che il 2016 non sarà un anno tranquillo, nè per i mercati nè per le economie. Per capire cosa ci aspetta proviamo a tracciare una mappa dei principali fattori di instabilità, cominciando dai primi due, quelli che hanno effetti diretti potenti.
La Cina. Le autorità cinesi confermano per il 2015 una crescita del Pil del 6,9% e il Fondo monetario prevede che nel 2016 sarà del 6,5. Non sembra una prospettiva drammatica ma il problema va oltre i numeri ed è nelle trasformazioni in atto nell’economia cinese. Christine Lagarde, numero uno dell’Fmi, indica le due principali: "Dalla manifattura ai servizi e dall’export ai consumi interni". Un cambiamento epocale. Tutte le incertezze connesse, che sono tante, si trasferiscono al mondo esterno attraverso i flussi di capitali e il cambio della valuta, che sta vivendo anch’esso una rivoluzione. Dopo essere stato per molti anni agganciato al dollaro, il renmimbi è ora agganciato a un paniere formato dalle monete dei paesi con i quali la Cina ha i maggiori scambi commerciali. Il primo effetto è stata la svalutazione del renmimbi che, poiché la Cina continua ad essere un grande esportatore di manu-fatti, comporterà anche l’esportazione di deflazione. Il cambiamento del modello economico e delle politiche monetarie e valutarie di Pechino ha fatto sentire già in maniera dirompente i suoi effetti sul prezzo delle materie prime, e quindi sui conti dei paesi esportatori, e lo farà sentire anche sui profitti delle multinazionali occidentali che producono in Cina nonché su quelli delle imprese che esportano in Cina. Gli osservatori si dividono tra quelli che prevedono un brusco atterraggio e quelli che immaginano una transizione lunga (almeno tre anni) e complicata, ma senza crisi devastanti. Comunque andrà, l’effetto sull’economia mondiale sarà meno crescita e una permanente incertezza che accentuerà la volatilità dei mercati.
Il petrolio. Il crollo dei prezzi petroliferi ha due effetti diretti: quello di ridurre i costi nei paesi consumatori e quello di diminuire le entrate dei paesi produttori. Già questi due effetti, vista la dimensione del crollo del prezzo, sono dirompenti. Il primo dovrebbe essere positivo: ha detto Martin Sorrell, il fondatore e leader della multinazionale della pubblicità e della comunicazione Wpp, e dovrebbe avere un effetto positivo su consumi e investimenti soprattutto in Europa, Stati Uniti e Giappone. Il crollo delle entrate invece sta mettendo in ginocchio le economie esportatrici di combustibili fossili, dall’Arabia Saudita alla Russia, dal Venezuela al Brasile. Gli effetti collaterali di questo crollo delle entrate sono però rilevanti anche al di fuori di quelle economie. Per esempio a causa delle minori entrate i paesi del Golfo hanno cominciato a vendere massicciamente le azioni che avevano accumulato nei loro fondi sovrani, e questa è una delle cause principali del crollo dei mercati azionari nelle scorse settimane. Avendo meno entrate hanno già cominciato a tagliare la spesa pubblica, fondamentale strumento di consenso in paesi come l’Arabia Saudita, per la quale qualcuno vede rischi di stabilità politica, ma anche per la Russia di Putin, la cui assertività in politica estera fa da contraltare alla debolezza economica e alla caduta del potere d’acquisto all’interno. L’impoverimento rapido dei paesi esportatori di petrolio e di altre materie prime riduce i loro consumi e investimenti, e quindi incide sui conti delle imprese che esportano in quei paesi. L’ulteriore effetto della caduta del prezzo del petrolio è la drastica riduzione degli investimenti nel settore, che ammontano a molte centinaia di miliardi l’anno che quindi mancheranno alla crescita globale. Nel complesso gli effetti positivi del basso prezzo del petrolio compenseranno quelli negativi solo se determineranno un aumento significativo di consumi e investimenti nei paesi industrializzati, altrimenti prevarranno quelli negativi. Tra i quali i più rilevanti sono in politica l’instabilità nei paesi produttori e in economia il contributo alla deflazione mondiale.
