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 2016  gennaio 22 Venerdì calendario

L’INCERTA RIUNIFICAZIONE DELLA COREA


[note alla fine]

Toccanti ricongiungimenti fra coreani del Nord e del Sud nella celebre stazione del monte Kumgang, nella Repubblica popolare democratica di Corea (Rpdc). Tra lacrime e sorrisi, uomini e donne, spesso molto anziani, hanno rivisto un fratello, una sorella, una madre, un padre, un figlio o una figlia per la prima volta dalla spaccatura della penisola nel 1953. In virtù dell’accordo dell’estate scorsa fra i due governi, 400 sudcoreani, estratti a sorte fra le 66.488 persone che ne avevano fatto domanda presso le autorità di Seul, sono stati autorizzati ad attraversare la frontiera il 20 ottobre 2015 [1]. Quando questi incontri cesseranno di costituire un avvenimento per entrare a far parte della vita quotidiana? Nessuno lo sa.

Certo, al Nord si possono vedere giganteschi murales che inneggiano all’unificazione mentre, al Sud, esiste un ministero con lo stesso nome. Su entrambi i versanti tutti assicurano di cercare le strade per l’indispensabile riunione «del» popolo coreano. Ma, nei fatti, il riavvicinamento non fa alcun passo avanti. Secondo la maggior parte dei commentatori la colpa va attribuita alle autorità nordcoreane e alle loro provocazioni che appaiono tanto più pericolose dal momento che Pyongyang afferma di possedere armi nucleari. Tuttavia, numerosi osservatori, in Corea del Sud, rifiutano di dargli la colpa e sottolineano le responsabilità del governo di Seul, in particolare dopo il 2008. Molti puntano ugualmente il dito verso gli Stati Uniti.

Per comprendere i timori che agitano le due Coree, bisogna rituffarsi in una storia gravida di drammi. A partire dal 1910 la penisola è occupata dal Giappone che impone un regime di una crudeltà estrema – un’occupazione, con il suo carico di resistenze (soprattutto al Nord, industrializzato) e il suo seguito di collaborazionisti. Liberato dai giapponesi, il territorio si ritrova in balia delle «forze di pace»: al Nord le truppe sovietiche, con Kim Il-sung che si mette a capo del paese, e al Sud gli Stati Uniti che installano un potere autoritario servendosi di forze che avevano collaborato con Tokyo. Approfittando del risentimento dei progressisti, il Nord invase il Sud venendo in seguito respinto dall’esercito statunitense su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu), all’epoca boicottato dall’Urss. Ne seguirà un diluvio di fuoco al quale parteciperà – almeno simbolicamente – la Francia. Il generale Douglas MacArthur, che dirige le operazioni, minaccia a più riprese di utilizzare la bomba atomica [2]. Solo l’entrata in guerra delle truppe cinesi eviterà alla Corea del Nord la cancellazione totale e alla Cina lo schieramento dell’esercito statunitense alle sue frontiere.

Quando il Nord superava il Sud
Il 27 luglio 1953 viene firmato un armistizio a Panmunjeom, sul 38° parallelo, linea di demarcazione prima dell’offensiva militare. Una guerra per niente, in un certo senso. Ancora oggi due baracche blu, separate a terra da qualche lastra di cemento, materializzano la frontiera nella «zona smilitarizzata» (demilitarized zone, Dmz), con i soldati statunitensi (col contrassegno dell’Onu) e sudcoreani da una parte, e i militari nordcoreani dall’altra, irrigiditi in un inverosimile faccia a faccia.

Ribaltando i luoghi comuni, l’ex ministro sudcoreano dell’unificazione (2002-2004) Jeong Se-hyun, incontrato a Seul qualche settimana prima del viaggio delle famiglie dall’altra parte della frontiera, ricorda che ci fu un tempo in cui «era il Sud a temere una riunificazione sotto l’egida del Nord». Quest’ultimo, nonostante le devastazioni, poteva vantare allora un prodotto interno lordo (Pil) due volte superiore. Ma, a metà degli anni ’60, il Sud decolla mentre il Nord regredisce. Se il timore cambia campo, la diffidenza si attesta in entrambe le parti.

