Paola Emilia Cicerone, Mente&Cervello 1/2016, 21 gennaio 2016
UN ATTIMO DI FATALE FOLLIA
Ci sono gesti inspiegabili, delitti che scopriamo tramite un articolo di cronaca o un servizio televisivo. E che suscitano in noi una reazione istintiva, di orrore e di ripulsa. Gesti violenti, spesso contro persone di famiglia, che attribuiamo a un raptus, alla follia: come se si trattasse di un «fulmine a ciel sereno» che squarcia la normalità di una vita apparentemente tranquilla. A noi, ci rassicuriamo, una cosa del genere non potrebbe capitare.
Ma è davvero così? «In realtà non possiamo sapere se noi, in quelle precise circostanze e con quella storia di vita alle spalle, non faremmo una cosa del genere», osserva il neuropsichiatra Ugo Fornari, ordinario di psicopatologia forense all’Università di Torino. Uno dei protagonisti del dibattito, aperto nella comunità scientifica, sui delitti d’impulso e sulla possibilità di prevenirli: un dibattito che si intreccia con quello, eterno, sulla natura del male. «Mi è capitato spesso – prosegue Fornari – di vedere persone descritte come mostri o folli che poi, analizzando la vicenda di cui erano protagonisti, non potevano essere classificati come casi patologici. Ma anche il contrario: persone “normalissime” che invece in seguito al delitto “inatteso” sono risultate affette da gravi patologie».
Il raptus esiste?
In realtà, il raptus non esiste, almeno come termine medico. E non è da oggi che la psichiatria cerca una definizione adeguata per episodi che in passato sono stati definiti «follia transitoria» o «monomania omicida»: in ogni caso, azioni d’impeto in cui il turbamento emotivo gioca un ruolo importante.
«Questo tipo di crimini esiste da sempre, forse li notiamo di più in una società come la nostra, attenta alla qualità della vita e al rispetto per le persone», osserva Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria. «Abbiamo un senso etico che ci porta molto lontani da situazioni di questo genere». L’ultima versione del DSM parla di disturbo esplosivo intermittente, un disturbo del controllo degli impulsi che si associa a disturbi di personalità come disturbo borderline o personalità antisociale: «Ci sono due possibili definizioni cui possono essere ricondotti alcuni atti violenti, la reazione esplosiva e la reazione di cortocircuito», prosegue Mencacci. La prima definisce un gesto eclatante indotto da un evento esterno, mentre la reazione di cortocircuito è più strutturata, dura più a lungo e può essere preceduta da una situazione conflittuale, di tensione emotiva, che genera uno stato di irritabilità ansiosa. «È questo, per esempio, lo scenario che spiega alcuni crimini legati ad amori ostacolati», osserva Mencacci. «Ma attenzione: questa è solo una fotografia del reale, che spiega ma non giustifica».
D’altronde l’esigenza di spiegare fatti apparentemente incomprensibili fa parte di noi. «Vivere vuol dire conferire significato a ciò che avviene», osserva Fornari. «Dare spiegazioni è importante per il giudice, per la società che di fronte ad atti come questi sente il bisogno di differenziarsi e di tenere a bada il male. E anche per chi ha commesso il crimine: invocare un raptus può essere una strategia difensiva, ma anche un modo per attenuare la responsabilità morale per quanto accaduto». Che non è quasi mai un fulmine a ciel sereno. Spesso, anzi, l’atto presentato come improvviso è il punto di arrivo di una situazione diventata insostenibile: «Immaginiamo che qualcuno ci tagli la strada in un momento in cui tutto intorno a noi e dentro di noi è positivo: probabilmente reagiremmo facendo spallucce», esemplifica Fornari. «Se invece succede in un momento in cui siamo stressati da situazioni avversive, frustrati da problemi economici o coniugali, l’auto che ci taglia la strada è la goccia che fa traboccare il vaso, e può scattare un gesto violento».
«A volte quelli che sono descritti come reati d’impulso sono stati pensati a lungo, oppure sono le reazioni di qualcuno che ha la sensazione di trovarsi senza una via di uscita, in preda a un’angoscia devastante dalla quale cerca di uscire in maniera irrealistica: uno dei compiti della psicoanalisi è proprio offrire una possibilità di soluzione, di fuga da queste forme di imprigionamento ossessivo», spiega Anna Ferruta, psicoanalista SPI. «In altri casi questi gesti possono essere una reazione a un’eccessiva “vicinanza”: può succedere, per esempio, con gli adolescenti che devono affermare la loro individualità e vivono come un’invasione i tentativi, anche affettuosi, dei genitori di capirli e consigliarli. A volte, poi, l’agito violento resta un enigma».
