Fabrizio Salvio, SportWeek 16/1/2016, 16 gennaio 2016
IL DISCORSO DEL CAPITANO
[Awudu Abass]
Come tutte quelle dei predestinati, la storia di Abass Awudu Abass è limpida, semplice, lineare. Certamente più dell’altra relativa al suo nome. «Awudu Abass è il nome completo. E sarebbe sufficiente, se non fossimo in Italia, dove, a differenza dell’Africa, c’è per forza bisogno di un cognome. Ecco perché Abass si ripete due volte: quando mio padre mi ha registrato all’anagrafe del Comune ha dovuto darne uno, e non gli è venuto in mente altro che ripetere Abass. Awudu non so cosa significhi: mi è sempre piaciuto farmi chiamare solo Abass, più comune nell’Islam. Deriva dall’arabo, significa “angelo che scende dal cielo”. In famiglia è tradizione tramandarsi il nome: io ho quello del nonno, papà quello di suo padre, Adam». A Cantù, dove è arrivato ragazzino per giocare a pallacanestro, il problema lo hanno risolto chiamandolo “capitano”.
Perché capitano dell’Acqua Vitasnella lo è davvero, eletto nel ruolo nella passata stagione, a soli 22 anni. Lui, nero, italiano d’adozione, nato a Como da padre ghanese e mamma nigeriana, 2 metri di puro atletismo conditi da una mano dolcissima capace di quasi 14 punti di media a partita, frutto di movimenti a tratti inarrestabili. Con la Nazionale Under 20 ha vinto da protagonista l’Europeo 2013, in quella maggiore ha esordito diciannovenne. Oggi è il miglior giovane della A di basket, il 6° giocatore in assoluto per valutazione. Un predestinato, appunto.
Come si fa a passare in 3 anni dalla C2 regionale alla A?
«Ci vogliono un po’ di talento e molta pazienza. Al Senna Comasco ero solo in prestito e dentro di me sapevo che in A sarei arrivato. Ci sono stati momenti in cui avrei voluto fare esperienza da qualche altra parte, ma i miei genitori mi ripetevano di avere pazienza. E io ci ho dato dentro ogni giorno».
Sempre basket, fin da piccolo?
«In realtà volevo correre sui kart. Erano gli anni di Schumacher, sognavo di essere come lui. Ma papà, che è più alto di me, mi avvertì: lascia perdere, tu nei kart non riuscirai neanche a entrare».
E capitano a 22, come si diventa?
«Sono un prodotto del vivaio, la società ci teneva che il capitano fosse una figura di riferimento del club. All’inizio non è stato facile: non avevo passato e neanche presente e non me la sentivo di dire la mia. Sapevo che i compagni mi avrebbero ascoltato per rispetto del mio ruolo, non perché io contassi davvero. Ma dal gennaio scorso le cose sono cambiate: ho iniziato a giocare di più e meglio e il mio ruolo all’interno della squadra è cresciuto anche nello spogliatoio».
Dunque adesso la sua parola è legge.
«Conosco persone che parlano tanto senza dire niente. Io apro bocca solo se e quando serve. Spiego al compagno cosa voglio da lui e gli chiedo cosa lui vuole da me. A volte ci scappa il cazziatone, ma a quelli che ascoltano soltanto se alzi la voce. Tengo unita la squadra. In campo, coinvolgendo i compagni in attacco: mi accorgo che quando faccio così, si vince. Se al contrario gioco per i cavoli miei, magari perché sono scazzato, il rendimento di tutti precipita. Fuori, legando gli americani agli italiani: in questo sono facilitato dal fatto di essere nero ma di parlare la vostra lingua».
Ha detto di essere cresciuto psicologicamente: in che senso? «Nel campionato scorso, quando entravo dall’inizio ero teso, nervoso, non controllavo le emozioni, mi tiravo indietro. Ansia da prestazione? Forse. O forse inesperienza. Ai playoff mi sono detto: ora o mai più. Non posso avere paura. Ho tirato giù il muro che mi frenava e tutto è andato in discesa. Ho iniziato a prendermi le responsabilità, e, se sbagliavo un tiro, non mi voltavo più verso l’allenatore per vedere come reagiva».
Cosa le manca per arrivare ai Lakers, la squadra del suo cuore?
(ride) «Tre o quattro anni di esperienza, durante i quali far vedere con costanza le mie doti».
Cosa deve a Cantù?
«Tutto. Mi sento più adulto rispetto ai coetanei: ho conosciuto più persone, ho viaggiato di più, ho giocato con padri di famiglia con i quali non puoi parlare delle cose di cui parleresti a un ventenne».
Quali scuole ha fatto?
«L’istituto professionale».
Per diventare...?
«Mi piace dire “tecnico industriale”. Vabbè, elettricista» (risata).
Papà ghanese e mamma nigeriana: la sua è un’integrazione riuscita.
«Mio padre da giovane ha viaggiato molto, fino in Australia, per capire quale fosse il posto giusto dove vivere. Quando ha scelto l’Italia, ci ha portato mia madre. A Como lui lavora in una stamperia, mia madre fa pulizie. Quanto a me, compiuti i 18 anni ho chiesto la cittadinanza».
Problemi per il colore della pelle?
«A Como mai. Tre anni fa, in vacanza, uno ha cominciato a urlarmi “negro, negro!”. Stavo per reagire, ma un amico si è messo di mezzo. Meglio così, anche perché subito dopo è passata la polizia: se mi avessero visto colpire quel tipo sarei passato dalla parte del torto».
Cosa c’è di italiano in lei?
«Il modo di guidare: sorpasso, non ho pazienza, suono il clacson... L’amore per la pasta: da piccolo, se mangiavo africano, vomitavo. Poi, come tanti di voi, me la prendo comoda: sotto la doccia, per esempio. Ma vivo ancora coi miei, ho assorbito molto delle loro usanze. Ho ricevuto un’educazione rigida, a un padre africano basta un’occhiata per zittire il figlio. La disciplina mi ha aiutato a diventare ciò che sono».
Quanto c’entra la religione, invece?
«Sono musulmano praticante, prego 5 volte al giorno e vado in moschea. L’Islam è pace e tolleranza, non spargimento di sangue come predicato dai terroristi».
La fede le è stata imposta?
«Come succede a tutti i bambini. Ma a 17 anni pregare è diventata una mia scelta. E oggi, se non prego, mi manca qualcosa».
I suoi vengono a vederla giocare?
«Sì. Mamma non riesce a tenere le emozioni: durante la partita l’hanno vista inginocchiarsi e pregare».
Raccontano che il nuovo proprietario di Cantù, l’ucraino Gerasimenko, sia un tipo originale.
«Un lunedì ero da solo in palestra ad allenarmi sui fondamentali quando l’ho visto arrivare in maglietta e pantaloncini. Si è messo a palleggiare con me: dopo due minuti aveva il fiatone. Poi mi ha sfidato al tiro. L’ho lasciato vincere una volta, la prossima non succederà».
Ma davvero vive coi suoi, pur potendo permettersi una casa tutta sua?
«E sono pure fidanzato... Dai, quest’anno vado a stare da solo!».