Un settantenne che ha visto alternarsi periodi di apertura e di totale chiusura racconta con abbondanza di dettagli la saga dei due fratelli nemici, in cui il più incostante non è quello che ci si aspetta: «La politica del Sud nei confronti della Corea del Nord cambia al ritmo dei presidenti della Repubblica. Varia in funzione del loro essere anticomunisti (o meno) così come del loro essere convinti (o meno) del rapido tracollo del Nord».

Nel 1972 una prima «dichiarazione comune» ipotizza una possibile «riunificazione». Ma è dopo la fine della dittatura al Sud, e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, che Seul cambia completamente atteggiamento. «Il presidente Roh Tae-woo [1988-1993] ha sentito che il mondo stava cambiando. Pur essendo un militare non era ossessionato dall’anticomunismo e ha gettato le basi per un accordo con Pyongyang», spiega Jeong. Il 21 settembre 1991 le due Coree entrano ufficialmente nell’Onu. Tre mesi più tardi firmano un «accordo di riconciliazione, di non aggressione, di scambi e di cooperazione» – un elenco di grandi principi. E, benché mancasse una pace effettiva, si era quanto meno usciti però dallo stato di guerra.

Secondo Jeong, i dirigenti nordcoreani volevano approfittarne per normalizzare i loro rapporti con gli Stati Uniti, tanto più che gli aiuti sovietici si sono volatilizzati insieme all’Urss. Nel gennaio 1992, ci assicura, «Kim Il-sung invia il suo segretario alla sede dell’Onu a New York per un incontro segreto con un emissario statunitense, con questo solo messaggio:“Noi rinunciamo a chiedere il ritiro delle truppe americane dal Sud, in contraccambio voi garantite che non rimetterete in discussione l’esistenza del nostro paese”, George Bush padre risponderà all’offerta con il silenzio. È in quel momento che Kim Il-sung lancia la sua politica nucleare, nella convinzione che Washington voglia cancellare la Rpdc dalla carta geografica». Il che non era del tutto infondato. Come tutti i sudcoreani, Jeong disapprova questo ricorso al nucleare, ma insiste sull’ordine delle responsabilità, contraddicendo la storia ufficiale: Washington getta benzina sul fuoco, Pyongyang reagisce.

A Seul, il successore di Roh, Kim Young-sam, è convinto, come il presidente statunitense, che il Nord comunista stia per collassare, come la Germania dell’Est a suo tempo, e blinda tutte le vie di comunicazione con l’intento di accelerare il collasso. La Rpdc attraversa, durante la seconda metà degli anni ’90, un periodo di carestia che miete circa un milione di vittime e le cui conseguenze si fanno sentire ancor oggi [3]. Ma la dura repressione e la reazione nazionalistica della popolazione le impediranno di disgregarsi.

Secondo la leggenda l’embargo è stato rotto nel 1998, quando Chung Juyung, fondatore della Hyundai, uno dei più potenti chaebol (gruppi industriali) sudcoreani, attraversò la frontiera a capo di una mandria di mille vacche, simbolo degli aiuti umanitari, prima di incontrare il presidente nordcoreano. Ma il successo più grande sarà la storica stretta di mano fra Kim Jong-il (Nord) e Kim Dae-jung (Sud) nel giugno 2000. Si apre in quel momento un decennio di dialogo e di scambi: apertura di un sito turistico sul monte Kumgang (2003) e di una zona industriale a Kaesong, in territorio nordcoreano con imprese sudcoreane (2004); riapertura, sotto sorveglianza, di alcuni collegamenti ferroviari e stradali (2007), ecc.

Questa sunshine policy («politica del raggio di sole»), così battezzata da Kim Dae-jung in riferimento alla favola di Esopo Il sole e il vento, ha attraversato molte tempeste, alimentate dall’escalation nucleare di Pyongyang (tre esperimenti dal 2006), dall’intransigenza statunitense, dall’ambiguità cinese, ed è affondata completamente con 1’arrivo, nel 2008, del presidente conservatore sudcoreano Lee Myungbak che ha scelto la strada del confronto duro. L’unica testimonianza che rimane di quel decennio pieno di promesse è il complesso di Kaesong.

