Silvia Bencivelli; Luigi Pontieri, Le Scienze 1/2016, 20 gennaio 2016
PULIZIE BESTIALI
Dal letame nascono i problemi. Problemi iniettivi, problemi sanitari, problemi sociali, e poi puzza e disgusto. Per questo noi esseri umani ci siamo dotati di sistemi per la rimozione delle immondizie dai nostri habitat, e per il loro smaltimento il più lontano possibile: scarichi, fognature, cassonetti, discariche, inceneritori, e recentemente le complicate filiere del riciclo di carta, vetro, plastica, metalli. Ma la questione non riguarda solo noi. La questione riguarda tutti gli animali che vivono in comunità, che producono scarti e che devono difendersi da agenti infettivi e predatori. Cioè, vista con gli occhi di un naturalista, la questione riguarda la convivenza tra individui della stessa specie, ma soprattutto l’interazione tra specie diverse, in particolare quando una potrebbe vedere nei rifiuti dell’altra risorse o richiami, cioè indizi di una presenza nell’ambiente.
È così che, a cercare negli angoli più intimi del comportamento animale, si trovano cose che noi umani chiameremmo toilette, discariche e spazzini. Ma non soltanto. Uno dei rifiuti più complicati da gestire, anche per noi che non li consideriamo solo tali, sono i cadaveri. Api, termiti e formiche hanno sviluppato strategie comportamentali complesse per la rimozione dei corpi, che si sono evolute indipendentemente in specie diverse di insetti sociali. Strategie comportamentali che oggi vengono collettivamente chiamate necroforesi, per usare un termine introdotto a metà degli anni ottanta dal pioniere degli studi sulle formiche, il biologo statunitense Edward O. Wilson.
Via via che le studiamo, scopriamo che queste strategie necroforetiche non sono tanto lontane dalle nostre. Anzi: il cadavere della compagna può essere trattato da formiche, api e termiti in maniere tanto simili a quelle adottale da noi esseri umani che in passato i naturalisti ne hanno dato descrizioni spiccatamente antropomorfe parlando di «funerali» e «cimiteri», seguendo la descrizione che Plinio il Vecchio aveva fatto delle formiche nel suo Naturalis Historia.
Questa somiglianza non deve tuttavia sorprendere, anzi dà un’ulteriore prova del fatto che a pressioni evolutive simili la selezione naturale ha favorito risposte simili. Sia noi sia loro, cioè sia gli altri animali non per niente definiti come «sociali», tendiamo a vivere vicini ai nostri conspecifici in grandi comunità. Nel caso degli insetti, si parla di colonie, che a volte sono costituite da milioni di membri. Ciascuna colonia vive all’interno della propria «città», che può essere il formicaio, il termitaio o l’alveare. E in un formicaio, in un termitaio o in un alveare, così come in una città vera e propria, patogeni e parassiti che colpiscono un individuo possono rapidamente diventare l’origine di epidemie diffuse a tutta la collettività.
Ma, a differenza delle specie solitarie, noi esseri umani e gli insetti sociali non possiamo semplicemente fare armi e bagagli e spostarci in un altro luogo per evitare il contatto con i patogeni, e magari costruire un’altra città. Non possiamo certo ignorare il cadavere o tenercene solo un po’ alla larga, come fanno certi scarafaggi di alcune specie solitarie. Quindi, alla fine, quello che ci conviene fare è dotarci di infrastrutture per la gestione dei cadaveri, e dei professionisti che le sanno far funzionare. Insomma: ci vuole qualcosa che somigli a un coroner, e poi a un becchino.
Segnali di morte
Intanto: come si riconosce un cadavere? E come si riconosce tra milioni di individui che sgambettano in un’enorme e movimentata città? Tra gli insetti, si pensa che il principale dei segnali di morte sia di tipo chimico e che sia legato soprattutto all’accumulo di acidi grassi nel corpo in decomposizione. Lo dimostrò proprio Edward O. Wilson, con una serie di esperimenti in cui osservò che l’innesco dei comportamenti necroforetici era il «segnale di morte» dato dall’esalazione di acido oleico dal cadavere.
