Notizie tratte da: Eva Cantarella, Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Feltrinelli, 2015, 160 pagine, 14 euro., 21 gennaio 2016
Notizie tratte da: Eva Cantarella, Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Feltrinelli, 2015, 160 pagine, 14 euro
Notizie tratte da: Eva Cantarella, Non sei più mio padre. Il conflitto tra genitori e figli nel mondo antico, Feltrinelli, 2015, 160 pagine, 14 euro..
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Nonostante i molti rapporti extraconiugali che il divino Zeus intrattenne, la sua fu la prima famiglia divina. Un po’ perché i suoi incontri furono sempre fecondi, un po’ perché nel corteggiamento assumeva le forme più svariate, i modi in cui i suoi figli vennero al mondo furono alquanto singolari. Si narra che Elena nacque da un uovo, di cigno per di più.
Zeus poteva riprodursi anche senza usufruire della collaborazione femminile.
Se si contano le gravidanze surrogate del divino patriarca Zeus queste furono due. Deciso a continuare la maternità al posto della moglie, la ingoiò. Quando fu tempo di doglie, trovandosi il bambino nella sua testa, queste non poterono che manifestarsi sotto forma di emicranie. Atena, la dea della guerra, nacque con un’accettata ben assestata di Efesto sul capo di Zeus. Poi ci fu Dioniso, il figlio che Zeus si cucì nella gamba per salvarlo da morte certa.
Numeri. Ulisse nel corso del suo lungo viaggio prima ebbe una relazione di un anno con Circe e poi una di sette con Calipso. Ebbe un figlio dalla prima e più di uno dalla seconda. E, poiché ai mariti non era richiesta la stessa fedeltà che si imponeva alle mogli, procreò nelle molte isole mediterranee.
Numeri. Venti gli anni che la fedele e paziente Penelope aspettò il ritorno di Ulisse. E centootto i pretendenti, gli arcinoti proci, che nel frattempo la importunarono. Pare, tra l’altro, che fossero giovani belli, ricchi e anche aitanti.
Il debole e incerto Telemaco, provato dalla lunga assenza del padre, a un’Atena che gli domandava se veramente fosse il figlio di Ulisse, rispose: «…di lui mi dice la madre [Penelope, ndr], ma io non lo so. Nessuno da solo può sapere il suo seme». [Od., I, vv. 215-216]
Ancora una volta è la fedeltà di Penelope, in realtà proverbiale, a essere messa in discussione. Atena fa leva su questa per persuadere Telemaco a tornare a Itaca: «bada che non si porti via tuo malgrado qualche tesoro. Sai com’è il cuore nel petto di una donna: vuol favorire la casa di colui che la sposa, e dei figli di prima e del caro marito morto non si ricorda più, né li cerca». [Od., XV, vv. 19-23]
Nessun bacio o carezza tra Ulisse, finalmente tornato a casa, e il figlio Telemaco. Omero descrive così l’incontro, un po’ freddino, tra i due: «a entrambi nacque dentro il bisogno di pianto: piangevano forte, più fitto di uccelli, più che aquile marine o unghiuti avvoltoi, quando i piccoli ruban loro i villani, prima che penne abbian l’ali: così misero pianto sotto le ciglia versavano». [Od., XVI, vv. 215-219]
La povera Andromaca dovette allattare i figli del fedifrago Ettore. E così, al marito ormai morto, confessa: «Io, per non dispiacerti, condividevo i tuoi amori, quando Cipride ti sopraffaceva spesso offrivo il seno ai tuoi bastardi, per non amareggiarti». [Euripide, Andromaca, 222-227]
Terribile lo scontro familiare tra Amintore e Fenice. Il figlio è accusato di aver partecipato al piano orchestrato dalla madre per allontanare Amintore dall’amante. Il padre di aver scagliato contro Fenice una terribile maledizione: «Non avrai mai figli». Scongiurato il parricidio e messi da parte gli anatemi, Fenice accudirà un giovane, Achille, come se fosse suo figlio.
