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 2016  gennaio 24 Domenica calendario

FILL NEL MITO

Il più coraggioso di tutti non ha i muscoli ipertrofici e nemmeno il fisico da statua greca. Non ascolta metal per caricarsi: il suo idolo è musicista in un gruppo folk, suo zio. Il più coraggioso di tutti ha la faccia pulita e lo sguardo da buono di Peter Fill. Kitzbuehel è ai suoi piedi, in uno dei giorni più lunghi e più difficili nella storia della Streif, la discesa che ferma il mondo. Ad applaudirlo, tra i 45mila accalcati dove spiana l’Hahnenkamm, c’erano anche Niki Lauda, Arnold Schwarzenegger, Bernie Ecclestone. Sempre i soliti, verrebbe da dire. Ma è giusto così: più che una gara, la Streif è una liturgia. E per la terza volta nella storia, sull’altare della velocità si eleva il corpo di un azzurro. Quello che di solito si fa vedere meno. Un padre di famiglia, che nel parterre aveva il figliolo Leon, due anni compiuti ieri, e la moglie Manuela, incinta al quinto mese.
DA UOMO Fill come Ghedina, che qui vinse nel 1998 e nel 2004 regalò una mitologica spaccata sullo Zielschuss finale. Fill come Paris, il trionfatore del 2013, che vinse a 23 anni e scese «come se fosse un gioco». Fill che in un giorno diventa monumento e che viene affiancato ai due predecessori, pur essendo totalmente diverso, per indole e carattere. Fill che, semplicemente, ama lo sci. Lo ama così tanto da aver superato mille prove, da aver visto le ambizioni da uomo di classifica sotterrate dagli infortuni, da essersi messo alle spalle il lutto per la perdita del padre e la voglia di mollare tutto. Fill che in tutti questi anni ha imparato a misurare la propria forza, a pesare i rischi, a correrli quando è il caso. Fill che è diventato uomo, e da uomo ha vinto .
PAURA E’ stata una giornata aspra, lunga, piena di decisioni. Iniziata alle 9, con le prime ricognizioni sulla cima della collina spazzata dal vento e da una fitta nevicata, e proseguita con la scelta di posticipare il via alle 12.45, nella finestra di bel tempo. Lo start, però, doveva essere abbassato alla Mausefalle, troppo pericolosa per essere affrontata in piena velocità. Fosse stato solo quello, il problema. Il primo a scendere, l’austriaco Striedinger, avrebbe tagliato il traguardo a pelle di leone (e con il pettorale gonfiato dall’airbag), tradito dall’ultimo sbalzo dopo il salto finale. Poco più tardi, col pettorale 5, il francese Muzaton avrebbe risolto il problema del traverso dell’Hausberg saltando la porta in uscita. Il vero fantasma, però, si trovava poco più su. L’avevano detto Paris e Marsaglia dopo le prove: l’uscita dal salto dell’Hausberg era terribile, gli sci sbattevano, il destro faceva fatica a tenere. Di lì a poco sarebbe caduto l’austriaco Streitberger, sacrificando i legamenti del ginocchio destro e la stagione. Pochi minuti e il parterre gela di nuovo. Hannes Reichelt vola fuori nello stesso punto: se la cava con una botta al capo e un’escoriazione al ginocchio sinistro. Fa a tempo a scendere Paris, dopo una lunga sosta. Poi, nello stesso passaggio, viene sacrificato anche il migliore, Aksel Lund Svindal: ginocchio destro che si allarga, capriola e volo sulle reti. Lascerà la pista sulle sue gambe, ma la visita dal dottor Christian Fink, a Innsbruck, evidenzierà la rottura del crociato del ginocchio destro, subito operato. Stagione finita. Secondo il responsabile dei norvegesi, Claus Ryste, starà fuori tra i 9 e 12 mesi. Davanti alla tv, Peter Fill cerca una faccia credibile: le sue linee sono state perfette, è stato veloce sui piani e il migliore tra Hausberg e traguardo, ma quegli incidenti hanno fatto calare una cappa di tensione sulla gara.
LA DECISIONE Nel parterre si mormora, pare che gli austriaci abbiano chiesto l’annullamento della discesa. Hannes Trickl, ora giudice di gara, è proprio sull’Hausberg. Tiene duro fino al pettorale 30 - il minimo per poter validare la discesa -, poi decide: tutti a casa. «Svindal e Reichelt sanno come volare sulle reti. I più giovani no. Non potevo prendermi questa responsabilità» dirà ai capitani. «C’era poca visibilità» aggiungerà il direttore di gara Markus Waldner. Alcune nazioni, Italia compresa, avrebbero voluto proseguire. «I nostri erano pronti» dirà Max Carca, il capoallenatore azzurro. E invece Varettoni, Klotz, Marsaglia, Cazzaniga e per Casse, il migliore nella seconda prova, restano fermi. Avranno un’altra occasione. «Ho ripensato al mio secondo anno qui, nel 2004. Facemmo due discese. Nella seconda vinse Eberharter con un secondo e mezzo di vantaggio. Io non partii. Ero giovane, avevo paura. Allora era troppo per me». Firmato Peter Fill, il padre di famiglia che un giorno ebbe il coraggio di vincere la discesa di Kitzbuehel.