Un dato certo è che molti di questi eventi sono legati all’ambito familiare. «Può succedere che un malato mentale colpisca una vittima casuale o simbolica, ma di solito, nei cosiddetti delitti di impulso, la vittima è una persona che fa parte della famiglia, o comunque è ben nota», spiega Fornari. «E se giustificare non è possibile, può essere utile capire la relazione tra l’assassino e la vittima, il processo che ha portato alla violenza». Può trattarsi di dinamiche patologiche, di attaccamenti morbosi, ma anche di richieste perfettamente legittime o banali, che in una particolare situazione scatenano il «non ne potevo più» che è la frase con cui spesso gli assassini tentano di giustificare questi gesti. Alla base dei quali resta comunque una forte componente soggettiva, che rende «insopportabili» per qualcuno eventi apparentemente banali. Che medicina e legge valutano diversamente.
Due diversi approcci
«Psichiatria clinica e psicopatologia forense sono due mondi separati: l’obiettivo del clinico è quello di capire per curare, di fare diagnosi e intervenire, con strumenti diversi, per aiutare la persona a vivere meglio», osserva Fornari. Lo psichiatra forense invece deve comprendere per valutare, e sono il codice e la giurisprudenza a definire i confini entro i quali muoversi. Partendo da un concetto fondamentale: se è vero che questi delitti sono sempre commessi in un forte stato emotivo, «la legge non comprende gli stati emotivi tra le condizioni che possono escludere l’imputabilità», spiega Fornari. «In altri termini, ci dice che siamo liberi di esprimere le nostre passioni, ma dobbiamo accettarne le conseguenze». Questo ovviamente se si tratta di una tempesta emotiva, e non di un delirio patologico: lo spartiacque che definisce l’incapacità di intendere e di volere – che può essere parziale o totale – è la perdita di contatto con la realtà, che però in termini giuridici ha valore solo se si manifesta al momento del fatto, e in relazione al fatto. Basta questo a capire la difficoltà di decidere in casi in cui spesso gli unici presenti sono l’omicida e la vittima, e le testimonianze, ammesso che ci siano, sono frammentarie e confuse.
«Il diritto ha bisogno di fissare termini “certi” più che “veri”, anche in materia di imputabilità», prosegue Fornari. E le categorie diagnostiche del clinico non sono tutte rilevanti in termini giuridici: chi soffre di nevrosi può avere bisogno di cure ma – salvo nei rari casi in cui si manifesti una crisi psicotica – non ha un vizio di mente che ne comprometta la capacità di decidere. «Ci sono malati non cattivi, e cattivi non malati», sintetizza Fornari: tra quanti commettono delitti di impulso ci sono soggetti con disturbo antisociale, disturbi narcisistici, psicopatie: condizioni con una probabile base biologica, che non comporta però un’assenza di responsabilità. «Anche se hanno un profilo di significato psichiatrico clinico, questi soggetti non sono incapaci di intendere e volere», sostiene Fornari. «Sono quelli che in linguaggio comune definiamo delinquenti, che hanno violato il patto sociale, e devono stare in carcere».
«A volte vediamo piani aggressivi condotti con lucidità assoluta: siamo noi a stentare di capire che ci siano persone che godono all’idea di fare del male, che non vedono gli altri come un valore ma come un peso di cui ci si può liberare», aggiunge Mencacci. «Ma questa non è malattia, è un tratto di personalità, un modo di essere nel mondo».
Le basi biologiche del male
A complicare lo scenario, la ricerca sulle basi biologiche di alcuni comportamenti mette in gioco nuove e complesse variabili. «Il libero arbitrio è la capacità di non rispondere a un impulso in modo automatico: le funzioni che ci consentono di farlo sono localizzate soprattutto nella corteccia prefrontale, la parte più recente del nostro cervello», spiega lo psichiatra Pietro Pietrini, direttore della Scuola di alti studi IMT di Lucca. «È quest’area che ci rende umani, che ci permette di chiederci il perché delle cose e di controllare le nostre reazioni istintive».
