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 2016  gennaio 20 Mercoledì calendario

BABY TALK


Un bambino di pochi mesi ha un dono stupefacente e fugace: la capacità di imparare rapidamente una lingua. A sei mesi, il piccolo può imparare i suoni di cui sono fatte le parole inglesi e, se contemporaneamente è esposto a quechua e tagalog, è in grado di cogliere le specifiche proprietà acustiche anche di queste lingue. Arrivato a tre anni, un bimbo può conversare con un genitore, un compagno di giochi o un estraneo.
Dopo quattro decenni di studio dello sviluppo infantile, ancora mi stupisce come un bambino possa passare da balbettii casuali a parole e frasi articolate nel giro di qualche anno appena – un livello di padronanza che si raggiunge più in fretta di per qualunque altra abilità complessa acquisita nel corso della vita. Solo negli ultimi anni i neuroscienziati hanno cominciato a farsi un quadro di quello che avviene nel cervello di un piccolo durante il processo di apprendimento grazie a cui un neonato che gorgoglia diventa un bambino meraviglioso e avvincente.
Alla nascita, il cervello infantile è in grado di percepire l’intera gamma dei circa 800 suoni, o fonemi, che possono essere messi insieme a formare le parole di tutte le lingue del mondo. Nella seconda metà del primo anno di vita, dicono le nostre ricerche, nel cervello del bambino si apre una porta misteriosa, che conduce a un «periodo sensibile», come dicono i neuroscienziati, in cui il cervello infantile è pronto a ricevere le prime lezioni di base sulla magia del linguaggio.
Il periodo in cui il cervello del piccolo è più aperto ad apprendere i suoni della lingua madre inizia a sei mesi per le vocali e a nove per le consonanti. A quanto pare, il periodo sensibile dura solo per qualche mese, ma si allunga nei bambini esposti ai suoni di una seconda lingua. E un bimbo è ancora in grado di acquisire una seconda lingua, con un buon grado di fluidità e padronanza, fino ai sette anni.
La capacità linguistica innata non basta, da sola, a condurre il bambino molto oltre i primi «ma-ma» o «pa-pa». A impadronirsi della più importante delle abilità sociali lo aiutano però le innumerevoli ore trascorse ad ascoltare i genitori che parlano nel «dialetto» sciocchino del «maternese». Le sue inflessioni esagerate «Ma coo-me sei bellii-no!» servono allo scopo tutt’altro che frivolo di insegnare ogni giorno intonazioni e cadenze della lingua madre. Il nostro lavoro mette fine al vecchio dibattito sulla prevalenza dei geni o dell’ambiente nel primo sviluppo del linguaggio: entrambi hanno un ruolo centrale.
Le conoscenze sulle prime fasi dello sviluppo del linguaggio oggi sono arrivate a un livello di raffinatezza che permette a psicologi e medici di darsi nuovi strumenti per aiutare i bambini che hanno difficoltà di apprendimento. Gli studi ci offrono le basi per determinare, mediante la registrazione delle onde cerebrali, se le abilità linguistiche di un bambino si stanno sviluppando normalmente o se vi sia rischio di autismo, deficit di attenzione o altri disturbi. Un giorno, forse, una normale visita di controllo del pediatra potrebbe prevedere, insieme alla vaccinazione contro morbillo, parotite e rosolia, l’esame del cervello del bambino.

Le statistiche del «maternese»
La ragione per cui possiamo pensare a un test per lo sviluppo del linguaggio è che abbiamo cominciato a capire come fanno i bambini ad assorbire il linguaggio con tanta apparente facilità. Il mio laboratorio, e altri, hanno mostrato che nei primissimi stadi di acquisizione del linguaggio i bambini si valgono di due distinti meccanismi di apprendimento: uno che riconosce i suoni mediante calcoli mentali e l’altro che richiede un’intensa immersione sociale.
