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 2016  gennaio 19 Martedì calendario

ANGELO CUSTODE


[Angelo Peruzzi]

Le mani, grandi, sono la prima cosa a colpirti in Angelo Peruzzi. Mani grandi e forti, te ne accorgi quando la tua viene avvolta nel classico gesto di saluto. Non è altissimo, ma è veramente grosso. Sennò perché lo hanno chiamato Tyson? «Ma non ho mai dato un cazzotto a nessuno» dice con mezzo sorriso. Ha da poco superato la soglia dei 45 anni, non un capello bianco e poca voglia di tornare nel mondo del calcio dopo l’esperienza da secondo al seguito di Ciro Ferrara tra Under 21 e Sampdoria. «Non mi sbattezzo se non arriva nulla. Aspetto e vedo. Rientrare per rientrare non mi interessa. Non sono attaccato al cellulare, anzi, a volte me lo dimentico pure per qualche giorno a casa». È fatto così, Tyson Peruzzi, da sempre. Un antipersonaggio. O forse una persona normale che ha avuto la fortuna e la capacità di vivere di pallone per molti anni. Dal 1987, anno del debutto in A, al 2007, quando decise di chiudere l’esperienza tra i pali. Una carriera che lo ha visto a difesa delle porte di Roma, Verona, Juventus, Inter e Lazio. Molti i trofei, una trentina di maglie azzurre e il titolo di Campione del Mondo nel 2006 come principe consorte di Gigi Buffon. Siamo seduti alla tavola della trattoria “Da Ezio” nel cuore di Macerata, sede della quinta edizione dell’Overtime Festival. Peruzzi è uno degli ospiti d’onore. Cibo genuino e buon vino.
La prima domanda è di stretta attualità. Il Milan lancia Donnarumma, non ancora diciassettenne: Mihajlovic è impazzito?
«Credo proprio di no. Se lo ha messo dentro è perché il ragazzo ha già tutto per stare ai massimi livelli. Io ne so qualcosa (ride)».
Anche tu hai esordito giovanissimo.
«Era il 13 dicembre 1987 e io non avevo ancora la patente. Si giocava Milan-Roma, a San Siro. Un petardo stordì Franco Tancredi. Entrai io. Pruzzo, che era seduto accanto a me in panchina, mi disse: “Tranquillo, tanto ci danno la vittoria a tavolino”».
E tu eri tranquillo?
«Esordire a San Siro è il sogno di tanti ragazzi. Ma in quel modo fu veramente irreale. Ricordo che in campo arrivava di tutto. Su un corner chiesi a Desideri di mettersi sul palo. “Non ci penso nemmeno!” mi disse».
Hai avuto timore per la tua incolumità?
«In verità no. Sarà stata l’adrenalina, saranno stati i 17 anni, ma paura non ne ho mai avuta. E questa è una cosa stranissima, se penso che da piccolo io allo stadio non ci andavo proprio perché ero terrorizzato dal fatto che mi potesse succedere qualcosa. Anche quando la domenica dovevo fare il raccattapalle per i match della Roma, non è che la cosa mi facesse impazzire».
Non avevi una squadra del cuore da bambino?
«No. Vengo da un paesino del viterbese. In casa non si parlava di pallone. Ancora oggi non so se mio padre ha capito il fuorigioco. Non ho mai fatto l’album. Il primo lo feci a Verona perché ce lo regalarono».
E allora come sei diventato portiere?
«Perché mi piaceva tuffarmi, mi divertivo. Così è stato naturale giocare in porta, scegliendo l’unico ruolo “singolare” che c’è in una squadra di calcio, quello in cui si usano le mani al posto dei piedi».
A proposito della mani, ma è vera la storia dei pesci pescati a mani nude?
«È una tradizione del mio paese: Blera. Lo fanno tutti. E poi i pesci che nuotano nei fiumi sono più lenti rispetto a quelli marini. Da qui alla leggenda il passo è stato breve, come succede spesso nel calcio».
