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 2016  gennaio 20 Mercoledì calendario

IL CONTROLLO DEI RICORDI

Sono passati poco più di vent’anni da quando il film Atto di forza è uscito sugli schermi, e ne siamo rimasti entusiasmati e spaventati al tempo stesso. Arnold Schwarzenegger recitava il ruolo di un uomo convinto di avere sposato un’avvenente bionda, interpretata da Sharon Stone, che scopre come tutto fosse falso, con falsi ricordi impiantati nel suo cervello.
Come sembra lontano tutto questo. All’epoca lo spettatore poteva sprofondare nella poltrona e procurarsi brividi gratuiti, masticando popcorn. In fondo era solo fantascienza. Ma in questi vent’anni il clima è cambiato. Gli esperimenti sui topi dimostrano che è possibile manipolare i ricordi. E come se oggi potessimo accendere o spegnere i neuroni con un telecomando. Atto di forza sarebbe allora l’anteprima di un futuro possibile?
In realtà, siamo al punto di arrivo di un processo cominciato 250 anni fa, quando si è scoperto che il funzionamento del cervello si basa sulle leggi dell’elettricità. Solo di recente abbiamo scoperto come sommando all’elettricità il potere straordinario della luce fosse possibile interferire con il funzionamento della mente. Luce, elettricità e neuroni: come si amalgamano fra loro? Per capirlo, ripercorriamo le origini di questa epopea.

L’epopea del neurone
Nel 1781 l’Europa è in pieno classicismo: Mozart compone l’Idomeneo, e più o meno nello stesso periodo, all’Università di Bologna, il fisico e medico Luigi Galvani scopre che una scintilla provoca la contrazione di una zampa di rana. Scopre così il concetto di «elettricità animale», elemento decisivo di una rivoluzione scientifica che si prepara in questa seconda metà del XVIII secolo e il cui obiettivo è il Sacro Graal dei biologi: la comprensione dei fenomeni elettrici che percorrono le membrane eccitabili del mondo animale. Da allora relettricità si profila come il legame esclusivo che collega la mente al cervello. I fenomeni elettrofisiologici – il modo in cui le cellule viventi producono relettricità – saranno considerati come vettori che permettono di animare il corpo.
Un secolo più tardi il ricercatore tedesco Hermann Ludwig von Helmholtz dimostrerà che questo vettore «elettricità» si propaga nel nostro corpo sotto forma di segnali elettrici con una velocità variabile dai 50 ai 100 metri al secondo. Così nel 1816 anche la scrittrice Mary Shelley sfrutta l’elettricità per il suo Frankenstein – la storia di un demiurgo che usa la scienza per riportare un morto alla vita – attribuendo proprio a una scossa elettrica il potere vitale di rianimare un corpo. Circa cinquant’anni dopo la pubblicazione del romanzo di Mary Shelley, il neurologo Guillaume-Benjamin-Amand Duchenne, detto Duchenne de Boulogne, riprende il mito dell’elettricità vitale e lo traduce in realtà. All’Ospedale Salpêtrière fonda una disciplina neurologica basata sull’elettroterapia. L’uso delle correnti elettriche in ambito terapeutico si diffonde: vengono così trattati con le stimolazioni elettriche il dolore fisico, i sintomi del morbo di Parkinson, e pure alcuni disturbi mentali, come la depressione, la dipendenza o i disturbi ossessivo-compulsivi (DOC).
Ne abbiamo fatta di strada fino a oggi: conosciamo l’origine della produzione elettrica nelle cellule nervose; sappiamo che i neuroni sono cellule eccitabili, la cui membrana è attraversata da ioni – atomi dotati di carica elettrica – come sodio, calcio, cloruro o potassio, e che questo movimento di atomi elettricamente carichi genera correnti elettriche.
E tuttavia rilasciare correnti nel cervello per raggiungere un gruppo specifico di neuroni non è una cosa facile, e l’elettroterapia si accompagna talvolta a effetti secondari indesiderati. Così alcuni pazienti hanno sviluppato diverse forme di dipendenza, o ancora hanno cambiato umore immediatamente dopo avere ricevuto stimolazioni elettriche trasmesse nelle strutture profonde del loro cervello per curare i sintomi del Parkinson.