Ricerche più recenti hanno mostrato che alcune specie rimuovono i cadaveri anche prima che questi abbiano potuto cominciare a rilasciare sostanze. Ecco perché si pensa che oltre a un segnale chimico di morte ci siano segnali di cessazione della vita, secondo l’ipotesi avanzata da Dong-Hwan Choe, dell’Università della California a Riverside, su «Proceedings of the National Academy of Sciences» nel 2009. In fondo non sarebbe diverso da quello che fanno i vertebrati, che capiscono di avere a che fare con un compagno deceduto ben prima che il suo corpo vada in putrefazione, ma appena non ne percepiscono più il movimento.
In ogni caso, per la maggior parte delle formiche, delle termiti, per le api, oggi è assodato che c’è di mezzo la chimica, come per tante altre specie di insetto, che siano sociali, gregarie o solitarie. L’ipotesi più accreditata, come riportato in una lunga review dei ricercatori Germán Octavio López-Riquelme e María Luisa Fanjul-Moles, entrambi dell’Universidad Nacional Autónoma de México, pubblicata nel 2013 su «Trends in Entomology», è che il riconoscimento di questi segnali chimici si sia evoluto come segnale di allarme generico per la presenza di cadaveri. Mentre il comportamento necroforetico successivo sarebbe legato all’evoluzione dei comportamenti sociali, e per questo sarebbe presente solo nelle specie che vivono in comunità. Il riconoscimento della «cessazione di vita», infine, sarebbe un tratto ancora più recente, selezionato dall’evoluzione perché capace di dare alla necroforesi maggiore efficienza.
Una volta che il cadavere è stato identificato, è il momento dei becchini. Nelle api ci sono le specialiste del mestiere: circa l’1-2 per cento degli individui della colonia sono addetti alla rimozione dei cadaveri, e alla gestione del rischio che questa comporta. Tra le formiche solitamente si tratta degli individui più anziani: afferrano il cadavere della compagna deceduta e lo trasportano rapidamente in apposite aree a grande distanza dal nido paragonabili ai nostri cimiteri fuori porta (come fa la specie Myrmica rubra). Oppure lo isolano in specifiche camere all’interno del nido, dove viene stipato e isolato insieme ad altri rifiuti (come avviene in alcune specie di formiche tagliafoglie del genere Atta). Vere e proprie sepolture nelle formiche sono rare, probabilmente perché dispendiose dal punto di vista energetico: ne sono state segnalate solo nella specie Temnothorax lichtensteini, da Marielle Renucci, dell’Institut méditerranéen d’écologie et de paléoécologie di Aix-en-Provence nel 2010 su «Insectes Sociaux». Al contrario, si sono osservate di frequente nelle termiti, che talvolta ricoprono letteralmente i propri cadaveri con terriccio. Questa differenza è probabilmentc dovuta al fatto che le termiti vivono più confinate delle formiche, tanto che per loro può essere conveniente anche la necrofagia: un comportamento con un certo margine di rischio infettivo, ma con il vantaggio di permettere il recupero di sostanze nutrienti.
Infine, è stato descritto da due diversi articoli – uno di Jürgen Heinze dell’Università di Ratisbona e l’altro da Michel Chapuisat dell’Università di Losanna, pubblicati su «Current Biology» nel 2010 – il comportamento di diverse specie di formiche, come Temnothorax unifasciatus, che fanno a meno del becchino. Perché quando le operaie anziane o malate sentono arrivare la propria ora si isolano dalle compagne e poi si allontanano, per andare a morire da sole lontano dal nido. Un comportamento di estremo sacrificio del singolo, che ha lo scopo di salvaguardare la cosa più importante per una formica: la salute della colonia.
Riciclo dei cadaveri
Poi ci sono le eccezioni. O meglio: ci sono quelli che non trattano i cadaveri da rifiuti, e anzi li riciclano, sfruttando proprio il rischio infettivo, l’esalazione del segnale chimico di morte o anche solo il disgusto che suscitano. Lo fanno di preferenza con i cadaveri di altri animali.