La deflazione. Una moneta che aumenta il suo potere d’acquisto sembra una benedizione ma non lo è, perché aumenta il peso dei debiti, il cui valore reale cresce, e deprime consumi e investimenti che si tende a rinviare sapendo che domani i prezzi saranno più bassi. Le matrici della deflazione sono potenti e a rimuoverle non basteranno neanche le politiche monetarie più espansive. La più evidente, ma anche la più congiunturale (che però ci accompagnerà a lungo) è il crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime. La seconda è legata alla svalutazione del renmimbi e quindi dei prezzi (in euro, in dollari o in yen) delle merci esportate dalla Cina. Il terzo fattore è la globalizzazione che ha già avuto questo effetto consentendo di produrre a basso costo nei paesi emergenti, effetto che è stato a lungo nascosto dalla crescita vorticosa dei consumi tra la fine degli anni ‘90 e il 2007. Ora i consumi non crescono più a quel ritmo e la globalizzazione che aveva contribuito a tenere bassa l’inflazione negli anni di boom ora che il boom non c’è più determina deflazione. Il quarto fattore è il più strutturale e anche il meno indagato: la digitalizzazione. La prima fase che è ancora in corso ha avuto il suo impatto sulla produzione di beni e servizi, riducendo i costi e il lavoro impiegato. Un impatto che crescerà ancora e al quale se ne sta aggiungendo un altro: la disintermediazione. Internet consente un rapporto diretto tra produttore e consumatore (AirBnB ne è un esempio, e l’e-commerce è la forza più potente), l’effetto è che saltando i passaggi intermedi della distribuzione il prezzo finale si riduce, il che va a tutto vantaggio dei consumatori ed è un fattore positivo, ma l’effetto macroeconomico è la deflazione. Nonostante la determinazione dei banchieri centrali è probabile che la deflazione e il suo effetto negativo su consumi e investimenti (e quindi sulla crescita) ci accompagnerà per molto tempo se non ci saranno politiche strutturali a cambiare il quadro. La deflazione non scomparirà se non aumenterà significativamente il reddito spendibile dei cittadini, grazie a un aumento dei salari, che nel mondo occidentale sono stagnanti da molti anni (perché gli aumenti della produttività sono finiti tutti nelle casse delle imprese) accompagnato da una riduzione della pressione fiscale o almeno da una più efficiente spesa pubblica.
La crescita. Per tutte le ragioni sopra elencate, alle quali si aggiungono le crisi geopolitiche, il terrorismo e il flusso di rifugiati, che aumentano le paure e riducono la fiducia, la crescita globale sarà più lenta. Secondo il vice direttore generale del Fondo Monetario Min Zhu, nei prossimi cinque anni diminuirà addirittura anche la crescita potenziale. Mancherà alla crescita soprattutto il contributo dei paesi emergenti mentre quello della Cina sarà inferiore rispetto al passato. Contribuiranno di più Europa e Stati Uniti, ma nessun paese sarà una vera locomotiva in grado di trainare tutti gli altri. Bassa crescita quindi e zero inflazione o addirittura deflazione, riduzione dei profitti delle imprese e mercati molto liquidi e molto volatili.
L’Italia. Piazza Affari è stata colpita più delle altre Borse europee in questo inizio d’anno con forti vendite soprattutto di titoli bancari. La ragione non è nella condizione dell’economia italiana che è in lieve ma sostenibile ripresa, ma nella vulnerabilità del sistema bancario a causa della massa di sofferenze accumulate in questi anni di recessione. Che le banche italiane abbiano in pancia più sofferenze delle banche degli altri paesi è universalmente noto e quando si scatena un’ondata globale di vendite i paesi e i settori più vulnerabili sono quelli che soffrono di più. E’ bastato il fraintendimento su un questionario tecnico inviato dalla Bce a 40 banche europee (non solo a quelle italiane) a scatenare una ondata di vendite che si è avvicinata pericolosamente al panico. Poi è arrivato il tardivo chiarimento delle autorità di vigilanza. Il problema delle sofferenze resta e ora aspettiamo probabilmente in settimana l’annuncio che è stato raggiunto un accordo con l’Ue su una qualche forma di assicurazione pubblica che consenta alle banche di liberarsi dalle sofferenze a un prezzo non troppo penalizzante e ricominciare a operare senza quel peso sulle spalle. Ci aspetta un anno difficile. Ma, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, probabilmente più per l’instabilità dei mercati che per l’economia reale.
di MARCO PANARA, Affari&Finanza – la Repubblica 25/1/2016