E luce fu
Per limitare le difficoltà legate all’applicazione dell’elettricità, i neuroscienziati hanno cercato un mezzo che attivasse con più precisione i neuroni di un’area determinata e non quelli vicini. A quanto pare, questo obiettivo sembra oggi possibile stimolando alcuni neuroni non più con l’elettricità, ma con una sorgente di luce. Per essere ricettive alla luce, le cellule nervose devono essere modificate geneticamente per esprimere una proteina, la canalrodopsina, che funge da recettore dei fotoni.
Nata una decina d’anni fa, questa tecnica, ormai conosciuta come «optogenetica», promette di rivoluzionare le neuroscienze. Unendo la biologia molecolare – per modificare in modo specifico il patrimonio genetico di determinati neuroni – alle tecniche ottiche necessarie per modificare l’attività dei neuroni con la luce, si può accendere o spegnere rapidamente un insieme di neuroni (come con un interruttore) e al tempo stesso controllare a distanza il comportamento di un verme, di una mosca, di un topo o di una scimmia.
Grazie all’optogenetica, la luce permette oggi di controllare le funzioni cerebrali dei mammiferi con una precisione finora senza precedenti.

Possiamo manipolare la memoria?
E così la realtà promette di superare la fantasia. Il gruppo del neuroscienziato giapponese Susumu Tonegawa ha dimostrato che determinati ricordi possono essere modulati a piacere negli animali di laboratorio. Nel 2012, studiando i meccanismi della memoria e i loro deficit, questi ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno dimostrato che è possibile riattivare il ricordo di un evento sgradevole, e in un contesto diverso da quello in cui il ricordo si era formato. Era sufficiente stimolare con impulsi luminosi – trasmessi da una fibra ottica inserita nel cervello – i neuroni associati alla memorizzazione dell’ambiente sgradevole, quando i topi si spostavano in un luogo piacevole.
Un anno più tardi lo stesso team ha fatto un ulteriore passo avanti. Stavolta i ricercatori hanno sostituito un ricordo con un altro ricordo, e non riattivando la memoria di una situazione trascorsa, ma introducendo falsi ricordi nella memoria di un topo. In un primo tempo, i ricercatori hanno dovuto modificare geneticamente determinati neuroni dei roditori, posti in un zona decisiva del cervello, l’ippocampo, dove si formano le tracce mnestiche. Questi neuroni sono stati modificati in modo da diventare sensibili a particolari stimoli luminosi, non appena fossero stati attivati da un nuovo ambiente. Così, quando i roditori venivano collocati in un nuovo contesto, quest’ultimo attivava una popolazione di neuroni nei circuiti dell’ippocampo, creando una traccia mnestica. L’attivazione di questi neuroni provocava, qualche ora più tardi, l’espressione della canalrodopsina. In sostanza, con la magia della genetica moderna i neuroni che reagiscono a un contesto particolare diventano sensibili alla luce, e attivabili a volontà con questo mezzo.
Cambiamo ora l’ambiente del topo e collochiamolo in una scatola munita di una griglia elettrica che invia impulsi elettrici di intensità moderata alle zampe. Nel momento in cui il topo sobbalza, attiviamo con la luce i suoi neuroni fotosensibili: viene così attivata la memoria del contesto iniziale. Il topo tenderà ad associare la scarica elettrica con il contesto precedente, dove non si trovava al momento della scarica. Spostato dal contesto iniziale, il topo si blocca per la paura, come se ricordasse di avere ricevuto una scarica elettrica in questo ambiente, mentre in realtà era successo nel secondo luogo.
Si tratta di una straordinaria manipolazione psichica, che consiste nel creare un falso ricordo doloroso in un luogo dove niente del genere è mai avvenuto, e al tempo stesso un vero ricordo di dolore in un luogo dove si è prodotto realmente: i topi si bloccano per la paura se li mettiamo nella scatola elettrificata dove le correnti sono state davvero inviate. È anche possibile osservare nel cervello la coesistenza di due ricordi sgradevoli, l’uno vero e l’altro falso: un ricordo artificiale potrà così competere con un ricordo autentico.
Ma la cosa più sorprendente è che i ricercatori, quando indagano le strutture neurali verso cui l’ippocampo invia i segnali per scatenare le reazioni comportamentali, si accorgono che il falso ricordo è altrettanto efficace di quello reale per attivarle. In sostanza, i falsi ricordi sono ricordi a tutti gli effetti, non costruzioni mentali. Il confine fra il reale e l’immaginario non è mai stato così tenue.
Tutto questo induce alla prudenza, specialmente riguardo alle condanne pronunciate sulla base di testimonianze oculari fornite dopo i fatti. In effetti, numerosi esperimenti hanno dimostrato che i testimoni di un evento si ingannano facilmente – e possono essere indotti in errore dagli psicologi – credendo di aver osservato dettagli inesistenti. Questa scoperta mina, inoltre, il fondamento delle terapie psicoanalitiche basate sull’evocazione di ricordi intimi, che possono generare falsi ricordi talvolta dannosi.