Bisogna quindi dire definitivamente addio a qualunque speranza di pace e di riunificazione? Benché conservatrice come Lee, la presidente Park Geunhye aveva promesso, al momento del proprio insediamento nel 2013, di costruire una «politica di fiducia» (trust policy) a metà strada fra la «politica del raggio di sole» e la chiusura totale del suo predecessore. Ma, fatta eccezione per gli incontri di famiglia dell’ottobre scorso, niente sembra muoversi. «La signora Park preme allo stesso tempo sul freno e sull’acceleratore», afferma Jeong. «Questo produce molto rumore, ma restiamo fermi».

Washington, il grande ostacolo
Direttore del Centro di studi nordcorcani all’istituto Sejong di Seul, Paik Hak-soon non si dimostra più tenero con la presidentessa, che accusa di manipolare la questione nordcoreana per oscure ragioni di politica interna. Nel suo ufficio all’entrata del campus Paik insiste sull’impressionante parata militare organizzata dal presidente del Nord, Kim Jong-un, il 10 ottobre 2015; una mossa il cui aspetto più importante non è lo spiegamento delle forze armate, ma il suo significato politico: il dittatore afferma in questo modo il suo «controllo sugli affari militari ed economici, sullo Stato e sul partito». Peccato che, concentrandosi sulle tare del regime, la stampa «ignori ciò che cambia», aggiunge Paik: «L’economia nordcoreana va meglio. Kim Jong-un ha consolidato il proprio potere. Ha migliorato le relazioni con il Giappone che, da maggio 2014, ha tolto alcune sanzioni [come il divieto dei trasferimenti di denaro liquido] e con il quale ha intavolato delle trattative sulla questione dei cittadini giapponesi rapiti [4]. Ha regolato il contenzioso con la Russia sul debito [5] [11 miliardi di euro risalenti al periodo sovietico che Putin ha cancellato al 90%]. E Mosca ha riaperto a settembre 2015 una parte della ferrovia che collega la città russa di Khassan alla città nordcoreana di Rajin».

Anche un altro noto esperto, Koh Yuhwan, ritiene che il periodo sia favorevole. «Kim Jong-un cerca di migliorare le relazioni con la Corea del Sud e vorrebbe sedare le tensioni con gli Stati Uniti. Solo se il dialogo non dovesse avanzare lancerà nuove provocazioni». Direttore dell’altro grande istituto di studi nordcoreani di Seul – all’università di Dongguk, in questo caso – Koh è uno dei pochi ricercatori cui è permesso attraversare la frontiera nel quadro degli scambi fra la sua università (buddista) e il tempio riaperto del monte Kumgang. Egli fa parte della commissione presidenziale per la preparazione dell’unificazione, posta sotto la diretta autorità della presidentessa, senza alcun controllo, e criticatissima dai settori progressisti e pacifisti. Al suo interno Koh appare come una voce singolare, incline al dialogo, in mezzo a un oceano di pregiudizi.

Secondo la gran parte dei responsabili sudcoreani, infatti, il regime di Pyongyang è destinato a crollare. Lo scorso 25 ottobre il giornale conservatore Chosun Ibo, il più letto del paese, poneva in prima pagina una domanda puramente retorica: «Il regime nordcoreano ha i giorni contati?», mentre l’editorialista riferiva «la crescente disaffezione delle élite»: otto alti quadri del regime si sono rifugiati al Sud nel 2013 e 18 nel 2014, su un totale di rifugiati in diminuzione (2.600 l’anno tra il 2008 e il 2012, 1.596 nel 2014). In attesa del gran giorno gli studi comparativi con la Germania si moltiplicano. Ed è proprio a Dresda che il 28 marzo 2014 la presidente Park ha proposto una «iniziativa per la riunificazione pacifica della penisola» [6]. Sempre con l’idea del trionfo di una Corea capitalista e democratica su tutta la penisola.