Nel 2014, per esempio, Michael Staab dell’Università di Friburgo ha descritto su «PLoS ONE» la scoperta di una specie di vespa cinese che i cadaveri li usa per fare la guardia alla tana. La vespa sul campo si è meritata il nome scientifico di Deuteragenia ossarium, perché è stata osservata impilare davanti all’ingresso del nido cadaveri di formiche probabilmente cacciate apposta, uccise e trasportate lì a protezione delle uova dai predatori. L’ipotesi dei ricercatori è che lo facciano perché le formiche, sebbene siano morte, esalano odore di formica e quindi confondono eventuali malintenzionati a caccia di vespe. Tanto più che si tratta di formiche tipicamente molto aggressive e minacciose. E quindi buone, come guardiani, anche da morte.
Ma c’è chi è ancora più inventivo. Qualche anno fa Simon Pollard e Robert Jackson, oggi rispettivamente all’Università di Cranfield, nel Regno Unito, e all’Università di Canterbury, in Nuova Zelanda, descrissero in dettaglio sul «Journal of Zoology» lo strano comportamento di un insetto malese osservato sin dagli anni cinquanta (Acanthaspis petax) che caccia le formiche, le mangia e si copre dei loro cadaveri, insieme a resti di vegetali e terriccio. L’ipotesi è che l’insetto, mettendosi questo «zainetto» (è proprio così che lo chiamano gli scienziati), si costruisca una specie di protesi con funzione simile alla coda della lucertola. Cioè: se attaccato, molla lo zainetto. E mentre il predatore è lì che «ispeziona» lo strano bagaglio lui prende e scappa. Lo stesso zainetto può anche confondere i predatori prima dell’attacco, grazie alla confusione di odori che crea e che disorienta, per esempio, i centopiedi, che fondano le proprie battute di caccia sull’olfatto.
Un comportamento apparentemente opposto è quello di alcune specie di reduvidi, insetti diffusi su tutto il pianeta e molto aggressivi, di cui fanno parte le cosiddette, non a caso, cimici assassine. Una di queste specie (Salyavata variegata) usa i cadaveri delle termiti di cui si è appena nutrita per attrarre altre termiti e continuare il pasto. In pratica cattura una prima termite, la mangia internamente succhiandola da un’estremità e svuotandola, e poi fa penzolare il suo esoscheletro sui bordi del termitaio, per adescare le altre.
Anche tra le stesse formiche ci sono eccezioni ai comportamenti classici. Un esempio è la formica faraone: una specie invasiva che ha sempre viaggiato clandestina al seguito dell’essere umano, e che nei climi non tropicali colonizza ambienti chiusi di tutti i tipi, come crepe nei muri, cavi elettrici, persino computer. Una ricerca recente, effettuata da uno degli autori di questo articolo (Pontieri) e pubblicata nel 2014 su «PLoS ONE», ha mostrato che la formica faraone preferisce fare il nido in zone piene dei cadaveri delle compagne morte e infette. Cioè: dovendo spostarsi e ricostruire il proprio nido, va di preferenza dove le altre formiche non andrebbero mai. Una delle ipotesi è che la vicinanza con i cadaveri infetti stimoli il sistema immunitario, lo fortifichi. Ovvero che sia una specie di vaccino, che rende gli individui resistenti e quindi anche capaci di adattarsi ad ambienti diversi.
Gestire i rifiuti
L’esigenza di pulire il nido, però, va ben al di là delle questioni di polizia mortuaria. Ogni giorno si devono rimuovere resti di cibo, parassiti e sporcizie varie prodotte all’interno o portate dall’esterno da chi vola o cammina fuori, e poi rientra a casa con ali e zampe sporche.
Nelle formiche tagliafoglie del genere Atta, per esempio, la quantità di rifiuti prodotti ogni giorno è enorme. Si tratta di specie che vivono in colonie di milioni e milioni di individui, che raccolgono quantità pantagrueliche di materiale vegetale, dell’ordine delle tonnellate per anno, talvolta defoliando intere aree di foresta. Questo materiale viene usato per coltivare un particolare tipo di fungo «buono» di cui le formiche si nutrono, che a sua volta può essere parassitato da un altro fungo «cattivo». Dunque i rifiuti includono materiale vegetale avanzato o in decomposizione, fungo «buono» ma vecchio, spore del fungo «cattivo» e cosi via. Non è un caso, quindi, che queste formiche costruiscano vere e proprie discariche.
