Notizie tratte da: Gianni Clerici, Quello del tennis, Mondadori, 2015, 200 pagine, 20 euro., 19 gennaio 2016
Notizie tratte da: Gianni Clerici, Quello del tennis, Mondadori, 2015, 200 pagine, 20 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2343531Vedi Biblioteca in scheda: 2343183Lo zio Pier che, lavorando in Etiopia, scambiava con un capo tribù le più svariate merci in cambio di giovani vergini, garantite tali da una cucitura sulle grandi labbra che lui era diventato maestro a liberare
Notizie tratte da: Gianni Clerici, Quello del tennis, Mondadori, 2015, 200 pagine, 20 euro.
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Lo zio Pier che, lavorando in Etiopia, scambiava con un capo tribù le più svariate merci in cambio di giovani vergini, garantite tali da una cucitura sulle grandi labbra che lui era diventato maestro a liberare.
Dello zio Franco si narrava che fosse caduto da una magnolia della casa di campagna, senza più riprendersi del tutto.
«La brigata che ha arrestato Mussolini era la “Cinquantaduesima, Luigi Clerici”, un mio parente. Anche mio padre partecipava. Ricordo che gli portavo i mitra sovietici nascosti nella borsa da tennis. Un giorno stavo per essere scoperto. Avevo 14 anni e oggi non sarei qui a raccontarmi».
Le prime lezioni di tennis, nel 1936, con il maestro anglo-americano Sweet, che lo chiamava «piccola scimmia».
La prima collaborazione con La Gazzetta dello Sport, a 19 anni.
«La lezione più importante: la rivelazione che la partita non si svolge contro un antagonista, perché tutto accade dentro di noi, e noi stessi siamo il nostro avversario più temibile, spesso addirittura un nemico mascherato».
Il tennis, considerato negli anni Trenta ancora un gioco da signorine, il sissy game anglosassone.
Nel 1953 la prima partecipazione a Wimbledon. Viaggio in macchina da solo, da Como a Londra al volante di una Fiat Cinquecento modello Giardinetta. Ventidue ore di guida ininterrotta. Perse al primo incontro con lo iugoslavo Laszlo.
La carriera sportiva finì a causa di un’infezione itterica che lo trascinò più volte in ospedale «e che spinse un celebre specialista a una diagnosi terrificante: si era imbattuto in un solo caso identico al mio, nato da un misterioso microbo orientale. E il paziente non si era salvato. Una seconda diagnosi, di uno specialista altrettanto celebre, mi permise di trascorrere giorni meno grami».
«Tecnicamente sono stato un buonissimo giocatore, ma non avevo l’animo, diciamo la forza, la convinzione. Ero inadatto alla vittoria, perché la vittoria implica un atteggiamento bellico. Lo sport è, parafrasando Clausewitz, la continuazione della guerra con altri mezzi».
La collaborazione al Mondo, chiamato da Mario Pannunzio che, tra l’altro, era stato un discreto tennista.
«Qualcuno in redazione al Mondo si sorprese quando Pannunzio volle mostrarmi uno straordinario ed enorme quadro di due giovani tennisti, uomo e donna, una tela che attribuii subito a Carrà o Tosi, sapendo che entrambi avevano dipinto soggetti simili. “L’ho fatto io”, sorrise Pannunzio».
«Noi giornalisti sportivi siamo considerati dei paria, gente con degli handicap. Ricordo che al mio primo libro, Bassani e Soldati lo presentarono allo Strega. E quando mi ritrovai nel salotto del Premio, la signora Bellonci che lo aveva fondato, mi sogguardò con curiosità. Ero vestito bene, avevo un’aria gradevole e la Bellonci mi disse: “Ma lei è quello del tennis? Lo sa che usa proprio bene i congiuntivi e i condizionali?”».
«Arbasino era capace di costringermi a guidare la mia Millecento a tutta velocità per un appuntamento importantissimo e indilazionabile, “in direzione ovest”. Una volta arrivati, mi trascinava estasiandosi, per esempio, al Sacro Monte di Varallo. Soltanto uno zotico provinciale come me poteva capitarci per la prima volta. “E tu quando ci sei stato” mi incuriosivo. “Mai, ma lo conoscevo già benissimo”».