Eppure, il confronto con le due Germanie degli anni ’70-’80 non sembra pertinente, soprattutto perché le due Coree si sono affrontate militarmente nel corso di una guerra civile. Malgrado una storia e una cultura comuni, rimangono odi profondi. In più, le disparità sono molto più forti: se l’economia tedesco-occidentale era quattro volte più forte di quella tedesco-orientale, nel caso delle due Coree il rapporto è di 1 a 60. Non sorprende affatto che la nuova generazione sudcoreana, che già stenta a trovare il proprio posto in una società in crisi, non manifesti grande entusiasmo all’idea di pagare per accogliere un vicino che conosce solo attraverso le caricature. Tant’è vero che i rifugiati nordcoreani continuano a essere trattati male, condannati a lavori umili e spesso discriminati [7].

Nessuno può dire se il regime di Pyongyang reggerà, ma scommettere sul suo crollo impedisce ogni riflessione per uscire dalla politica dello scontro. Al contrario, «se si parte dall’idea che la Corea del Nord continuerà a esistere», assicura Koh Yu-hwan, «allora si devono trovare delle strade per il dialogo e il negoziato. È nell’interesse di tutti che essa si aggreghi al capitalismo mondiale». Come la gran parte degli esperti che abbiamo incontrato, anche lui inclina verso una politica dei piccoli passi, come Choi Jin-wook, presidente dell’ultra ufficiale Istituto coreano per l’unificazione nazionale (Korea Institut for National Unification) di Seul: «Poiché le relazioni fra i due paesi hanno conosciuto un avvicendarsi di avanzamenti e regressi, la fiducia reciproca è largamente intaccata. Bisogna quindi cominciare dalle piccole cose e procedere passo dopo passo».

Circa il principio tutti sembrano d’accordo, ma quando si passa ai fatti... Park Sun-song, docente e ricercatore all’Istituto di studi nordcoreani dell’università Dongguk, mette in discussione l’ordine delle priorità ribadito più volte dalla presidente Park: l’abbandono delle armi nucleari da parte di Pyongyang in cambio di aiuti umanitari e di negoziati. «Beninteso, la denuclearizzazione rimane un obiettivo-chiave ma, se si considera la quantità di armamenti accumulati nella penisola, trattare la questione solo sotto il suo aspetto militare non può essere sentito da Pyongyang che come una pressione».

Occorre ricordare che, quantunque la Corea del Nord non abbia nulla dell’angelo della pace e brandisca regolarmente la minaccia militare, la Corea del Sud possiede armi ultramoderne, compresi sistemi antimissili statunitensi, e che gli Stati Uniti mantengono nel paese circa 29.000 soldati. Il nucleare, continua Park Sunsong, «è solo uno dei problemi da risolvere. Soltanto lavorando per un processo di pace e cooperazione si otterrà la denuclearizzazione, e non viceversa. Questo riguarda il Nord, il Sud, ma anche tutto il nord-est dell’Asia» e, ovviamente, gli Stati uniti: «Oggi, come ieri», spiega l’ex ministro dell’unificazione Jeong, «sono loro l’ostacolo principale per una normalizzazione fra le due Coree».

Non solo Washington rifiuta ogni dialogo bilaterale con Pyongyang, ma le esercitazioni militari congiunte con l’esercito sudcoreano esasperano i timori. All’inizio si trattava si «addestrare le truppe statunitensi e sudcoreane a lottare contro un’infiltrazione delle forze speciali nordcoreane nel cuore del territorio sudcoreano», ricorda Moon Chung-in, professore di Scienze politiche all’università Yonsei di Seul. «Poi, nel 2013, l’obiettivo è stato modificato e gli Stati Uniti hanno dispiegato delle armi tattiche: oltre ai sottomarini nucleari, bombardieri B-52 e bombardieri invisibili B-2, capaci di imbarcare armi nucleari, così come caccia invisibili F-22 e cacciatorpedinieri equipaggiati di sistema antimissile Aegis [8]». Moon Chung-in non sottovaluta il «comportamento bellicoso» di Pyongyang ma, dice, «è proprio l’intensificarsi delle minacce statunitensi che ha condotto il potere nordcoreano ad assumere un atteggiamento simile».