Alla Roma come ci sei finito?
«Per caso».
Cioè?
«C’era il provino per i nati nel 1969. E io seguii i miei amici più grandi. Quando iniziò la partitella, non giocai. Vicino al campo c’era una porta, mi misi lì e iniziai a parare i tiri che mi facevano altri ragazzi. Mi vide Scaratti, ex difensore giallorosso, all’epoca allenatore delle giovanili. E mi prese al volo».
Immagino tu fossi contento.
«Come no? Da lì ho iniziato veramente a sognare».
E cosa sognavi?
«Di fare per 40 anni il secondo portiere alla Roma».
Ma dici sul serio?
«Non sto scherzando. Appena entrato nel vivaio giallorosso, mi sono affezionato alla Roma. Stavo vicino casa, mi divertivo. L’ideale sarebbe stato quello di legarmi per sempre alla mia società e di non avere troppe tensioni».
Poi hai cambiato idea.
«Chiaro: ho iniziato ad allenarmi sul serio e a prepararmi per giocare, mica per stare seduto. A 14 anni ho fatto un’intera stagione solo col preparatore dei portieri, il grande Roberto Negrisolo, a cui devo moltissimo. Due allenamenti a settimana, il martedì e il giovedì».
Cosa hai imparato in quelle sedute?
«Il posizionamento, intanto. Poi la spinta con i piedi, altro aspetto tecnico fondamentale. Quindi si impara a camminare sulla linea. I passetti laterali, gesto essenziale prima di ogni tuffo. Oggi vedo molti errori, troppi voli spettacolari, utili solo per le telecamere».
Poi cosa altro hai migliorato?
«Come si mettono le mani per bloccare il pallone in presa. Quindi le uscite. Quelle a terra non le sapevo fare, ci andavo dritto con i piedi. Ho acquisito la tecnica giusta con Negrisolo. E così ho iniziato a vedermi veramente portiere e a ragionare da portiere».
A tal punto che a 16 anni sei già nel giro della Prima Squadra.
«Le qualità c’erano. Anche il carattere, se vogliamo. Ho sempre puntato a sdrammatizzare le cose. Il mio essere un po’ distaccato talvolta mi è servito».
E così Liedholm, all’epoca allenatore della Roma, non perde occasioni per parlare bene di te.
«Il Barone mi voleva bene. È un’altra di quelle persone cui devo tanto. Diceva che non aveva mai visto un giovane portiere così potente ed esplosivo. Negrisolo confermava. E dalla Beretti balzai subito in Prima Squadra senza passare dalla Primavera».
L’anno dopo, 1987, la prima svolta: Peruzzi è il vice di Tancredi.
«In società fecero un ragionamento prospettico. Lasciarono andare via Attilio Gregori, poco più grande di me e visto come il portiere del futuro».
Mi sembra più di un’investitura.
«A 17 anni avevo davanti un mostro sacro come Tancredi. Non c’era alcuna fretta. Mi allenavo, tanto. Poche parole e molti fatti. E poi, al di là del rocambolesco esordio, nella prima stagione non ho più giocato».
Ma l’anno dopo sì.
«Vollero provarmi. Feci una dozzina di partite di esperienza campionato. Non me la cavai male».
E Tancredi?
«Tra noi i rapporti erano corretti. Chiaro che lui non ci stava a vedersi superare dal ragazzino e non stava zitto. Ma sono cose normali, lo stesso mi capitò a Torino con Tacconi. Niente di personale, ma ti arrivano attacchi su tutto il fronte. E devi saper parare anche quelli».
Forse in quel momento era giusto cambiare aria.
«Questo non lo so. Di fatto, Tancredi non mollava e la società aveva preso Cervone, un portiere esperto sul quale evidentemente puntavano. A me proposero di andare in prestito a Verona, dove avrei potuto fare una stagione da protagonista».