«Una volta con Giancarlo Fusco raggiungemmo Sanremo, per la corsa ciclistica. Al termine della volata lo vidi buttarsi dall’auto ancora prima che fosse ferma. Lo rincorsi, credendo volesse intervistare il vincitore, ma il suo scopo era un altro. “Devo tornare subito a Milano. Vado alla stazione”. “Ma non puoi, devi scrivere”. “Scrivi tu. Ho lasciato il gatto a digiuno, non posso fargli un affronto simile”. Partì. Scrissi io il pezzo, e nessuno se ne accorse».
«Credo di essere stato, e di essere tuttora, una sorta di recordman delle dimissioni, e non sempre di quelle scritte, per le quali necessita, bene o male, una preventiva iscrizione a un club, un’organizzazione, una setta».
«Non sono adatto, probabilmente, a identificarmi con un tipo di homo sapiens, sia esso l’homo rotariensis o un membro del Gruppo 63, gli Azzurri d’Italia o il Club dei proprietari dei leonberger. Per non menzionare, Dio guardi, i partiti politici, e l’unica occasione avuta di rappresentarne uno a Montecitorio, offertami da un tipo insolito quale Marco Pannella».
La coppia con Rino Tommasi. «Tommasi è quanto di più diverso da me si possa immaginare. Gli interessa addirittura morbosamente la televisione, mentre io non ho mai voluto possedere un apparecchio. Nonostante sia l’uomo più pacifico del mondo, si crede di estrema destra mentre io non sono mai riuscito a trovare una collocazione politica, se non democratica. Vive benissimo ignorando le grandi mostre di pittura e il teatro, che a me sono indispensabili. Infine, e non so se possa qui permettermi di dirlo, è al contrario di me un autentico macho».
L’incontro con Hemingway, «in una nottata a fitta densità etilica nel suo caffè preferito, il Txoko, a Pamplona. La sua presenza valse a consolidare la mia passione per il toreo e a offrirmi una grande lezione. Distinguere la paura, sana e virile, dal terrore».
«Tutti dobbiamo portare una croce. Io ne ho tre. Una, grandissima, Mattei. E due piccoline, ma insopportabili. Fusco e Clerici» (il direttore del Giorno Italo Pietra confidandosi con Mario Soldati).
Il primo libro di Clerici, mai pubblicato, risale agli anni Cinquanta e si intitola Gli dèi di flanella, perché a quei tempi i tennisti andavano vistiti di flanelle bianche e spesso portavano i calzoni lunghi.
«Fra le mie colpe meno veniali è quella di aver istigato uno scrittore di sicuro talento al giornalismo. Si sa che gli ingenui considerano il giornalismo una disinvolta scorciatoia alla letteratura. In realtà, è per molti un’assillante parodia. Chi vi si abbandona si trova, a lungo andare, con troppe corde stonate sul suo strumento. E non è facile accordare e scordare nell’istante stesso in cui da una musica si passa a un’altra» (Gianni Brera nella prefazione al libro di Clerici Vero Tennis, 1965).
Nella villa al lago della famiglia Clerici, Villa Pia, «le porcellane dei bagni venivano dalla premiata fabbrica Richard-Ginori di Laveno, quanto di meglio esistesse in quei tempi: i bidè, evidentemente aggiunti molti anni dopo, recavano un’altra marca».
«Come puoi scrivere che il numero 8 ha giocato una grande partita, mentre il 10 è andato maluccio. Sono tutti e due scuri di capelli, hanno la stessa corporatura, giocano vicini perché sono mezzali, anche se tu li chiami con quell’orribile definizione, “centrocampisti”… Ah, è addirittura un tuo neologismo! Dovresti vergognarti» (Mario Soldati commentando un articolo di Gianni Brera).
«Hai un grande istinto. Ma non sai mai quando sbagli, e perché sbagli. Lo vedi che nel dettare i tuoi pezzi al telefono spesso ti correggi. A volte provi d’un tratto l’impressione di sordità, che non avevi avvertito scrivendo, o rileggendoti a bassa voce? Ti manca il ritmo» (Mario Soldati a un giovane Gianni Clerici).