La reazione della Rpdc – minaccia nucleare, lancio di missili – non le ha comunque permesso di ottenere il negoziato richiesto con Washington. Nell’ottobre scorso la televisione di Stato nordcoreana ha infine fatto appello all’uscita dall’«escalation della tensione»: «Se gli Stati Uniti voltano coraggiosamente le spalle alla loro attuale politica [e negoziano un trattato di pace], noi saremo felici di rispondere con un comportamento costruttivo. Abbiamo già inviato una richiesta tramite canali ufficiali di colloqui di pace e attendiamo risposta [9]». Probabilmente Pyongyang spera di arrivare a dei negoziati come con l’Iran. Ma, come ricorda Koh Yu-hwan in occasione del nostro incontro a Dongguk, «l’Iran non ha la Cina al suo fianco». E «gli Stati Uniti hanno di mira anche Pechino».

Idillio con la Cina
Certo, dopo l’ultimo esperimento nucleare, la Cina ha finito per votare le sanzioni contro la Rpdc, ma continua a rifornirla di aiuti alimentari e di petrolio – tra l’altro – al fine di evitare qualunque trauma fatale. Tuttavia, il presidente Xi Jinping non ha mai incontrato il suo giovane omologo nordcoreano, mentre si è recato a Seul in visita ufficiale e la presidente Park ha assistito a Pechino alla parata militare di commemorazione della fine della guerra contro il Giappone. Dal punto di vista politico si tratta di un gesto spettacolare e il riavvicinamento si è fatto sensibile nel momento in cui entrambi i paesi attraversano una fase di tensione con Tokyo. Dal punto di vista economico, la Cina è divenuta il primo partner della Corea del Sud, che è il suo terzo fornitore.

A Seul gli amici conservatori della presidente non vedono di buon occhio quest’idillio nel momento in cui le relazioni sino-statunitensi e non sono al loro massimo. Essi ricordano che, se la Cina è il primo partner commerciale, gli Stati Uniti rimangono l’unico partner in materia di sicurezza. «Nei cieli dell’Asia orientale vi sono due sol levanti [la Cina e gli Stati Uniti]», sottolinea un diplomatico sudcoreano. «La Corea del Sud dovrà fare una scelta [10]». Per il momento la presidente si destreggia fra i due soli, ma esita sempre a iniziare e a imporre dei seri negoziati con Pyongyang. La proposta nordcoreana di una confederazione o quella dei progressisti sudcoreani di una unione federale sul modello dell’Unione europea rimangono ipotesi vaghe.

Quanto alla Francia, che non riconosce la Rpdc, appare ferma a un’epoca lontana. «Invece di trattare la Corea del Nord come un intoccabile, di isolarla sempre più, di rinchiuderla fra le mura della propria ideologia, sarebbe meglio cercare di trascinarla verso la comunità internazionale e di aiutarla ad aprirsi», sostiene Koh Yue-hwan. A meno che Parigi, come certi conservatori sudcoreani, non stia aspettando che crolli...
Martine Bulard



Note:
[1] Secondo il ministero dell’unificazione di Seul, il 53.9% di questi aspiranti al ricongiungimento hanno più di 80 anni e l’11,7% più di 90 anni.

[2] Si legga Bruce Cumings, «Memorie di fuoco nella Corea del Nord», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2004.

[3] Si legga «Voyage sous bonne garde en Corée du Nord», Le Monde diplomatique, agosto 2015.

[4] Durante la guerra fredda il governo nord-coreano ha rapito dei giapponesi per formare le proprie spie. Ne resterebbero 13, secondo Pyongyang, che ne ha liberati cinque, e 17 secondo Tokyo.

[5] Si legga Philippe Pons, «La Russia corre in aiuto». Le Monde Diplomatique/il manifesto, marzo 2015.

[6] «La presidentessa fa una proposta in tre parti a Pyongyang», Korea.net, 31 marzo 2014.

[7] Si legga «Rieducazione capitalista nella Corea del Sud», Le Monde diplomalique/il manifesto, agosto 2013.

[8] Intervista realizzata da Antoine Bondaz, Korea Analysis, n° 1, Parigi, gennaio 2014.

[9] «N. Korea proposes talks on peace treaty with US», NK News.org. Seul. 9 ottobre 2015.

[10] «La politica sudcoreana non deve scegliere tra due soli», intervista di Yun Dukmin, Korea Analysis, n° 7, luglio 2015. (Traduzione di Cristina Guarnieri)