Sensazioni?
«Positive. La squadra fu totalmente cambiata rispetto all’anno prima e il rischio retrocessione era molto concreto. Ma ero in Serie A, con compagni di grande esperienza: Fanna, Magrin, Favero. L’altro portiere era Luciano Bodini, un uomo con un cuore grande così. Mi ha fatto da chioccia, spesso ero a dormire a casa sua. E poi su tutti spiccava lui: Osvaldo Bagnoli».
Che ricordi conservi di lui?
«Mi colpì la sua semplicità. Uno dei primi giorni di ritiro, era alla lavagna e disse: “Vi spiego lo schema più bello. Il portiere dà la palla al difensore appena fuori aera. Lancio di 80 metri per il centravanti che controlla, tira e fa gol”».
Anche troppo semplice.
«Ma è la verità. A chi non piacerebbe andare a rete così? Bagnoli è stato un grande allenatore e una grandissima persona. Il fatto che fossimo tutti nuovi gli dava ancora più premure nel farsi sentire il buon padre di famiglia. E poi tatticamente ci sapeva fare».
Che bilancio fai della tua annata a Verona?
«È stata una stagione fondamentale per la mia crescita. Anche se siamo finiti in B, a Verona ho fatto il salto di qualità. Nonostante un gol clamoroso che presi da lontanissimo contro il Lecce».
Papera?
«Stavo guardando il tabellone luminoso per capire cosa facevano le altre squadre e per vedere quanto mancava alla fine. Ero un po’ fuori dai pali. Non mi accorsi che Benedetti stava caricando il destro. Mi tuffai lo stesso, ma il pallone entrò».
Dopo Verona, torni a Roma.
«Tancredi non c’è più, è rimasto Cervone e trovo Beppe Zinetti, ormai a fine carriera. Il tecnico e Ottavio Bianchi. Cervone è infortunato, anch’io non sto bene e salto le prime gare. Poi il mister sceglie me. Fino alla squalifica per doping dell’ottobre 1990, insieme ad Andrea Carnevale».
Hai voglia di parlarne?
«Ho sbagliato. Ho peccato di ingenuità sicuramente, ma con questo non mi sottraggo alle responsabilità. L’ho sempre detto e lo confermo: ho commesso un errore. Per il quale è giusto che abbia pagato».
Giusto un anno di stop? O forse un po’ troppo?
«Un anno mi hanno dato e un anno ho preso. La Roma fece ricorso, io no».
Come hai reagito a quella mazzata?
«I primi due mesi sono stati da incubo. Poi sono tornato ad allenarmi. Ma da solo. Qualche dirigente della Roma a quel punto non mi vedeva più bene».
Chi ti è stato vicino?
«Dino Viola, il presidente. Lui non mi ha mai abbandonato. Una persona che porto nel cuore. E poi la mia famiglia. Di mio ci ho messo l’orgoglio e la voglia di dimostrare che quello era stato solo un errore».
Cosa ti ha fatto male?
«L’etichetta di “dopato”. Fa male entrare in uno stadio e sentire cori rivolti a te con la parola “drogato”. Una volta ci fu anche una cosa buffa che la dice lunga sui miei rapporti con il mondo della droga (sorride)».
Raccontacela.
«Eravamo a San Siro, io ero quasi fuori dal tunnel che porta al campo. Dagli spalti ecco il coro “Esci dal tunnel, Peruzzi esci dal tunnel”. E io, rivolto ai miei compagni: “Ma che c...o vogliono questi? Sono già in campo”. Lascio immaginare le facce che fecero e i bonari “vaffa” che mi presi».
Ti ha cambiato la vicenda della squalifica?
«Un po’ sì. Sono diventato più prudente. Non ho mai avuto una grande simpatia per i giornalisti, talvolta la ricerca del titolo o della frase a effetto deforma la realtà. Allora, quando ero proprio costretto a fare un’intervista, mi dicevo: “Sii il più stupido possibile: frasi banali, piatte”. Ma era per evitare che nascessero dei casini. E poi c’è un’altra cosa».