«Vede il calcio attraverso un cul di bicchiere» (Helenio Herrera a proposito di Gianni Brera).
La volta che il direttore di una rivista si ribellò alle richieste economiche di Brera, affermando: «Nemmeno Moravia mi chiede tanto!», lui rispose: «Ma perché allora non lo fai scrivere a lui, l’articolo?».
Quando Brera e Clerici invitarono Walter Chiari a una lettura della loro commedia L’amore è N.A.T.O., nella segreteria del Tennis Club Olona. Brera prese a leggere il testo e Chiari apparve divertito e incoraggiante, sinché, d’un tratto, si addormentò.
Quando Clerici passò dal Giorno a Repubblica, «allora sopravvenne Scalfari, il quale, accogliendomi, ebbe a profetare: “Lei diventerà il nuovo Brera”. Nell’indicargli, in piazza Cavour, l’edificio del Giorno, risposi che Brera era ben vivo e che desideravo accettare l’invito alla Repubblica senza un simile equivoco. Tacque, e mi pentii per il mio maledetto understatement».
Quando Clerici decise di dedicare un anno intero a scrivere la biografia di Suzanne Lenglen, l’unica tennista nella storia a non aver mai perso un solo match, se non per ritiro. Quando lo finì non trovò un editore che lo volesse pubblicare, se non un francese che fallì subito dopo. Fu ristampato anni dopo da Corbaccio e più recentemente da Fandango.
Il suo 500 anni di tennis è diventato un best seller, giunto all’ottava edizione, tradotto in sei lingue e presto anche in cinese. «Scrivo mediocremente in inglese, ma, leggendo la traduzione di tale Richard J. Wiezell, fui preso da un furore omicida, e domandai a Giorgio Mondadori di fare causa all’editore anglo-americano. “L’iter giuridico, avvocato Clerici, sarebbe quello di fare causa a me, che, a mia volta, dovrei fare causa a quello inglese. Andiamo a cena?”. Assentii, mentre una benemerita redattrice affrontava il compito di correggere duemilacinquecento errori di un mascalzone che ancora disprezzo. Un tipo che ricercai invano, armato di racchetta, in una sosta a Chicago».
All’epoca delle Brigate rosse Clerici chiese il porto d’armi e comprò una pistola Beretta, «alla quale non avevo mai più pensato, dai giorni in cui, ragazzino, giocavo alla guerra partigiana. Così armato, ritenevo di essere più adatto nell’accompagnare in auto, dalla redazione del Giorno, i colleghi Giorgio Bocca e Marco Nozza, che le Brigate rosse avevano schedato quale il terzo e il quarto tra i funesti bersagli, dopo l’uccisione di Carlo Casalegno, della Stampa, e la gambizzazione di Indro Montanelli».
Nel 1960, dopo aver vinto due Roland Garros di seguito, a Parigi Nicola Pietrangeli perse contro Manuel Santana. Prima della partita, chiese e ottenne due giorni di libertà per tornare a casa, a Roma: «Susy, mia moglie, era incinta del nostro primo figlio. E allora io vado da giudice e gli dico: “Parto!”. La domenica sono partito, mio figlio è nato, e ancora oggi non so perché l’ho fatto ma sono rimasto a Roma tre giorni. Ritorno il giovedì e scopro che mi hanno aspettato: in quel momento ero il più forte».
Clerici, l’unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli ammesso alla Hall of Fame del tennis, nel museo di Newport.
Il trattato del giuoco della palla di Antonio Scaino da Salò, stampato a Venezia nel 1555 da Gabriel Giolito de’ Ferrari. Il primo saggio sul tennis.
Clerici, che si vanta di avere la più importante collezione europea di libri sul tennis, seconda solo alla Fisher Library di New York e a quella del Wimbledon Museum.
«Fallito come tennista ho tentato di diventare scrittore, ma non sono riuscito a togliermi da quelle gravitazioni tipiche di chi lascia una strada per un’altra».