Achille, a Ettore che lo implora di non infierire sul corpo del nemico vinto, risponde così: «Cane, non mi pregare, la rabbia e il furore dovrebbero spingermi a tagliuzzare le tue carni e a divorarle così».
A Roma la patria potestas non si raggiungeva al compimento della maggiore età, ma durava fino a quando il pater familias era in vita. Un’attesa che si rivelava infinita per chi mal sopportava il vecchio genitore.
In cinque giorni un padre poteva riconoscere o meno un figlio. Poteva decidere se ammetterlo in famiglia, con l’amphidromia, o abbandonarlo ad altra sorte, quasi certamente la morte.
Ad Atene c’era una legge che diceva questo: i genitori avevano «non solo il potere di dare nome ai figli, all’inizio, ma di toglierlo, se [volevano, ndr], e di ripudiarlo [apokeruptein]». Plutarco, a tal proposito, ci racconta di un pettegolezzo che girava nel mondo ateniese sul conto di Temistocle, l’eroe di Salamina, il cui carattere era «così violento e la cui reputazione era così cattiva che sua madre si suicidò e suo padre pensò di ricorrere all’apokeryxis». [Contro Beoto, I, 39] [Themistocles, II, 7-8]
Alcibiade fu amato e odiato allo stesso tempo. Plutarco racconta che il giovane, di natura vanitosa e provocatoria, un giorno fu visto dagli ateniesi «passeggiare con il suo bellissimo cane, improvvisamente privo della splendida coda. A tagliargliela era stato lo stesso Alcibiade, che quando seppe che la cosa era oggetto di sorpresa e riprovazione commentò, soddisfattissimo: “Era esattamente quello che volevo, e spero che gli ateniesi continueranno a parlarne, così non diranno sul mio conto cose molto peggiori”». [Plutarco, Alc., IX, 1]
Alcibiade rischiò l’apokeryxis, il ripudio da parte di uno dei suoi zii-tutori. Le colpe del ragazzo in sostanza erano due. Violazione della regola fondamentale del corteggiamento pederastico, al giovane infatti si attribuivano più amanti e non uno come era giusto che fosse, e di essersi allontanato all’insaputa degli zii Arifrone e Pericle.
La pederastia, cioè il rapporto di un ragazzo con un adulto, era fondamentale per la formazione intellettuale e morale del ragazzo. «A garantire che il ragazzo non cedesse con leggerezza, ma solo di fronte a un corteggiamento “serio”, stava un preciso codice di comportamento; un codice che, con le ovvie e dovute differenze, assomigliava a quello che alcuni decenni or sono regolava il comportamento degli uomini che corteggiavano a scopo matrimoniale una ragazza “per bene”, nonché quello della ragazze che ne erano oggetto». [Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Roma 1988]
Pericle e Santippo sono la testimonianza del problema di dipendenza economica dei figli verso i padri. Quest’ultimo stanco delle restrizioni del padre un giorno chiese del denaro fingendo che fosse Pericle a chiederlo. Quando il creditore pretese l’estinzione del debito i due non risolsero la questione in famiglia, ma la trasferirono sul piano cittadino. Santippo allora per punire il padre lo ridicolizzò riferendo di quella volta che «aveva passato un intero giorno a discutere con Protagora sul seguente tema: un tale aveva lanciato un giavellotto e ucciso per errore una persona. Chi era il colpevole? Chi era responsabile? Il giavellotto, colui che lo aveva lanciato o i giudici di gara?» [Plutarco, Pericles, XXXVI, 2-3]
L’età giusta per sposarsi, dice Aristotele, è di «diciotto [anni, ndr] per le donne e circa trentasette per gli uomini, in quel caso i figli prenderanno il posto del padre al momento massimo della loro forza, quando i padri avranno raggiunto i settant’anni».
Coloro che hanno i figli troppo grandi non possono beneficiare della gratitudine dei figli, mentre chi li ha troppo presto non sarà rispettato perché sarà visto al pari di un coetaneo.