Per imparare a parlare, i bambini devono sapere quali sono i fonemi di cui sono fatte le parole che ascoltano. Hanno bisogno di distinguere quella quarantina degli 800 fonemi possibili che servono per pronunciare le parole della loro lingua. Per farlo, bisogna saper individuare sottili differenze nei suoni del parlato. Un’unica consonante può alterare il senso di una parola – «cane» e «pane», per esempio. E una semplice vocale può variare molto quando la pronunciano persone diverse, parlando a velocità diverse, in diversi contesti. L’estrema variabilità dei singoli fonemi è appunto il motivo per cui i programmi di riconoscimento vocale non funzionano ancora alla perfezione.
Il mio lavoro, e quello di Jessica Maye, allora alla Northwestern University, hanno mostrato che gli andamenti statistici – la frequenza con cui si presentano i suoni – hanno un ruolo cruciale nel far imparare ai piccoli quali siano i fonemi più importanti. I bambini tra gli otto e i dieci mesi di età non capiscono ancora le parole che sentono. Però sono altamente sensibili a quanto spesso si presentino i vari fonemi, cioè a quelle che gli statistici chiamano distribuzioni di frequenze. I fonemi più frequenti di una certa lingua sono quelli emessi più spesso. In inglese, per esempio, i suoni «r» e «l» sono piuttosto frequenti. Compaiono in parole come «rake» e «read» o come «lake» e «lead». Anche in Giappone si trovano la «r» e la «l» di tipo inglese, ma meno spesso. Il suono della «r» giapponese, invece, è comune, però in inglese lo si trova di rado. (La parola giapponese «ramen» [un tipo di zuppa, N.d.T.] suona a orecchie occidentali come «laamen», perché la «r» giapponese sta a metà tra la «r» e la «l» degli statunitensi.)
La frequenza statistica dei particolari suoni influisce sul cervello infantile. In uno studio effettuato su bambini di Seattle e di Stoccolma abbiamo monitorato la percezione dei suoni vocalici a sei mesi e dimostrato che ognuno dei due gruppi aveva già cominciato a concentrarsi sulle vocali usate dalla propria lingua madre. La cultura della parola pronunciata aveva già pervaso il cervello dei bambini, e influiva sul modo in cui percepiva i suoni.
Che cosa è avvenuto in questo caso? Maye ha mostrato che quell’età il cervello è abbastanza plastico da poter modificare il modo in cui il piccolo percepisce i suoni. Un bimbo giapponese che ascolta suoni dell’inglese impara a distinguere i suoni «r» e «l» nel modo in cui sono usati negli Stati Uniti. Allo stesso modo un bambino cresciuto tra persone di madrelingua inglese sarebbe capace di cogliere i suoni caratteristici del giapponese. L’apprendimento dei suoni nella seconda parte del primo anno stabilisce nel cervello connessioni per la propria lingua madre ma non per le altre, a meno che in quel periodo il bambino non sia esposto a più di una lingua.
Nelle successive fasi dell’infanzia, e ancora più da adulti, ascoltare un’altra lingua non dà più risultati così spettacolari: persone che viaggiano in Francia o in Giappone sono in grado di udire la distribuzione statistica dei suoni di un’altra lingua, ma il cervello non viene modificato da questa esperienza. È per questo che imparare più tardi una seconda lingua è tanto difficile.
Una seconda forma di apprendimento statistico permette ai bambini di riconoscere parole intere. Da adulti, riusciamo a capire dove finisce una parola e comincia la successiva. Ma la capacità di isolare le parole dal flusso del discorso richiede complesse elaborazioni mentali. Il parlato arriva all’orecchio come un flusso continuo di suoni, privo degli elementi di separazione presenti fra le parole scritte.
Jenny Saffran, oggi all’Università del Wisconsin a Madison, e i suoi colleghi Richard Aslin dell’Università di Rochester ed Elissa Newport, oggi alla Georgetown University, sono stati i primi a scoprire che i bambini più piccoli sfruttano l’apprendimento statistico per afferrare il senso delle parole intere. A metà degli anni novanta, il gruppo di Saffran ha pubblicato prove secondo cui i piccoli di otto mesi sono in grado di imparare unità verbali simili a parole sulla base della probabilità che una sillaba ne segua un’altra. Prendiamo un’espressione come «bambino carino». È più probabile che la sillaba «bam» si faccia sentire seguita da «bi» invece che da altre sillabe come «ca».
