Stefano Lorenzetto, L’Arena 24/1/2016, 24 gennaio 2016
Appresa la notizia che Pietro Maso era stato iscritto dalla Procura di Verona nel registro degli indagati per tentata estorsione, su denuncia presentata dalle sorelle ai carabinieri l’8 gennaio, sono andato a vedermi il servizio del settimanale Chi dal titolo «Ero il male ma il Papa mi ha chiamato», anticipato martedì scorso con quattro lanci dall’agenzia Ansa e ripreso l’indomani da tutti gli organi d’informazione
Appresa la notizia che Pietro Maso era stato iscritto dalla Procura di Verona nel registro degli indagati per tentata estorsione, su denuncia presentata dalle sorelle ai carabinieri l’8 gennaio, sono andato a vedermi il servizio del settimanale Chi dal titolo «Ero il male ma il Papa mi ha chiamato», anticipato martedì scorso con quattro lanci dall’agenzia Ansa e ripreso l’indomani da tutti gli organi d’informazione. Ben sette pagine. La foto d’apertura ne occupa due. Maso indossa una camicia blu notte aperta sul petto fino al terzo bottone, così da lasciar intravedere una corona del rosario appesa al collo. Le maniche sono rimboccate affinché si notino due braccialetti al polso destro e uno al sinistro. A un dito fa bella mostra un anello. Accanto c’è una foto d’archivio. Il ragazzo di Montecchia di Crosara che nel 1991 massacrò padre e madre, aiutato da tre coetanei, è nella gabbia degli imputati durante il processo, avvolto in un giubbino rosso sgargiante. Sfoggia un anello, un braccialetto e un orologio. Trascorso un quarto di secolo, è sparito solo il cronografo, segno che a 44 anni è calato l’interesse per il tempo che passa. Non possiedo le competenze cosmetologiche di Diego Dalla Palma, però giurerei che Maso si sia fatto modellare le sopracciglia con la pinzetta, prima di posare per Chi. Quanto all’abbronzatura tinta cuoio, sembrerebbe frutto di una prolungata esposizione ai raggi ultravioletti sul lettino dell’estetista più che del lavoro nei campi. Del resto rammento l’omelia del vescovo di Vicenza, Pietro Nonis, ai funerali di Antonio e Mariarosa, i genitori trucidati: «È bassa la terra, è dura la terra». Nella doppia pagina seguente, Maso s’è tolto la camicia. Avrà avuto caldo. Torso nudo perfettamente glabro: lo sottoporrà a depilazione periodica? Insieme con tre tatuaggi, ora può meglio ostentare la coroncina di madreperla, che però risulta innaturalmente posizionata di sbieco, quasi ancorata a un capezzolo, dimodoché il braccio nasconda il crocifisso ma non la medaglietta della Madonna con Bambino. Anche qui c’è un significativo raffronto con un’immagine di repertorio: Maso sorridente in Corte d’assise, blazer, camicia bianca e foularino blu a pois bianchi. Senza interruzioni pubblicitarie, si arriva alle due pagine successive. Qui Maso s’è rivestito. Avrà avuto freddo. Però ha dismesso la camicia blu. Adesso ne porta una candida, forse per lasciar trasparire la definitiva conversione nell’anima oltre che nell’abbigliamento. L’ex detenuto si fa ritrarre, chissà perché, con gli occhi chiusi. Dopo la telefonata di papa Francesco avrà anche le visioni celesti? Nell’estasi soprannaturale, non rinuncia alla cura di dettagli terreni: su sette bottoni, ne tiene allacciato solo uno, quello in corrispondenza dell’ombelico, ciò che gli consente di esibire per la terza volta il rosario e pure la fibbia di una cintura griffata. Anche l’acconciatura nel frattempo è cambiata: ora il ciuffo alla Tintin, tenuto su dalla gommina, punta dritto verso l’empireo. Sulla foto mistica compare un credit in corpo 5: «Location: hotel Me Milan». Sapevo che la Madonna appare in grotte circondate da ossi di animali e frequentate da stracciaiole (Lourdes), sui lecci (Fatima), nelle pietraie (Medjugorje), ma non negli alberghi 5 stelle della catena Meliá, e in particolare in quello di Milano ubicato «a 800 metri dal quadrilatero della moda e dalla new town di Porta Garibaldi, con la sua frizzante vita notturna», dove per una suite si spendono 3.500 euro al giorno. Chi era in edicola da appena 24 ore e già cominciavo a nutrire seri dubbi sull’inedita rivelazione contenuta nell’intervista: «Adesso che ho scontato la mia pena lo posso dire: io non ho ucciso i genitori per soldi». E per quale motivo li ha ammazzati, allora? «Ero malato». Mah. A me par di ricordare, avendo seguito il caso da cronista, che a insospettire i carabinieri fosse stato un prelievo da 25 milioni di lire dal conto della madre, mediante assegno recante una firma contraffatta. A ogni modo non si capisce come mai una simile confessione dovesse farla a un giornalista, e solo dopo aver saldato il debito con la giustizia, invece che al pm Mario Giulio Schinaia nel corso delle indagini oppure in sede processuale. Resta da stabilire se anche la tentata estorsione sia avvenuta per infermità anziché per denaro. Il soggiorno nelle patrie galere non pare aver riabilitato Maso granché sul fronte della credibilità. Nel 2013, appena uscito dal carcere, nel libro autobiografico Il male ero io