Tra gli studi che lo confermano, una ricerca pubblicata nel 2000 sull’«American Journal of Psychiatry», in cui «abbiamo dimostrato che per immaginare di compiere un’azione violenta gli individui sani devono sopprimere l’attività della corteccia prefrontale ventromediale», ricorda Pietrini. «Altre ricerche mostrano che in persone con disturbi mentali la materia grigia di quest’area cerebrale è nettamente meno densa rispetto ai soggetti sani, e recenti indagini realizzate con tecniche di imaging del tensore di diffusione (DTI) mostrano che in questi soggetti sono ridotte anche le fibre che collegano le aree prefrontali del cervello con l’amigdala, cioè che collegano emozione e ragione».
In genere gli studi genetici indagano una singola variabile: «Noi, però abbiamo cominciato a fare osservazioni trasversali, e abbiamo visto che i responsabili di reati d’impeto spesso hanno diverse variabili implicate», spiega Pietrini. Autore insieme a Giulio Tononi di uno studio recente sul «sonno locale», ossia sulla capacità di singole aree cerebrali di addormentarsi se sovrautilizzate: «Abbiamo verificato che in particolari condizioni di “affaticamento cognitivo” questo fenomeno può portare alla perdita di controllo e di inibizioni», spiega Pietrini. Dati come questi potrebbero mettere in discussione, almeno in parte, il concetto di responsabilità individuale: «Un’alterazione dei circuiti che governano il controllo degli impulsi può rendere più difficile controllarsi, un po’ come un’alterazione del metabolismo rende più difficile dimagrire, a prescindere dalla volontà», spiega Pietrini.
La genetica non è tutto
Si potrebbe obiettare che non tutti gli impulsivi uccidono, e che i pochi studi su popolazioni di criminali non bastano a generalizzare. «Questi studi sono i tasselli di un puzzle: spesso dietro a questi delitti c’è una storia di continue tensioni, di un crescendo che può modificare la capacità di controllo», osserva Pietrini. «Platone aveva già detto tutto: “il malvagio diviene malvagio per qualche sua prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione”. È difficile pensare che scopriremo il cromosoma della violenza o l’enzima responsabile dell’irresistibile impulso, senza correre il rischio di una deriva meccanicista, riduttiva e semplicistica», osserva Fornari. «Il comportamento umano è prodotto dalla convergenza di molti fattori: questi studi ci possono aiutare, ma non sono esaustivi».
La questione, conferma Pietrini, è complessa: «Alcune di queste mutazioni geniche non rendono più aggressivi, ma più permeabili all’ambiente in cui si cresce: queste persone saranno più violente se si trovano in una famiglia disfunzionale, ma trarranno vantaggi da un’educazione adeguata». Fino a oggi, in effetti, si può ipotizzare che l’unico vero «gene della violenza» sia il cromosoma Y, dato che la maggioranza degli atti violenti sono commessi da maschi: «Gli uomini esprimono le proprie frustrazioni scaricandole su oggetti esterni, per esempio possono colpire i figli per vendicarsi della moglie», osserva Fornari. «Mentre le donne – non si sa se per natura o per cultura – tendono a scaricare la propria insoddisfazione su se stesse e vivono i figli come oggetti interni: nei casi in cui ci sia violenza sui figli, spesso questa si manifesta sotto forma di suicidio allargato».
La necessità del male
Non tutta la violenza, fortunatamente, si traduce in realtà. «Può succedere a tutti di avere pensieri o fantasie violente, nei confronti di se stessi o di altri, e non c’è niente di strano», spiega Mencacci. Per la psicoanalisi, anzi, le fantasie violente possono fare parte del processo terapeutico. «Sono già una possibile via di uscita», osserva Ferruta. «Quando compaiono, le fantasie violente diventano pensieri compiuti, qualcosa con cui si riesce a stare in contatto, di cui si può parlare. Non dobbiamo avere paura di riconoscerle. Imparare a “stare con” quanto c’è di violento e angosciante nel nostro mondo interiore è un modo per umanizzarlo e renderlo tollerabile». In termini freudiani, la struttura che presiede al controllo degli impulsi è il Super-Io, e un Super-Io sano ci permette di restare in contatto con le nostre fantasie violente, rendendole governabili», prosegue Ferruta.
«Nel XIX secolo un Super-Io eccessivamente rigido ha prodotto patologie ossessive e invalidanti. Oggi forse sarebbe utile ragionare sulla tendenza della nostra società a criminalizzare qualunque forma d’impulso violento, negandone lo slancio vitale che è insito anche nel termine – Bio/Vio – e insieme a sottovalutare la funzione necessaria, positiva e strutturante, di un Super-Io come istanza di regolazione al servizio della pulsione di vita. Con cui da sempre cerchiamo di fare i conti: pensiamo alle Olimpiadi, o al ruolo della tragedia nell’antica Grecia».