Ricordi di felicità
Supponendo che queste tecniche saranno un giorno adattate all’uomo, potremo creare i nostri ricordi in modo da renderli più felici? Anche in questo caso la risposta potrebbe essere affermativa. Recentemente alcuni ricercatori dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e dell’Università di Suwon, in Corea, hanno impiantato un LED nel cervello di un topo per attivare una regione cerebrale decisiva per rivelare l’ottenimento di una ricompensa. Questa regione si attiva quando proviamo un senso di piacere, che si tratti di una barretta di cioccolato, di un rapporto sessuale o di una dose di droga. Quando inviano impulsi luminosi nel cervello dei topi, in modo da stimolare questa parte del cervello quando si recano in una zona particolare di un labirinto, i ricercatori ingannano i roditori, che, credendo di ricevere la ricompensa, imparano assai rapidamente a ritornare nella zona dove ricevono la gratificazione virtuale.
In realtà gli strumenti tecnici derivanti dall’optogenetica sono così potenti che permettono di stabilire in quali condizioni un ricordo è stato inciso nel nostro cervello, e in quali è stato cancellato.
Schematicamente, esistono diversi tipi di memoria, a breve e a lungo termine. Quella a breve termine ha una durata variabile da pochi secondi a pochi minuti, come una semplice risonanza del tempo presente nei nostri circuiti cerebrali. Questa memoria a breve termine ci permette di memorizzare il codice per aprire una porta, mentre lo dettiamo al telefono senza poterlo trascrivere su un foglietto. Dal canto suo, la memoria a lungo termine si consolida per settimane, in particolare grazie al sonno, e può durare per tutta la vita. Se è cosciente, questa forma di memoria viene detta «dichiarativa» o «esplicita». Corrisponde a tutti i ricordi che possiamo evocare e descrivere. L’altra forma di memoria a lungo termine, inconscia, è detta «implicita» o «procedurale».
Le moderne teorie nel campo delle neuroscienze affermano che tutte queste forme di memoria si fondano su modificazioni dell’efficacia durante la trasmissione di informazioni, effettuata mediante connessioni fra i neuroni, le sinapsi, un termine di origine greca coniato nel 1897 da Sir Charles Scott Sherrington che significa «meccanismo di contatto». Secondo queste teorie la memoria si forma nell’ambito di reti di neuroni che, dopo essere stati attivati in modo intenso o ripetuto, conservano una traccia di questa attivazione rinforzando i loro contatti. Questo rinforzo delle sinapsi permette anche all’informazione elettrica di circolare più facilmente nell’ambito dei neuroni stessi, favorendo la rievocazione del ricordo.
Il meccanismo cellulare di rinforzo delle sinapsi è stato scoperto dal neurobiologo Eric Kandel, premio Nobel per la medicina nel 2000: si chiama potenziamento a lungo termine. È un modo per dire che i contatti fra neuroni coinvolti in un ricordo sono «potenziati» in modo duraturo nel momento in cui si forma nel cervello una traccia mnestica. Al contrario, quando i ricordi vengono dimenticati interverrebbe un meccanismo contrario, la depressione a lungo termine, un fenomeno indispensabile per poter continuare a imparare per tutta la vita.
Ebbene, se questo concetto ha permesso la scoperta di molteplici meccanismi cellulari e molecolari dell’apprendimento e della memoria, la sua dimostrazione sperimentale è stata realizzata solo di recente. Inoltre, grazie alle tecnologie dell’optogenetica, il gruppo diretto da Roberto Malinow, docente di neuroscienze all’Università della California a San Diego, ha inviato stimoli luminosi a una parte del cervello del topo, l’amigdala, mentre i roditori ricevevano lievi scosse elettriche alle zampe. Poco alla volta, i topi hanno associato gli stimoli luminosi diretti all’amigdala con il dolore percepito.
Le conseguenze di questo apprendimento sul piano comportamentale sono evidenti, perché i roditori manifestano violente reazioni di paura nel momento in cui il loro cervello viene illuminato da rapidi impulsi di luce che generano un potenziamento a lungo termine, e senza che l’animale riceva alcuna scossa elettrica. Per contro, se le fotostimolazioni sono trasmesse con un ritmo più lento, generando una depressione a lungo termine nelle sinapsi dell’amigdala, il ricordo della scossa elettrica svanisce e gli animali restano tranquilli. Un po’ più tardi, quando il cervello dei roditori viene nuovamente illuminato con frequenze rapide di stimolazione, i ricordi preventivamente dimenticati riemergono, e gli animali manifestano un comportamento timoroso, anche se le scosse elettriche non vengono più somministrate.
Questa scoperta dimostra che il semplice fatto di avviare un meccanismo cellulare di potenziamento o di depressione a lungo termine nei neuroni è sufficiente per cancellare o per riattivare una memoria associativa nel cervello. E dimostra, inoltre, che la traccia biologica della memoria – il cosiddetto engramma – non è immutabile, ma rientra piuttosto in un processo dinamico che permette di codificare informazioni nei nostri circuiti neurali, di archiviare quelle stesse informazioni e poi di restituire, o meno, i nostri ricordi. Grazie a questa scoperta neurobiologica si delinea qui la prova sperimentale che mancava per interpretare il successo acquisito dalla psicoterapia cognitivo-comportamentale, che propone di modificare i comportamenti e i pensieri sfruttando la plasticità cerebrale.