Ci sono però differenze tra specie. Alcune, come Atta cephalotes, ammassa i rifiuti in camere speciali all’interno del nido. Mentre per esempio la formica Atta colombica situa le sue discariche all’esterno, come è stato mostrato da Adam G. Hart, dell’Università del Gloucestershire, e Francis Ratnieks, dell’Università del Sussex, nel loro articolo pubblicato nel 2002 su «Behavioral Ecology».
Non solo: Atta colombica situa queste discariche a valle del nido, per evitare il ritorno di rifiuti e liquami in caso di pioggia, e costruisce due ingressi separati per l’entrata del cibo e per l’uscita del pattume. Per la gestione di tutto il sistema, ha un metodo altamente specializzato che prevede formiche «spazzino», incaricate della pulizia delle stanze del formicaio, formiche «trasportatrici», che portano rapidamente gli scarti alla discarica, e formiche più grosse addette alla discarica medesima, che impilano i rifiuti in modo da garantirne una veloce decomposizione. Di tutte le formiche che lavorano all’esterno del nido, quelle che si occupano di questa filiera sono l’11 per cento.
Ci sono però rifiuti più complicati degli altri. Sono feci e urine, che non sono affatto semplici da trasportare e, soprattutto, possono diventare segnali della propria presenza e attrarre i predatori. Chi vola, ha meno problemi: quando la natura chiama, le api per esempio escono dall’alveare e la fanno in volo, talvolta anche riunendosi in grandi gruppi. Mentre il bruco della farfalla Epargyreus clarus la espelle con forza a grande distanza, superando anche 1,5 metri di lancio. Ma chi vive nella terra ha il concreto bisogno di una toilette.
Di recente, per esempio, è stato osservato che la formica Lasius niger crea stanze destinate solo a questo scopo, senza nessun altro tipo di rifiuto al loro interno: praticamente toilette pubbliche. Probabilmente, spiega Tomer Czaczkes dell’Università di Ratisbona e autore della ricerca pubblicata nel 2015 su «PLoS One», le feci non rappresentano poi un grave pericolo infettivo. Oppure, sono riciclate a scopo alimentare, come del resto fanno molti altri animali, e questo spiegherebbe il perché di queste toilette-dispense esclusivamente dedicate a loro.
Non solo: le feci contengono sostanze che in alcune circostanze possono essere preziose, perciò si possono riciclare in molti modi, non solo mangiandosele. Per esempio, per alcune termiti rappresentano un ottimo materiale da costruzione: mischiate al terriccio, prevengono l’erosione del suolo e aiutano l’intera struttura del nido a restare stabile. E siccome hanno una certa attività antimicotica, spalmate sulle pareti possono essere addirittura protettive. Anche la blatta dal cappuccio (Crvptocercus punctulatus), che fa il nido nel legno marcio, per tenerlo pulito lo cosparge di feci ricche di sostanze ad azione fungistatica (lo descrive un articolo dal titolo eloquente: Nest sanitation through defecation, pubblicato nel 2013 su «Naturwissenschaften» da Kerry Mead della Northeastern University e colleghi). Mentre Spodoptera frugiperda, un coleottero del mais, deposita le proprie feci semiliquide sulle piante di grano di cui si nutre per indebolirle. Perché sentendosi attaccata dai batteri (delle feci, ma la pianta non lo sa) la pianta concentra i suoi sforzi immunitari contro di loro e si «distrae» dalla difesa dagli insetti, secondo una complicata via ormonale che attiva o inibisce alternativamente i due tipi di immunità.
C’è infine un impiego ancora più ingegnoso, tipico ancora di alcune specie di termiti e delle già citate formiche tagliafoglie. Questi insetti usano le proprie feci come fertilizzante, ma non in maniera grossolana come noi, che ci limitiamo a raccogliere il letame e a spargerlo sulla terra, e peraltro coltiviamo piante a uso alimentare appena da 10.000 o 12.000 anni. Loro lo fanno in simbiosi con il fungo che allevano e di cui si nutrono. Il fungo, infatti, produce enzimi litici, che sono ingeriti dalla formica e rilasciati con le feci. La formica, poi, con le feci produce una specie di polpa in cui incorpora resti vegetali, che sono digeriti parzialmente dagli enzimi litici, e la spalma sul fungo. In questo modo il fungo può assorbire i nutrienti, grazie a una «digestione esterna» resa possibile dal passaggio degli enzimi attraverso la formica e dal loro mescolamento con feci da impastare con le foglie.