In ambito forense, tra le figure chiamate a dare un significato a quanto accaduto ci sono i periti – del tribunale o delle parti – e gli strumenti da loro utilizzati per valutare la situazione. «Bisogna tenere conto, per esempio, che se si utilizzano i criteri del DSM si possono allargare a dismisura le categorie di malattia mentale. Che però, come tali, servono poco o nulla per valutare il funzionamento mentale dell’autore di reato nel momento in cui lo ha commesso», osserva Fornari. «Un problema concreto è che questo tipo di verifiche si svolge molto tempo dopo il fatto» e con l’obiettivo di trovare le risposte richieste dalla legge, decidendo a proposito della capacità di intendere e di volere del soggetto al momento del fatto, e della sua pericolosità. «Le valutazioni, sia quelle psichiatriche che le indagini con tecniche di imaging, si fanno, se va bene, due anni dopo il fatto», conferma Pietrini. «Ma oggi sappiamo che perfino una psicoterapia cambia la struttura cerebrale di un individuo, ed è difficile avere dati, sia funzionali che morfologici, relativi al momento dell’atto su cui si deve giudicare».
La situazione è più semplice se c’è una malattia conclamata, in caso contrario spetta al giudice decidere che peso dare alle informazioni in merito alla capacità decisionale del soggetto, incluse quelle provenienti dalle valutazioni genetiche e neurologiche. Nel 2009 il Tribunale di Trieste ha ridotto la pena a un uomo colpevole di un omicidio d’impulso perché portatore di mutazioni genetiche che avrebbero potuto favorire il comportamento violento. E negli Stati Uniti sempre più avvocati usano test genetici per dimostrare che i loro assistiti sono predisposti a un comportamento violento, alla depressione o a forme di dipendenza. Questi però potrebbero essere gli scenari del futuro; oggi la maggior parte dei delitti è compiuta da persone riconosciute in grado di intendere e di volere.
Malati o malvagi?
«Quelli che i media definiscono “raptus” in genere sono gesti compiuti da persone con disturbi di personalità, con stati emotivi complessi che possono avere una componente patologica, ma che non li privano della capacità di valutare e decidere», spiega Fornari. «La grande patologia mentale – la malattia vera che rende le persone non imputabili – riguarda al massimo l’8-10 per cento dei delitti». Certo ci sono eccezioni, casi di delirio legati a demenza, a episodi maniacali o a crisi psicotiche che portano ad atti violenti o a suicidi allargati. «Ma oggi le persone socialmente pericolose sono in gran parte sane», ribadisce Fornari. «Pensiamo solo ai reati finanziari, e a tutto quanto ci dicono, anche in termini psichici, del disinteresse per gli altri da parte di chi li commette».
Un altro elemento importante, su cui i periti devono pronunciarsi, è quello legato alla pericolosità sociale psichiatrica dell’omicida, «un dato diverso dalla pericolosità sociale criminale, quella che riguarda la grande criminalità, su cui è il giudice a decidere», spiega Fornari. La pericolosità psichiatrica si definisce invece in base alla valutazione clinica allo stato attuale, valutando se il vizio di mente persiste o se è emerso in un secondo tempo. Si decide in base al livello di pericolosità, «anche con lo scopo di tutelare il malato»: se è elevata si ricorre all’internamento in una struttura, se invece è attenuata si può optare per una libertà vigilata terapeutica con un percorso di controllo affidato ai dipartimenti di salute mentale. Il quadro è reso più complesso dalla recente chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, nati dall’evoluzione dei manicomi criminali, sostituiti da Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) ancora in via di definizione.
C’è da considerare che un malato di mente non è necessariamente destinato a rimanere tale, e anzi paradossalmente i deliri in forma acuta, veri e propri terremoti della psiche che è difficile prevedere, sono quelli che a volte offrono una prognosi migliore. «Nessuno nasce matto, fa il matto per tutta la vita e muore matto», spiega Fornari. Certo si può impazzire, e ci possono essere momenti di scompenso psicotico in cui si commettono azioni violente, «ma sono casi rari – conclude Fornari – e la maggior parte dei malati di mente non commette crimini violenti».