Prego.
«È una domanda di fondo che mi sono sempre fatto: ma a chi interessa veramente quello che pensa Peruzzi? Magari sbaglio, ma io ho sempre ritenuto che il calciatore non sia una star. Deve fare il suo mestiere e basta. Che è quello del calciatore».
Come è nato il tuo passaggio alla Juve?
«Un giorno mi telefonò Montezemolo. Successe pochi mesi dopo la squalifica. Mi disse che mi avrebbe voluto alla Juve. Fu uno di quei momenti in cui senti che la vita ti sta restituendo quello che ti ha tolto. Soprattutto dal lato umano, perché voleva dire che il giudizio sulla persona era positivo. E poi sotto l’aspetto sportivo, perché andare alla Juventus è il massimo per ogni calciatore».
Non avevi fatto i conti però con il destino. La Juve va male, Montezemolo lascia, torna Boniperti.
«Me la sono fatta sotto. Ho detto: caro mio, sto treno non lo prendi più. E invece mi chiamò direttamente Boniperti e mi disse di andare prima possibile in sede. Pericolo scampato, ma che momenti...».
Come è stato il primo incontro con Boniperti?
«Tutto il contrario di quello che io e Beppe Bonetto, il mio agente, avevamo pensato la sera prima. Chiediamo questi soldi, accordiamoci sulla durata in questo modo. Non servì a nulla. Fece tutto il presidente. Mi salutò e mi chiese se fossi sposato. “Ho 21 anni presidente. Non ancora”. E lui: “Allora cerca di sposarti presto”. Poi mi mise sotto il naso il contratto: “Firma qui, vedrai che ti troverai bene”. Accordo per 4 anni».
La cifra?
«La mise lui, aveva già preparato tutto. Ma a me in quel momento importava essere un giocatore della Juve, anche se ero ancora squalificato e avrei potuto giocare soltanto le amichevoli».
Proprio durante un’amichevole estiva, il tuo stile colpisce l’Avvocato Agnelli.
«Diceva che gli ricordavo Sentimenti IV. Dell’Avvocato ricordo la figuretta che feci quando una mattina molto presto squillò il telefono per due o tre volte. Credevo a uno scherzo, e invece dall’altra parte c’era proprio lui. Mi ha richiamato altre volte, erano chiacchierate piacevoli. Solo che lui al momento dei saluti diceva sempre “addio” e non ciao o altro».
Al di là dei paragoni con i miti della Juve che fu, le gerarchie erano chiare, però.
«Stefano Tacconi numero uno, io dietro. E nel mezzo, anche Fabio Marchioro. Mi immaginavo che avrei fatto qualche partita. Non era ancora una prassi assodata, ma si iniziava già a far giocare un portiere in campionato e l’altro nelle coppe. Per la Juve c’era solo la Coppa Italia».
E tu proprio lì fai le prove generali.
«Accadde contro l’Inter, andata dei quarti di finale di Coppa Italia, 12 febbraio 1992, la mia prima partita da numero uno della Juventus. Che avrei giocato me lo disse Trapattoni la sera prima, nel classico giro delle camere. Andai bene, passammo il turno e fui confermato anche nelle semifinali col Milan, dove parai un rigore a Baresi».
Le telecamere indugiarono sul tuo primo piano prima del tiro: eri la tranquillità fatta persona.
«Era tutta una finta! Mascheravo così la tensione. Non sono uno freddo. Ho sempre sofferto i primi minuti delle partite, specie quelli in cui non ti arriva nemmeno un tiro. È una tortura, perché non sai come sarà il tuo approccio alla gara».
Dopo la Coppa Italia, ecco il debutto in campionato.