Segnali sociali
Fertilizzanti, materiali da costruzione, disinfettanti: nel mondo animale le deiezioni non sono solo scarti. Talvolta anche il fatto che siano odorose può essere un vantaggio, perché possono diventare un veicolo di informazioni per gli individui del gruppo e non solo per i predatori. Succede soprattutto tra i mammiferi, che impiegano urine e feci per marcare il territorio o per comunicare agli altri il proprio status riproduttivo, di salute o di dominanza.
Il lemure dai piedi bianchi del Madagascar (Lepilemur leucopus), per esempio, fa dei luoghi di deposito dei propri scarti organici qualcosa di simile ai nostri social network, tanto che BBC Earth nel 2014, in occasione della pubblicazione su «Behavioral Ecology and Sociobiology» di una dettagliata ricerca sul tema firmata da Iris Dröscher e Peter Kappeler, entrambi del Deutsche Primatenzentrum di Gottinga, si è divertita a parlare di «Faecesbook». Il lemure, attraverso l’odore delle urine, comunica ai compagni la propria identità e il proprio stato di fertilità o di salute, aggiornando di volta in volta le sostanze odorose che emette. Lo fa in apposite toilette pubbliche che, per un animale non particolarmente socievole come lui, sono il luogo più efficace per tenersi in contatto con la famiglia dispersa sugli alberi della foresta. È interessante anche perché si tratta di uno dei pochi casi in cui un primate predilige i segnali chimici a quelli visivi che, essendo un animale notturno, sono meno efficienti.
Queste toilette «sociali» si trovano al centro del territorio proprietà di un gruppo di lemuri, ma lontano dai rami dove i singoli dormono o mangiano. Siccome ogni individuo lascia lì informazioni, ma le raccoglie anche, le toilette sono usate per depositare i propri scarti, e poi annusate e leccate. I maschi, approfittando della comodità, non mancano di lasciare lì anche le secrezioni delle proprie ghiandole odorose, richiamo sessuale per le femmine, e le secrezioni dal significato minaccioso per allontanare i rivali riproduttivi.
Una cosa simile ma dal significato opposto è il comportamento messo in atto dall’apalemure grigio meridionale, un altro lemure del Madagascar, che le toilette pubbliche non le mette al centro del proprio territorio ma alla periferia, per segnalare la proprietà e tenere lontani i gruppi rivali.
Infine, anche i mammiferi riciclano le proprie feci a uso alimentare. Lo fanno ursidi, marsupiali, primati e anche i cani domestici, che avrebbero alternative decisamente migliori ai nostri occhi, ma evidentemente non ai loro. Per esempio il coniglio produce due tipi di feci: quelle che possono (e devono) essere mangiate, perché contengono nutrienti che non sono stati digeriti del tutto con un primo passaggio attraverso l’intestino. E un secondo tipo, da cui non si cava più niente di buono, e che quindi sono abbandonate. Il primo tipo di feci si chiama ciecotrofo, è tipicamente più morbido e odoroso del secondo e inizia il suo secondo giro quasi senza toccare terra, perché un coniglio sano lo ingerisce fresco, afferrandolo direttamente dal proprio ano.
In altri animali si osserva un comportamento analogo soprattutto negli individui giovani, che ingerendo le proprie o (meglio) altrui feci costruiscono un solido ambiente batterico intestinale, capace per esempio di digerire le piante di cui si nutrono e di produrre le vitamine che servono al corretto mantenimento dei metabolismi. Gli elefanti, per esempio, lo fanno andando a prelevare le feci inserendo la proboscide nell’intestino di un compagno adulto. Mentre i piccoli di koala e di panda a questo scopo preferiscono ingerire le feci della madre. In fondo non è diverso da quanto è stato pensato da chi, da qualche anno, sta pensando di introdurre il trapianto di feci (o batterioterapia fecale) anche tra esseri umani, per curare gravissime infezioni batteriche attraverso il ripristino di un microbiota fecale sano.