Nell’esperimento, Saffran ha fatto ascoltare a bambini piccoli un flusso di parole senza senso, sintetizzate da un computer, che contenevano sillabe: alcune di queste sillabe ricorrevano insieme più spesso delle altre. La capacità dei piccoli di concentrarsi sulle sillabe della pseudo-lingua che combaciavano più spesso permetteva loro di identificare probabili parole.
Negli anni novanta la scoperta riguardante le capacità di apprendimento statistico dei bambini piccoli ha suscitato entusiasmo, perché ha offerto una teoria dell’apprendimento linguistico che superava l’idea allora prevalente secondo cui il bambino impara solo grazie al condizionamento operato dai genitori e con l’affermazione che una certa parola è giusta o sbagliata. L’apprendimento infantile inizia prima che i genitori si rendano conto che sta avvenendo. Gli ulteriori test effettuati nel mio laboratorio, però, hanno dato nuovi significativi risultati, che aggiungono a questa storia un’importante precisazione: il solo ascolto passivo non è sufficiente per l’apprendimento statistico.

Incontri di bimbi
Nel nostro studio, abbiamo scoperto che ai bambini non basta essere geniali nell’elaborazione computazionale di raffinati algoritmi neurali. Nel 2003 abbiamo pubblicato i risultati di alcuni esperimenti in cui piccoli di nove mesi di Seattle erano esposti al cinese mandarino. Volevamo vedere se le capacità di apprendimento statistico di cui erano dotati avrebbero permesso loro di apprendere qualche fonema di quella lingua.
A due o tre alla volta, i bimbi di nove mesi ascoltavano il mandarino parlato da persone madrelingua che intanto giocavano con loro sul pavimento con libri e giocattoli. Anche altri due gruppi sono stati esposti al mandarino; uno però guardava un video di persone che parlavano in questa lingua e l’altro sentiva solo una registrazione audio. Un quarto gruppo, che faceva da controllo, non ascoltava affatto il mandarino ma giocava, con gli stessi libri e giocattoli, insieme a studenti universitari che parlavano inglese. Il tutto per 12 sessioni, tenute nel corso di un mese.
I bambini di tutti e quattro i gruppi sono poi stati sottoposti a test psicologici e monitoraggio cerebrale in laboratorio, per valutare la loro capacità di individuare singoli fonemi del cinese mandarino. Solo il gruppo esposto al cinese parlato dal vivo aveva imparato a cogliere i fonemi stranieri. Le loro prestazioni, addirittura, equivalevano a quelle dei bambini di Taipei, che avevano sentito i fonemi dai genitori per tutti i loro primi 11 mesi di vita.
I bambini esposti al cinese mandarino attraverso il video o l’audio non hanno imparato nulla. La loro capacità di distinguere i fonemi equivaleva a quella dei piccoli del gruppo di controllo, le cui prestazioni, come previsto, non erano migliorate rispetto a prima dell’esperimento.
Lo studio ha dimostrato che per il cervello infantile l’apprendimento non è un processo passivo, richiede invece interazioni sociali – un’esigenza che io chiamo di «accesso sociale». L’ipotesi si può estendere, anzi, al modo in cui imparano a comunicare molte altre specie. L’esperienza di un bambino piccolo che impara a parlare, in effetti, somiglia al modo in cui imparano a cantare gli uccelli.
Avevo lavorato in precedenza con la compianta Allison Doupe, dell’Università della California a San Francisco, confrontando l’apprendimento in bambini e uccelli. Abbiamo trovato che l’esperienza sociale nei primi mesi di vita è essenziale per bambini e diamantini (Taeniopygia guttata). I piccoli di entrambe le specie si immergono nell’ascolto degli individui più anziani e imparano a memoria i suoni che sentono. Questi ricordi poi condizionano le aree motorie del cervello a produrre suoni che corrispondono a quelli che si sentono spesso nella più vasta comunità sociale in cui crescono.