«18 aprile 1992, prima in Serie A con la Juve, addirittura all’Olimpico contro la Roma, una coincidenza curiosa. Ma la cosa più importante fu la dichiarazione pubblica di Trapattoni, che annunciò la mia promozione come titolare».
“Mi spiace per Tacconi, ma da oggi il numero uno della Juve sarà Peruzzi”.
«Esattamente. Il Trap parlò così. Ero felicissimo, la realtà stava superando la fantasia. In nemmeno un anno era riuscito a ereditare la maglia di Zoff e Tacconi».
Già, e Tacconi?
«Tra di noi il rapporto era buono. Il Trap mi aveva messo in camera con lui. Ma chiaramente aveva voglia di giocare. Non avrebbe fatto la riserva nemmeno a Zoff, figuriamoci a me. Sparate sui giornali e cose di questo tipo. Ma la Juve aveva scelto e lui preferì trasferirsi al Genoa».
E a Torino arriva Rampulla.
«Michele è stato, ed è ancora, un amico vero. Il nostro rapporto è stato intenso, ricco, bello. Non c’è mai stata rivalità. Anzi, facevamo il tifo uno per l’altro».
Va detto che con te Rampulla ha giocato spesso.
«(ride) Capisco cosa vuoi dire, ma il nostro volerci bene andava oltre le partite giocate o viste dalla panchina. Di vero c’è che ogni tanto avevo bisogno di qualche tagliando. Nonostante l’apparenza e i soprannomi, i miei muscoli erano piuttosto delicati. E in tutte le occasioni necessarie, Michele non ha mai tradito».
Specie nella cavalcata vincente verso la Coppa Uefa del 1993.
«Il mio primo vero successo da professionista, se si esclude la Coppa Italia con la Roma durante la squalifica. Nella doppia finale contro il Borussia Dortmund venne fuori tutta la potenza e la classe di quella squadra. Eravamo veramente forti con Roby Baggio, Möller e Vialli che rappresentavano la fantasia e gente tosta come Kohler, Marocchi, Conte e Dino Baggio».
Hai citato dei big assoluti. Due parole in più su Roberto Baggio?
«Uno dei più forti in assoluto, ma non solo di gambe. Aveva la testa che funzionava a meraviglia. Ci univa anche la passione per la caccia. E proprio durante una battuta, facemmo una scommessa. “Quest’anno non arrivi a 20 gol in campionato”. “Io dico di sì”, rispose lui. E così fu, ne fece ventuno. Una forza della volontà incredibile.
Dopo la Coppa Uefa, il 1993-94 fu deludente.
«E ci fu il famoso ribaltone societario con la triade a dirigere e Marcello Lippi al posto di Trapattoni. Non lo conoscevo, ma mi colpì subito. Aveva idee chiare e una sana fame di vittorie, come noi del resto».
Quali sono le doti migliori di Lippi?
«Tante, ma a me è sempre piaciuto il suo essere franco e diretto. Mi chiamava nel suo spogliatoio e ci confrontavamo. Mi diceva: “Angelo, hai sbagliato questo”. Io rispondevo, magari anche sapendo di non avere ragione. Era un modo per stimolarmi. Era bravo a modulare i suoi interventi a seconda delle persone».
Anche con Bobo Vieri?
«Si presero di brutto nello spogliatoio dopo una partita. Rimanemmo tutti a bocca aperta. Io presi Bobo da parte e gli dissi che doveva scusarsi con il mister. Lui tenne duro per un po’, poi seguì il mio consiglio. Da quel momento non è più uscito di squadra».
Tu ha mai litigato duramente con qualcuno?
«Per due volte pesantemente con Moggi. La prima in occasione di una trasferta in Turchia ed era da poco scoppiato il caso Ocalan. Non ero tranquillo, allora chiesi ala società di darmi delle garanzie, altrimenti non sarei andato. Mi seguirono diversi compagni. Allora Moggi mi prese da parte e mi fece un gran cazziatone. E gli risposi per le rime. Dall’aeroporto all’albergo c’eravamo solo noi».