Un’ultima ragione per mangiare le feci dei propri conspecifici è di nuovo una ragione di comunicazione, ma più sottile. L’eterocefalo glabro, o talpa glabra, è un mammifero ma vive in colonie simili a quelle degli insetti sociali, cioè dominate da una regina, con pochi maschi da riproduzione e molte femmine subordinate. Durante la gravidanza, la regina dà da mangiare le proprie feci alle subordinate. Secondo tre ricercatori giapponesi che in ottobre hanno riportato l’osservazione al meeting della Society for Neuroscience a Chicago, lo fa allo scopo di somministrare loro alte dosi di estrogeni e così spingerle a prendersi cura dei piccoli della colonia, che però sono tutti figli suoi. Le subordinate hanno organi sessuali immaturi e bassi livelli di estrogeni nel sangue, quindi non hanno nemmeno l’innesco dei comportamenti istintivi di accudimento dei cuccioli. Questo sistema le rende governabili da parte della regina, e quindi buone babysitter a comando.
Fiori dal letame
Infine ci sono gli animali che beneficiano dei rifiuti degli altri. Tra questi una menzione d’onore la meritiamo proprio noi. Usiamo le feci come concimanti, soprattutto quelle degli animali che alleviamo, sfruttando il loro contenuto in azoto e fosforo e la loro abbondante materia organica per arricchire il suolo. Per esempio abbiamo importato enormi quantità di guano in Europa dal Sud America per la nostra agricoltura, prima dello sviluppo di un metodo industriale di produzione dell’ammoniaca. Continuiamo a usare letame e liquami per coltivare campi e orti. Ma usiamo feci anche come combustibile per stufe e camini e recentemente per produrre biogas. Ci sono poi impieghi meno diffusi ma più creativi, tipo la produzione di carta per riviste e giornali come questo.
Altri animali che ci portiamo dietro, o che vivono con noi nelle nostre città, si cibano dei nostri rifiuti, senza che lo desideriamo né spesso ce ne rendiamo conto. Sono ratti, topi, insetti, gabbiani, uccelli vari. E passerotti di città. Lo ha mostrato Montserrat Suárez-Rodriguez, dell’Universidad Nacional Autónoma de México, che ha pubblicato nel 2012 su «Biology Letters» una ricerca sugli uccelli che fanno il nido nel campus dell’università e nelle zone verdi intorno. I passerotti avrebbero cominciato a usare i mozziconi di sigarette per costruirci il nido, mostrando una variante «urbana» di un antico adattamento: quello per cui gli uccelli prediligono materiali da costruzione che contengono composti in grado di tenere lontani i parassiti. Le analisi hanno mostrato che maggiore è nel nido la quantità di acetato di cellulosa (contenuto nei mozziconi di sigaretta) minore è la quantità di ospiti indesiderati. Ma devono essere mozziconi di sigarette filmate davvero, impregnate di nicotina, repellente per i parassiti e (forse, ma qui il giudizio è sospeso) non per i passerotti e i loro piccoli.
Alla fine, vista in un’ottica un po’ meno antropocentrica, dobbiamo riconoscere che aveva ragione il poeta: dal letame nascono i fiori, non i problemi. Perché ogni specie ha a che fare con i propri rifiuti. Disfarsene in fretta è solo una delle possibili strategie. Ma se ognuna dipende da un accurato bilancio tra costi e benefici, la selezione naturale ha talvolta premiato i comportamenti di riciclo, che spesso sono quelli con i maggiori benefici al minor costo. Li ha premiati sia che i rifiuti siano i propri sia che siano di altri.
Ad allargare ancora di più lo sguardo, nessuna sorpresa: abitiamo tutti lo stesso pianeta, su cui circolano più o meno sempre le stesse cose. In quanto animali, la cosa è evidente. Perché se siamo vivi è grazie allo scarto del metabolismo delle piante, che noi «ricicliamo» respirandolo a pieni polmoni: loro lo chiamano rifiuto, noi lo chiamiamo ossigeno.