Oltre alle questioni economiche un altro possibile caso di tensione tra padri e figli era il timore, spesso inespresso, che i giovani figliastri intrecciassero con la giovane matrigna una relazione amorosa. E poiché Atene era piena di uomini che convolavano a seconde e, perché no, anche terze nozze, nelle alcove della città serpeggiava sempre la stessa angoscia.
Teseo fu un figlio sbadato e un padre crudele. In ambedue i ruoli fu una tragedia. Quando da giovane fu sorteggiato tra gli ateniesi come il prescelto da mandare in sacrificio al Minotauro, ne uscì salvo. Di ritorno dall’impressa però dimenticò di issare la vela bianca, quella che stava a significare la vittoria. Il padre Egeo disperato decise così di gettarsi in mare. Nel gergo attuale si potrebbe dire che si trattò di un parricidio colposo. Come padre non fu da meno, provocò la morte del figlio Ippolito, ingiustamente accusato dalla matrigna di averla sedotta.
Il mar Egeo si chiama così perché è qui che Egeo, il padre di Teseo, si ammazza.
«Mentre non è permesso al figlio scacciare il padre», scrive Aristotele, «sia permesso al padre scacciare il figlio. Infatti chi è in debito deve restituire, e il figlio, per quanto faccia, non avrà mai compiuto qualcosa degno dei benefici ricevuti, per cui è sempre in debito: e quelli che sono in credito hanno il potere di scacciare, e la stessa cosa può fare il padre». [Ethica Nicomachea, VIII, 1163 b].
Contro il padre scialacquone si poteva esperire un’azione giudiziaria pubblica, la graphe paranoias. E i figli di Sofocle, il celebre drammaturgo, non risparmiarono il padre. Sua la colpa di aver trascurato il patrimonio per scrivere le celebri tragedie. Sofocle, di tutta risposta, «aveva recitato i versi dell’Edipo a Colono, che in quel momento stava componendo, chiedendo ai giudici se quei versi sembravano scritti da una persona fuori di mente. E i giudici lo avevano assolto». [Cato Maior de senectute, VII, 22]
Solone, uno dei sette sapienti della Grecia, in fatto di norme successorie fu davvero un precursore: «diede più valore all’amicizia che al legame di sangue e al rapporto di affetto libero su quello imposto, e fece in modo che i beni fossero veramente di proprietà di chi li possedeva». Agli ateniesi infatti, come scrive Plutarco, «non era permesso scegliersi degli eredi. I beni mobili e immobili dovevano restare alla famiglia del morto». [Sol., 21, 3]
La gerotrophia era una legge insolita, attribuita a Solone, a tutela dei genitori. Questa, dice Aristofane, «imponeva agli ateniesi di ospitare e nutrire i genitori, di occuparsi di loro qualora questi, giunti in tarda età, non fossero in grado di farlo da soli, e di provvedere alla loro sepoltura».
Gli unici a poter sfuggire alla gerotrophia, secondo Solone, erano i figli delle prostitute, mentre per Plutarco erano «coloro che erano stati costretti dal padre a prostituirsi, nonché coloro i cui padri erano venuti meno al dovere imposto da un’altra legge di Solone di insegnare ai figli la techne [traducibile con: mestiere, ndr]».
«Divenire madre […] significava morire come donna, sacrificare tutta la propria femminilità all’accudimento della vita dei propri figli». [M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Milano 2015]
Il complesso di Medea porta le madri non soltanto «a uccidere i propri figli rovesciando d’un sol colpo la catena della generazione (“Ti ho dato la vita ora ti do la morte”), ma [anche] a cancellarsi come madri per voler esistere ancora come donne». [M. Recalcati, Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Milano 2015]
Lo scontro generazionale tra Admeto e Ferete è esplicito. Admeto mal tollera il rifiuto del padre di morire al suo posto: «Ti ho messo al mondo ti ho allevato, erediterai i miei beni. Perché dovrei darti anche la mia vita?», gli risponde Ferete. E quando questi va al funerale di Alcesti, la poveretta che sceglie di morire al posto di Admeto, quest’ultimo inveisce contro il padre e contro tutta la sua generazione: «Essi maledicono la vecchiaia e la vita troppo lunga e si augurano di morire, ma lo fanno solo a parole. Quando la morte si avvicina nessuno vuole morire, la vecchiaia smette di essere pesante». «Vivrai certamente a lungo», gli risponde Ferete, «se una dopo l’altra convincerai tutte le tue mogli a morire al tuo posto».