La seconda volta?
«In occasione di un servizio fotografico che avremmo dovuto fare una mattina. Gli dissi. “Non sono mica un fotomodello”. Lì esagerai. La mattata più clamorosa la feci, però, anni dopo con Delio Rossi alla Lazio».
I dettagli.
«Precampionato, io inizio il ritiro più tardi. La Lazio aveva preso Matteo Sereni, un ragazzo che mi è sempre piaciuto, molto simile a me, anche nel fisico. Il mister non aveva ancora deciso chi fosse il titolare. Allora andai da lui e gli dissi. “A me non importa se gioco o non gioco, ma decidi”. Lui non mi rispose. Lasciai il ritiro di Fiuggi e tornai a casa. Lotito mi chiamò infuriato, intimandomi di non fare lo scemo. Tornai e la prima di campionato la giocai io. Risultato: Sereni se la prese con me a morte. Ma io volevo solo che l’allenatore facesse chiarezza».
Torniamo al primo Lippi: sul piano tecnico-tattico, che novità portò?
«Aveva iniziato con un modulo, poi vista anche la potenza della squadra, fu intelligente a non frenarla. Da lì, l’idea del tridente offensivo e delle partite giocate aggredendo l’avversario. Lippi è stato l’artefice massimo della rinascita della Juve. Lo dimostra anche il fatto che ogni anno partiva qualche big, ma la squadra rimaneva ai massimi livelli».
Con Lippi arrivò anche il nuovo preparatore atletico Ventrone.
«Gli addominali mi fanno ancora male. Ma la forza di quella Juve era anche quella. Forse non eravamo i più forti in assoluto, ma non mollavamo. Eravamo una squadra rognosa, dove tutti lottavano fino alla fine. Il gruppo fu il segreto, con Vialli leader carismatico».
Che faceva in particolare?
«Organizzava cene, momenti di incontro. Ricordo un lunedì di Pasqua al Comunale: mega grigliata con bistecche e salsicce con le famiglie. Una giornata meravigliosa. E ogni tanto se ne usciva fuori con qualche goliardata che ci faceva morire dal ridere».
Esempi?
«Una volta, tutti in posa per la classica foto di gruppo, lui si gira, si butta giù i pantaloncini e fa vedere il sedere al fotografo. Un’altra volta eravamo in campo pronti per l’allenamento e lui non arrivava. Alla fine spuntò vestito da arbitro, con la divisa di una volta tutta nera e, fischietto in bocca, cominciò a fare il cretino».
Mi risulta che anche tu facessi qualche scherzo ogni tanto.
«Quello più riuscito aveva come vittima Montero. Lo chiamavo a me, gli facevo intendere che gli avrei passato il pallone e invece poi lo davo a Ferrara. Mamma mia, come si incazzava! E io gli dicevo: “Paolo, ridi, stiamo a gioca’”».
È un bel segnale, se in campo si sdrammatizza.
«È un segnale di forza. Guarda il Barcellona. Se sbagliano un’azione, sorridono, ma mica perché sono pazzi. Sanno che avranno un’altra occasione per farla meglio. E dunque, sanno di essere forti».
La prima Juve di Lippi vince subito lo scudetto. Ve lo aspettavate?
«No. La consapevolezza è nata strada facendo. Una vittoria fondamentale che aprì un nuovo ciclo di successi: la Champions e poi l’Intercontinentale».
22 maggio 1996, ecco la Coppa dei Campioni nel “tuo” Olimpico di Roma.
«Una gioia immensa, anche se alla fine del primo tempo mi giravano parecchio. Il gol dell’1-1 delI’Ajax mi pesava. Litmanen approfittò di una mia corta respinta. Ma alla fine quell’errore mi servì moltissimo al momento dei rigori. Mi dissi: “La cazzata l’hai già fatta. Ora hai solo da guadagnare”. Andò bene, parai due rigori e vincemmo. Tutto bellissimo, a parte quella maglia gialla con le stelle blu che usai quella sera».