Ancora non è chiaro il modo esatto in cui negli esseri umani il contesto sociale contribuisce all’apprendiménto di una lingua. Ho suggerito, però, che genitori e altri adulti potrebbero fornire insieme motivazioni e informazioni che aiutano il bambino a imparare. La componente motivazionale è alimentata dal sistema cerebrale della ricompensa, in particolare dalle aree cerebrali che sfruttano il neurotrasmettitore dopamina nel corso delle interazioni sociali. Il lavoro del mio laboratorio ha già dimostrato che i bambini imparano meglio in presenza di altri bambini; attualmente con i miei collaboratori siamo impegnati in studi che ne spieghino i motivi.
In più, quando guardano negli occhi i genitori, i bambini più piccoli ricevono indizi sociali chiave che accelerano lo stadio successivo dell’apprendimento della lingua: la comprensione del significato delle parole vere e proprie. Andrew Meltzoff dell’Università di Washington ha mostrato che i bambini piccoli che seguono la direzione dello sguardo degli adulti acquisiscono un vocabolario più ricco nei primi due anni di vita rispetto a quelli che non seguono questi movimenti oculari. Che ci sia un collegamento tra sguardo e parola è sensato, e ci dà una prima spiegazione del motivo per cui non basti guardare un video didattico.
Nel gruppo che riceveva le lezioni dal vivo, i piccoli potevano vedere l’insegnante di cinese mandarino spostare lo sguardo su un oggetto mentre lo nominava, un’azione sottile che lega insieme la parola e l’oggetto a cui dà il nome. In un lavoro pubblicato a luglio 2015, abbiamo anche mostrato che se un insegnante di spagnolo mostra nuovi giocattoli e allo stesso tempo ne parla, i bimbi che spostano avanti e indietro lo sguardo dalla persona al giocattolo, invece di tenerlo fisso solo sull’una o sull’altro, imparano oltre alle parole usate nella lezione anche i fonemi. Questo esempio illustra bene la mia teoria per cui le capacità sociali dei piccoli sono quelle che abilitano – la «soglia», per così dire, da superare – l’apprendimento del lingua.
Queste idee sulla componente sociale del primo apprendimento della lingua potrebbero anche spiegare alcune difficoltà incontrate dai bambini che poi svilupperanno disturbi come l’autismo. I bambini autistici non hanno un interesse di base per il parlato, e invece si concentrano su oggetti inanimati e non fanno attenzione agli indizi sociali che sono essenziali per l’apprendimento della lingua.

Ehi, «ciaaoooo»
La possibilità di imparare a parlare di un bambino dipende non solo dal poter ascoltare gli adulti ma anche del modo in cui gli adulti parlano con lui. A Dacca, in Bangladesh, come a Parigi, in Francia, a Riga, in Lettonia, o nella riserva indiana di Tulalip presso Seattle, i ricercatori che hanno ascoltato le persone mentre parlavano con i bambini hanno capito una semplice verità: gli adulti parlano con i piccoli in modo diverso che con gli altri adulti. Etnografi culturali e linguisti lo chiamano baby talk, o «maternese», e lo si ritrova nella maggior parte delle culture. All’inizio, ci si chiedeva se potesse ostacolare l’apprendimento del linguaggio. Molti studi tuttavia hanno mostrato che il maternese (che per ragioni di par condicio si potrebbe forse chiamare «genitorese»), in realtà aiuta il piccolo a imparare. Del resto, non è certo un’invenzione recente: Varrone (116-27 a.C.), antico grammatico romano, notava che certe parole abbreviate si usavano solo parlando con i bambini in tenera età o poco più grandi.