L’orizzonte transumanista
Allo stato delle cose, siamo dunque capaci di migliorare la condizione umana controllando la sua attività mentale? È una domanda pertinente, perché ciò che ci rende umani non è nel nostro sangue né nei nostri muscoli, ma è soprattutto nel nostro cervello. Nella misura in cui si interviene sul suo funzionamento, riemergono le questioni fondamentali legate alla natura umana, e dovremmo dunque porci una domanda cruciale: quali conseguenze implicherebbe l’applicazione all’uomo di queste nuove conoscenze?
La questione fondamentale è sapere se desideriamo limitarci a riparare il cervello o se accettiamo di potenziarlo. Per esempio, se arrivassimo un giorno a usare la luce infrarossa, che penetra molto più in profondità nel cervello, potremmo immaginare applicazioni terapeutiche prive di effetti secondari in neurologia o in psichiatria. Questa «luminoterapia» sarebbe molto più efficace dell’elettrostimolazione o degli attuali agenti farmacologici. Ma sapremmo limitarci a riparare il cervello danneggiato? È possibile immaginare di sfruttare queste metodiche per aumentare le nostre capacità cognitive. È facile pensare che questa tecnica si possa usare un giorno per inibire l’ansia o la paura nei soldati in partenza per il fronte, o per mantenere svegli gli automobilisti al volante.
Da poco tempo viene posta ripetutamente e con urgenza la questione dei limiti dell’applicazione delle tecnoscienze all’uomo. Ricordiamo che è grazie all’avvento di tecnologie convergenti – nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive (NBIC) – che il progresso in medicina sta conoscendo un nuovo slancio. Certamente, la lotta contro la morte, la malattia, il dolore o la vecchiaia non è un’esclusiva dell’età moderna. Risale più o meno a 250 anni fa, e si è tradotta in un aumento costante della speranza di vita, che nel 1750 era di 25 anni appena – secondo la stima dell’INED, l’istituto nazionale francese per gli studi demografici – per raggiungere gli attuali 80 anni. Questa lotta per la vita si è nutrita dei progressi della medicina e dell’invenzione costante di nuove molecole farmacologiche, ma sembra aver cambiato marcia grazie all’uso di strumenti rivoluzionari prodotti dalle NBIC, come gli impianti cocleari, le retine artificiali o gli elettrodi impiantati nel cervello per trattare i parkinsoniani o le persone che soffrono di disturbi psichiatrici. Queste «tecnologie della convergenza» sempre più diffuse ci fanno entrare nell’era del transumanesimo, un’epoca in cui l’essere umano modificato dalla tecnologia potrebbe sottrarsi alle leggi di natura.