Non ti piaceva?
«Per niente. Io sono stato un tradizionalista: grigio o nero, come Zoff. Anche se da piccolo sono cresciuto proprio dentro una maglietta gialla».
Cioè?
«Feci un torneo con Milan e Cesena. Mi dettero una maglia gialla, non so se del Milan o del Cesena. Sta di fatto che alla fine “rimase” nella mia borsa. Ci avrò fatto più di cento partite. L’ho tolta quando ormai non ci stavo più dentro».
In maglia nera con bordi grigi, a Tokyo, conquisti la Coppa Intercontinentale.
«26 novembre 1996. Altra data storica. La prima cosa che mi colpì fu sentire il boato del pubblico con qualche secondo di ritardo. Mi dissi: “Ma questi giapponesi so’ proprio strani!”».
E invece?
«La cosa era molto semplice: loro guardavano la partita anche sul maxischermo; arrivando le immagini in ritardo, di conseguenza anche i loro ululati erano ritardati».
Della partita che cosa ricordi?
«Che meritavamo di vincere. E che per fortuna ci pensò Del Piero con un gol meraviglioso a pochi minuti dalla fine. Grande Alex, un altro dei campionissimi con cui ho giocato. A me, che ero capitano, non restò che alzare la coppa. Quella sbagliata, però: sollevai la Toyota Cup».
Ti sei spiegato il perché delle due finali di Champions perse nel 1997 e nel 1998?
«Con il Dortmund ci sentivamo più forti e abbiamo beccato. Con il Real Madrid, dopo il loro gol, non abbiamo saputo reagire con il nostro gioco».
Nel 1999 finisce il tuo rapporto con la Juve.
«Ero in trattativa con la società per il prolungamento. La Juve voleva inserire delle clausole sulle sponsorizzazioni. L’ho sempre detto: il calciatore fa il calciatore, non deve andare in tv o alle conventions. Poi, mentre ero in macchina, sento alla radio che la Juve ha chiuso per Van der Saar. Chiamai Moggi. Era tutto chiaro».
E così spunta l’Inter.
«Si misero d’accordo le due società. Per me andava benissimo, oltretutto all’Inter c’era Lippi che mi voleva. Peccato che lì l’esperienza è durata solo un anno. A Milano stavo bene, ma arrivò la chiamata della Lazio. Era una squadra fortissima, con la rosa migliore di tutta la Serie A. C’era gente come Nedved, Veron, Nesta. Simeone, Crespo. E poi mi avvicinavo a casa».
Con la Lazio, però, hai vinto poco.
«È vero. Ma non dimenticare che nel mezzo c’è stato il crack della Cirio, con tutto quello che si è portato appresso. Un gran peccato».
Da laziale sei diventato Campione del Mondo.
«È stata un’esperienza straordinaria per la quale devo ringraziare ancora una volta Marcello Lippi. Mi volle lui, mi disse chiaro che il posto di Buffon era intoccabile. E stavolta non feci le bizze come nel 2000, quando rifiutai la chiamata di Zoff. Che stupidaggine. Tra l’altro Buffon si fece male e l’Europeo lo giocò Toldo. Ritrovai Zoff mesi dopo alla Lazio: “Che coglione che sei stato!” questo fu il suo buongiorno».
Che rimane della notte di Berlino?
«Grande gioia, anche se vincere senza giocare non è il massimo. Credo che la soddisfazione intima di Buffon sia stata dieci volte superiore alla mia».
Vero che dopo la finale incontrasti Zidane?
«Ho visto fare delle cose a Zizou in allenamento, e anche in partita, da extraterrestre. È un amico. Lo andai a salutare. Parlammo dei figli, della famiglia, di noi. In piedi, sotto le docce. Lui fumava una sigaretta».
Nicola Calzaretta