Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 23 Sabato calendario

UN GIORNO DA LEONE


L’ho incontrato a Cannes, qualche anno fa. Tarantino era seduto a tavola. Sebbene io sia schiva, mi sono avvicinata e ho detto: “Sono Raffaella Leone, figlia di Sergio. Volevo ringraziarla per tutte le belle cose che ha sempre dichiarato su mio papà”». Così, all’improvviso, la minuta signora che oggi ci siede davanti per questa intervista si ritrova sollevata in aria dal gigantesco Quentin che, tra sbigottiti commensali, l’abbraccia e urla: «Guardate... È la figlia di Sergio Lionniii! Incredibile! Posso fare una foto con te?». Lei spiega: «Chiedeva a me una foto! Questo è Tarantino: un uomo generoso che ama il cinema. Come lo amava mio padre».
Non c’è film di Fellini, Visconti o Antonioni che per il regista di Pulp Fiction valga una sequenza del Maestro Leone. Le ha imparate a memoria, ne ha analizzato i meccanismi, ha ripetuto gli schemi. Vedi il “triello” (secondo romanissima definizione il duello a tre che crea un’efficace angolazione) o l’uso della musica (leggi Morricone) che, come spiega Tarantino, non è mai orpello, ma parte integrante dell’immagine. E ancora: i personaggi minori ai quali viene data dignità letteraria, grazie a una sequenza da “film nel film”, niente a che vedere con gli anonimi indiani che cadono come birilli sotto i fucili dei cowboy nei film di John Ford. E, infine, il superamento dell’epica americana dove i buoni vincono sui cattivi, creature bidimensionali ritagliate come in un collage. Sia per Leone che per Tarantino nessuno è mai perfettamente buono, i personaggi di dimensioni ne hanno tante.
È anche questo comune sentimento che ha convinto Tarantino a non cedere a una major i diritti di The Hateful Eight – suo ottavo e attesissimo film – ma a scegliere Raffaella come rappresentante del grande cinema italiano. Perché, ritornando a quel ristorante di Cannes, la ragazza lanciata in aria da Quentin non era solo diretta erede del Maestro ma, insieme al fratello Andrea, distributrice e produttrice di grandi pellicole internazionali con una società quotata in borsa che ora porta in Italia (dal 4 febbraio) proprio l’ultimo Tarantino, un western-giallo più di suspence che di azione, grande omaggio a Sergio Leone tanto d’aver convinto un (all’inizio restio) Ennio Morricone a comporre una colonna sonora originale, premiata pochi giorni fa con uno straordinario Golden Globe. Un film girato interamente in pellicola da 70 millimetri perché, come spiega Raffaella, «la proiezione in 70 millimetri è diversa. Si vede di più, si ascolta di più, si è gettati dentro lo spazio e circondati dai personaggi. Un’esperienza necessaria a far tornare il pubblico al cinema, a strapparlo dal divano di casa, a risvegliare l’attenzione. Quentin vuole un evento per insegnare di nuovo cosa può essere l’emozione del cinema. Quella che non si prova guardando un film sul tablet o sull’iPhone». Le chiediamo: film da grande pubblico? Raffaella sorride: «Il grande pubblico è l’ambizione di tutti, il problema è acchiapparlo. Da mio padre, però, abbiamo imparato soprattutto a rispettarlo ». E anche qualcosa di più.
Fin dall’infanzia, infatti, ecco i tre piccoli Leone trascinati sui set degli spaghetti western tra Burgos e Almería, cresciuti con le sarte che facevano giocare Raffaella e Francesca mentre qualche operatore distraeva Andrea. Eccoli vestiti di stracci a far le comparse “alla bisogna”(«È mia sorella la bimba che piange disperata in braccio ad Enrico Maria Salerno in Per qualche dollaro in più). E poi da grandi, a imparare il mestiere.
«“Cosa ti piace fare?”», chiedeva sempre mio padre. Mia sorella disegnava bene ed è così che la indirizzò sulla scenografia. Andrea era bravo in matematica e dunque lo educò da produttore. A me piacevano i vestiti e mi iscrisse all’Accademia del Costume. Dopo neanche un anno pensò che stavo perdendo tempo e mi trascinò sul set, accanto a Gabriella Pescucci (costumista premio Oscar, ndr) perché il mestiere s’impara facendo». Ma nessuno dei tre ha voluto seguire le sue orme, alla regia. «Di regista c’era già lui e per fare un film bastava e avanzava. Era meticoloso, controllava tutto. Montava sceneggiature complesse, con ricerche pignole che duravano anni, studiava a capofitto rivoluzione messicana e guerra civile americana, amava questo lavoro ai limiti della malattia. Il pubblico lo capiva e lo ricambiava». La critica, un po’ meno. Quella alta e colta lo aveva relegato ai margini dell’Olimpo registico “come un mestierante”, spiega Raffaella: «Un autore di prodotti di genere malgirati, polpettoni populisti, anti-ideologici. Chiusi nei loro salotti son convinta che quei film non li abbiano neanche mai guardati per bene. Comunque ho tenuto ogni ritaglio stampa e forse, prima o poi, ne faccio un libro». Il quale spiegherebbe molto dello strabismo che ha afflitto il nostro cinema, scavando un fossato fra film premiati ai festival e ignorati in sala contro blockbuster giudicati indegni. Ma il tempo è galantuomo e Quentin lo è due volte, conferma Raffaella: «Tutto il cinema d’azione nasce con Per un pugno di dollari», ha aggiunto Tarantino, «e per me Sergio Leone e Ennio Morricone sono la Storia del cinema. Devo tutto a loro».