prometteva: «La verità voglio dirla tutta, fino in fondo». A pagina 19 si legge di quella sera in cui al bar John di Montecchia convinse gli amici a trasformarsi in suoi complici: «Se vogliamo più soldi, abbiamo una sola possibilità: uccidere i miei. Sì... uccidiamo i miei e anche le mie sorelle, vendiamo i terreni, la casa, tutto. Ce ne andiamo. Ce ne andiamo via da questo paese di merda». Quattro pagine più avanti, racconta di come non potesse bastargli la Vespa bianca che il padre gli aveva comprato nel giorno del suo 14° compleanno: «C’era solo un telefilm che animava i nostri sogni: Miami Vice. E c’era un solo uomo da imitare: il detective della squadra antidroga Sonny Crockett con i suoi abiti di Valentino e la Ferrari bianca. Ecco dove volevamo arrivare. Il mio idolo era lui, Don Johnson». Sarà stato anche malato, però si dà il caso che sognasse «un mondo di belle donne, belle macchine, bei tramonti» e «una vita di successo», avendo scoperto «che oltre oceano gli uomini avevano bicipiti abbronzati e scolpiti, e non anonime braccia votate alla fatica». Deve decidersi, signor Maso: o lei uccise perché era depresso o uccise per darsi alla bella vita. Su Chi rivela che tutti i suoi guai deriverebbero dal fatto che appena nato soffrì di «una grave forma di meningite», ciò che la costrinse a vivere l’infanzia sotto una campana di vetro. Guardi, nessuno quanto me può capirla. Fui colpito dal medesimo morbo subito dopo essere stato partorito, mi battezzarono in tutta fretta perché stavo morendo, me la cavai grazie a un santo medico che seppe diagnosticare l’infezione e curarmi per quasi tre mesi in ospedale. Dopodiché, esattamente come capitò a lei, i miei evitarono di mandarmi all’asilo e mi fecero vivere in libertà vigilata fino all’adolescenza. Eppure le assicuro che mai m’è passato per la testa di uccidere papà e mamma. Certo veder morire di vecchiaia i propri cari può diventare talvolta un’immeritata benedizione. Al giornalista Valerio Palmieri che gli chiede conto dell’eventuale disponibilità a comparire in un reality show, Maso risponde: «Uno che ha ucciso i genitori non può andare in tv». Però può andare sui giornali, scrivere memoriali, spifferare urbi et orbi che gli ha fatto uno squillo nientemeno che il Vicario di Cristo in terra. Non è la prima volta che accade, non sarà l’ultima. Me lo ricordo durante il regime di semilibertà fotografato in esclusiva su Novella 2000 con Fabrizio Corona (il destino li avrebbe riuniti dietro le sbarre). Poi fidanzato con Stefania Occhipinti (che ora l’ha lasciato) su Chi e su Visto. Poi prossimo alle nozze con la predetta sempre su Chi. Poi sposo in gran segreto (ma solo religiosamente) di nuovo su Chi. Ha una lunga consuetudine con i mass media, il pentito. Era l’8 dicembre 1991 quando pubblicai sull’Arena una lettera aperta indirizzatagli da don Guido Todeschini. È lui, il direttore di Telepace, ad aver ricondotto sulla retta via il killer che da ragazzino frequentò il seminario; è lui che andava a trovarlo tutti i sabati in prigione; è lui che lo ha assunto come contabile nell’emittente di Cerna una volta scarcerato; è lui che ha propiziato la telefonata di papa Francesco. In quella missiva don Todeschini spiegava d’aver visto piangere il giovane detenuto per la prima volta a sette mesi dall’atroce delitto. Portando una pianta di gelsomini sulla tomba dei genitori, gli era parso di udire una loro supplica: «Stagli vicino! È giovane, aiutalo! L’ha combinata grossa, ma non è cattivo». Alla quale aveva risposto: «Un giorno verrà a trovarvi». Così è andata e ce ne siamo tutti rallegrati. Debbo però riconoscere che fu più profetico Giuseppe Brugnoli, all’epoca direttore di questo giornale, il quale, a pagina già chiusa, m’ingiunse di riaprirla per infilarci un suo corsivo nel quale rivendicava il merito «di non aver minimamente partecipato a un diffuso pietismo nei confronti dei giovani omicidi». Non so quanto quel pietismo abbia contribuito a restituirci il Maso di oggi, ancora in bilico fra verità e menzogna, fra ravvedimento e narcisismo. Mi mancano i parametri di confronto: ho avuto una sola occasione di avvicinare un assassino, Carmelo Musumeci, che fu redento da don Oreste Benzi ma resta condannato a un ergastolo ostativo che gli nega permessi premio e altri benefici. Tuttavia ho visto di persona come vive Mario Dùmini, che di un sicario è figlio. Suo padre Amerigo nel 1924 guidava la squadraccia fascista che rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti. Quasi sentisse di dover espiare le colpe del genitore, Mario Dùmini si nasconde in una grotta scavata nel tufo, priva di porte e di stufa, rischiarata solo dalle candele. La mattina si lava in un ruscello a fondo valle e poi va a fare il volontario in un ex manicomio a Roma. Pensi a lui, Maso, la prossima volta che le propongono di posare, magari a pagamento, per un periodico patinato. Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio). LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.