Il mio laboratorio – e quelli di Anne Fernald alla Stanford University e di Lila Gleitman all’Università della Pennsylvania – ha cercato gli specifici aspetti sonori del maternese che richiamano l’attenzione dei piccoli: il tono più acuto, il ritmo più lento e l’esagerata intonazione. Se possono scegliere, i piccoli preferiscono ascoltare brevi registrazioni audio in maternese piuttosto che registrazioni sempre della voce della madre ma in conversazione con adulti. Il tono più acuto sembra essere l’indicatore sonoro che cattura e mantiene desta l’attenzione dei bambini.
Il maternese esagera le differenze tra i vari suoni: è più facile distinguere un fonema dall’altro. I nostri studi mostrano che probabilmente questa esagerazione nel parlato aiuta il bambino a memorizzare i suoni. In un recente studio del mio gruppo, Nairán Ramírez-Esparza, ora all’Università del Connecticut, ha fatto indossare a dei bambini registratori ad alta fedeltà miniaturizzati applicati ad abiti leggeri indossati in casa per tutta la giornata. Le registrazioni ci hanno permesso di entrare nel mondo uditivo dei piccoli, e ci hanno mostrato che se i genitori parlavano loro in maternese a quell’età, un anno dopo i bambini avevano imparato più del doppio del numero di parole apprese da quelli i cui genitori non usavano altrettanto spesso il «dialetto» bambinesco.

Biomarcatori dell’apprendimento
Fra gli studiosi del cervello che lavorano sullo sviluppo infantile cresce l’entusiasmo per la possibilità di sfruttare un numero sempre più grande di conoscenze sulle prime fasi di questo sviluppo per identificare schemi caratteristici di attività cerebrale. Conosciuti come biomarcatori, questi schemi danno indicazioni sul fatto che un bambino potrebbe avere difficoltà nell’imparare a parlare. In uno studio recente effettuato nel mio laboratorio, bambini di due anni con disturbi dello spettro autistico hanno ascoltato parole, conosciute o meno, mentre monitoravamo l’attività elettrica del loro cervello.
Abbiamo trovato che il grado con cui era presente un particolare schema di onde cerebrali in risposta a parole già note era predittivo delle successive capacità linguistiche e cognitive all’età di quattro e sei anni. Queste misurazioni valutano il successo dei bambini nell’imparare dagli altri. E mostrano che se un piccolo ha la capacità di imparare le parole per via sociale questo è di buon auspicio per le sue capacità generali di apprendimento.
La possibilità di arrivare a misurare lo sviluppo cognitivo di bambini piccoli è più vicina grazie alla disponibilità di nuovi strumenti con cui valutare la loro capacità di rilevare i suoni. Il mio gruppo di ricerca ha cominciato a usare la magnetoencefalografia (MEG), una tecnica di visualizzazione innocua e non invasiva, per dimostrare il modo in cui il cervello risponde al parlato. La macchina ha 306 sensori SQUID (superconducting quantum interference device, dispositivi superconduttori a interferenza quantistica) collocati in un apparato che ricorda un casco asciugacapelli. Mentre il piccolo lo indossa, i sensori misurano i tenui campi magnetici che indicano la scarica di specifici neuroni nel cervello del bimbo quando ascolta il parlato. Con la MEG, abbiamo già dimostrato che c’è una finestra temporale critica in cui i bambini sembrano fare le prove mentalmente per prepararsi a parlare la propria lingua materna.
La MEG è troppo costosa e difficile per essere usata nello studio di un pediatra di base. Tuttavia queste ricerche aprono una strada, identificando biomarcatori che finiranno per essere misurati con strumenti portatili ed economici e che potranno essere impiegati al di fuori di un laboratorio universitario.
L’eventuale identificazione di biomarcatori affidabili per l’apprendimento del linguaggio dovrebbe aiutare a determinare se i bambini si stanno sviluppando normalmente o sono a rischio di disabilità a insorgenza precoce legate al linguaggio, come possono essere disturbi dello spettro autistico, dislessie, sindrome del cromosoma X fragile e altri ancora. Riuscendo a capire la peculiare capacità di linguaggio del cervello umano e quando esattamente sia possibile agire su di essa potremmo arrivare a fornire terapie abbastanza precocemente da cambiare il corso dell’esistenza futura di un bambino.