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Peter Fill siede davanti ai microfoni e sorride, rilassato. Dal suo sguardo si percepisce una serenità profonda, radicata, indipendente dall’aver appena vinto la gara più importante della stagione. «Sì, Leon ha compiuto due anni proprio oggi. E il 23 maggio scorso ho sposato Manuela. Stiamo insieme da 15 anni. Chissà, forse è questo che mi ha spinto alla vittoria».
Ci racconta questa gara da leggenda?
«Sono contento del fatto che siamo partiti da quasi in cima. Lo volevo a tutti i costi, sapevo che avrei potuto giocarmela. E poi sono contento di aver preso tanti rischi in fondo».
L’Hausberg faceva paura, più del solito forse.
«Ho rischiato più che potevo. A metà della traversa stavo per uscire. Ho chiuso un attimo gli occhi, ho pensato “non ce la faccio, non riesco a passare”. Ero davvero al limite. Dopo il salto dell’Hausberg sono arrivato bassissimo, gli sci sbattevano. Anch’io ho avuto problemi, lì dove sono usciti Striedinger, Svindal e Reichelt».
Com’è rimasto in piedi?
«Bisognava tagliarla di più, quella traiettoria. Loro hanno preso un po’ più spazio e hanno trovato neve più molle rispetto alla prova. Occorreva avere sensibilità nei piedi, non calcare troppo. Purtroppo qui si cade. É successo anche a me tre anni fa: errore, capriola e fuori. Non credo che oggi la Streif fosse troppo pericolosa. La visibilità era uguale per tutti».
Quanto teneva a questa gara?
«È un anno senza Mondiali e Olimpiadi. A inizio stagione mi ero detto “Voglio vincere a Wengen o a Kitzbuehel”. A Wengen sono stato penalizzato dalla visibilità. Qui ho raggiunto il mio traguardo».
Le dedicheranno una gondola della cabinovia.
«Ho fatto un po’ di storia, lo so. Quando Leon sarà più grande magari vedrà il nome e dirà “Chi è questo qui?”. “E’ tuo padre”, gli risponderò. Questa è la cosa più bella: potrà essere contento di me».
Da padre, non le viene la tentazione di alzare il piede?
«Secondo voi? Scherzi a parte, per me questo è stato un grosso problema. Alla mia ragazza avevo detto: “Non voglio avere bambini prima di ritirarmi”. E invece ora dico che i bambini potevo farli prima, perché quella paura non ce l’ho».
É una vittoria che risarcisce la sfortuna di una carriera segnata dagli infortuni, come quello del 2009?
«L’infortunio del 2009, poi la malattia di mio padre, mille cose non hanno girato. Quest’anno invece sembra che tutto vada bene. Dopo il primo allenamento a Lake Louise mi sentivo forte e le gare me l’hanno confermato (2° in discesa e 3° in superG, ndr). A Beaver ero il favorito, ma ho patito la pressione. Non ero più abituato. Il 4° posto in Val Gardena mi ha fatto crescere, perché lì avevo sempre voluto far bene, ma non c’ero mai riuscito. A Wengen avrei avuto bisogno di uno dei primi pettorali. Qui ho sfruttato la situazione».
In questi anni, con Innerhofer e la crescita di Paris, sembrava un po’ il n. 3. Le pesava?
«Non penso che qualcuno si sia sentito in ombra. Anzi, con personaggi così puoi confrontarti. L’arrivo di Paris ci ha fatto bene: pensa meno e rischia di più e così abbiamo dovuto adeguarci. Forse, però, è più ciò che loro hanno imparato da me. Li ho aiutati a crescere».
Una dedica?
«Alla mia famiglia e a mio padre, che sento sempre vicino. Ma anche allo staff, che si sta impegnando tanto. Questo risultato ripaga anche loro».
Come userà i 70.000 euro di premio?
«Quest’anno ho costruito casa a Castelrotto, devo pagare tanti debiti. E gran parte di quei soldi vanno in tasse, alla fine ne rimarranno 20.000 e stasera devo offrire da bere... Va bene lo stesso, non scendo per i soldi».
Quanto conta per lei la famiglia?
«I miei mi hanno insegnato che è la cosa più importante. Quando papà si è malato stavo molto male e quando è mancato nel 2011 non volevo più sciare. Mi dicevano “continua, non puoi pensare solo a lui”, ma non ero libero. È stata la persona più importante, mi ha dato la possibilità di allenarmi».
si.ba.