La memoria aumentata
Di recente la DARPA – l’agenzia statunitense per i progetti avanzati nella difesa – ha lanciato una sfida ai neuroscienziati, affinché sviluppassero un dispositivo impiantabile capace di alleviare le perdite di memoria dei veterani affetti da lesioni cerebrali traumatiche. Due laboratori particolarmente avanzati nel campo delle ricerche sull’epilessia hanno deciso di raccogliere questa nuova sfida. Ricordiamo che i pazienti colpiti da epilessia resistente a ogni trattamento farmacologico non possono essere curati se non per via chirurgica. Per preparare l’asportazione delle zone cerebrali dove hanno origine le crisi epilettiche, i neurochirurghi ricoprono anticipatamente il cervello di elettrodi che registrano per settimane la sua attività elettrica, per definire con precisione il focolaio epilettico. Questa operazione permette al contempo di stilare una mappa precisa del luogo di archiviazione della memoria e della restituzione dei ricordi.
Cercando di definire i «biomarcatori» elettrici della formazione e del recupero dei ricordi, sia normali sia deteriorati, nei pazienti epilettici, il neuroscienziato Michael Kahana, che dirige un gruppo di ricerca all’Università della Pennsylvania, ha rilevato alcune marcature elettriche associate alla codifica appropriata di un ricordo o all’archiviazione di un nuovo ricordo. Kahana ha dunque concepito algoritmi capaci di rivelare la formazione dei ricordi o il loro deterioramento, e tutto questo per riparare un giorno gli eventuali deficit di memoria. Queste ricerche hanno lo scopo di trovare nuovi modi per riparare un cervello danneggiato e non si prefiggono di aumentarne le prestazioni.
L’altro laboratorio che ha raccolto la sfida del DARPA è guidato dal neurologo Itzhak Fried, all’Università della California a Los Angeles. Fried ha dimostrato che, nei pazienti epilettici, una stimolazione della corteccia entorinale migliora le prestazioni di soggetti impegnati in un videogioco che richiede di imparare rapidamente, e poi di rievocare, l’indirizzo dove accompagnare i passeggeri di un taxi in una città virtuale. Operando su soggetti sani, il gruppo di Itzhak Fried dimostra che il confine tra il cervello riparato e il cervello aumentato può essere superato.
Il mondo della ricerca sulla memoria è dunque in pieno fermento. Che cosa ci riserverà il futuro? I sostenitori del transumanesimo vedono in questi progressi l’opportunità, unica, di immaginare un uomo liberato dai suoi difetti e dai suoi limiti. Bisognerebbe però sapere che cosa si intende per difetto, e cosa invece per qualità. Il progresso deve essere cercato progettando i soldati del futuro, o perfezionando i sistemi diplomatici in tempi di crisi? E ancora, i progressi realizzati nel trasferimento di informazioni da cervello a cervello sono la garanzia di un mondo migliore?

Un invito a riflettere
Nel 2013 alcuni ricercatori di Durham, in Inghilterra, e dell’Istituto di neuroscienze Edmond e Lily Safra, in Brasile, sono riusciti a connettere i cervelli di due ratti distanti fra loro più di 6000 chilometri mediante microelettrodi impiantati nei loro cervelli. Uno dei ratti è un discente che lavora in una gabbia per imparare come ottenere una razione di acqua; l’altro roditore, il ricevitore, riceve appunto la stessa istruzione tradotta dall’attività mentale del discente, che gli viene trasmessa sotto forma di impulsi elettrici al suo cervello. Il ricevitore trova il modo di ottenere dell’acqua nello stesso modo, senza lo sforzo di imparare. Grazie a questo dispositivo elettronico collocato all’interfaccia dei due cervelli, questi ultimi sono capaci non solo di comunicare fra loro, ma anche di cooperare. Questi fatti spettacolari dimostrano che non siamo lontani da dispositivi che permetteranno effettivamente di «leggere» il pensiero di altri individui o di prendere il loro controllo, proprio come nel film Avatar.
Purtroppo il perfezionamento delle tecniche di comunicazione neuronale non sembra andare di pari passo con le nostre capacità di comunicazione umana. Ora che l’umanità non è mai stata così connessa e informata a livello planetario, noi sembriamo incapaci di comunicare nel senso nobile, vale a dire di farci capire dai nostri vicini, da chi abita in un altro paese oppure da chi crede in un altro Dio o in altre pratiche religiose. Potranno le tecniche di modulazione neuronale alleviare queste carenze? Sarebbe presuntuoso pensarlo. Comunque, esse ci insegnano che il cervello è un bene inestimabile, il luogo dove risiedono i nostri pensieri ma anche i nostri desideri, i ricordi e persino i rancori. E di sicuro rappresentano un cambio di prospettiva che può – almeno questo è il nostro augurio – farci riflettere.