Nel “Pensatoio”, come irrisoriamente era chiamata la casa di Socrate, si insegnava a vincere le cause. Per questo, e molto altro, il filosofo fu accusato di «aver investigato quel che c’è sotto terra e in cielo, tentando di far apparire migliore la ragione peggiore, e questo insegnando ad altri». Quindi processato e condannato.
«I vecchi sono due volte bambini». [Aristofane, Le nuvole]
«Voi non ci assistete nella vecchiaia in modo degno di quelle famose battaglie da noi combattute sul mare: ci maltrattate, permettete che, trascinati nelle liti, noi veniamo derisi da oratori giovincelli: non valiamo nulla, siamo vecchi arnesi duri d’orecchio che hanno come bastone Poseidone protettore». [Aristofane]
Chi aspirava a ricoprire cariche pubbliche doveva dimostrare di avere i necessari requisiti etici.
Nello scrutinio che permetteva di valutare il candidato, detto docimasia, dokimasia, oltre alle consuete domande di rito, era chiesto: «tratti bene i tuoi genitori?».
In fatto di giustizia vale la pena ricordare la favola dello sparviero e dell’usignolo di Esiodo: «Un giorno […] lo sparviero, affamato, aveva afferrato con gli artigli ricurvi un usignolo “dal collo multicolore”, che cantava sul ramo di un albero. E alle preghiere di quello, che lo implorava di liberarlo, così aveva risposto: “È folle chi vuole opporsi ai più forti:/ non ottiene vittoria e oltre alla vergogna subisce il dolore”». [Opera et dies, vv. 202 sgg.]
«Nella loro follia, distruggere la città potente vogliono i cittadini sedotti dalle ricchezze», dice Solone, «e ingiusta è la mente dei capi del popolo, i quali avranno per effetto di grande violenza molto da soffrire, poiché non sanno frenare la sazietà».
Durante i simposi, finita la cena, si beveva e si discuteva dell’argomento in precedenza concordato. E poiché i greci non bevevano mai vino puro, perché sì ai piaceri ma con misura, era di estrema importanza il simposiarca, il capo della serata. Colui che mescolava vino e acqua affinché non si arrivasse all’ubriacatura. Solo i barbari lo facevano. L’uomo civilizzato sapeva godere dei soli benefici del nettare degli dei.
Il vino dei greci vantava un’alta gradazione alcolica, era la vendemmia tardiva a renderlo così forte.
«È il vino che rivela lo spirito di un uomo». [Alceo]
«Il vino bevuto in abbondanza è male: se lo si beve con saggezza non è un male ma un bene». [Teognide]
«Il bronzo è lo specchio dell’apparenza, il vino lo specchio dell’anima». [Eschilo]
Ignorante e di scarso valore era quella persona che non sapeva né leggere, né scrivere e, inaspettatamente, nuotare.
Ci pensa Plutarco ad avvalorare la tesi che l’analfabetismo era cosa relativamente rara, e al tal proposito racconta una quanto mai singolare coincidenza: «Nel 482 a.C., nel corso dell’assemblea che doveva decidere sull’ostracismo di Aristide, questi si era sentito chiedere da un analfabeta la cortesia di scrivere per lui un nome sul coccio: e il nome, vedi caso, era proprio quello di Aristide».
«La parola è un gran dominatore, ha un corpo piccolissimo e invisibile, ma riesce a fare cose divine; calma la paura, elimina il dolore, suscita la gioia… Con il suo incanto blandisce, persuade e trascina, influenza le scelte, modella l’animo di chi ascolta». [Gorgia nell’Encomio di Elena]
Si diceva che Pitagora «era stato il primo a comporre due discorsi, uno a favore e l’altro contro la stessa tesi».
«Religione in Grecia non significava […] credere negli dèi, significava praticare riti cittadini».