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 2016  gennaio 18 Lunedì calendario

COMMERCIO, LA VALANGA CINESE: NELLA UE IN PERICOLO IL 2% DEL PIL

Per l’Unione europea è la decisione politica più importante dell’anno, quella che avrà maggiori ricadute sugli equilibri commerciali mondiali. Concedere o non concedere lo status di economia di mercato alla Cina? Questo è il dilemma che stanno affrontando a Bruxelles. Gli interessi tra Stati sono del tutto divergenti così come in contraddizione sono la salvaguardia dei rapporti politici con Pechino e la sopravvivenza di interi settori industriali europei e con essi di milioni di posti di lavoro. Così, come spesso avviene in Europa quando le equazioni sono senza apparente soluzione, la Commissione Ue troverà una via d’uscita di compromesso: aprire la porta alla Cina, ma non troppo. Una scelta che alla fine potrebbe comunque penalizzare l’Italia e gli altri paesi dell’Europa mediterranea.
Negli scorsi mesi, rigorosamente dietro le quinte, è stata combattuta una violenta battaglia tra governi per influenzare Bruxelles sulla decisione. Da un lato Italia, Francia e altri paesi manifatturieri, principalmente quelli dell’Europa del Sud, assolutamente contrari al riconoscimento del Mes (Market economy status) alla Cina. Dall’altra le nazioni del Nord, i liberisti, coloro che importano dalla Cina piuttosto che esportare e che sarebbero ben contenti di vedere calare i prezzi dei prodotti in arrivo dal Dragone. Dunque Gran Bretagna, Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, Belgio, Irlanda. E a sorpresa favorevole è anche la Germania, la cui industria non teme un calo del proprio export e che anzi potrebbe comprare componenti cinesi a costi ancora più bassi da inserire nelle proprie catene di montaggio abbassando i prezzi dei prodotti finiti. Oltre ad avvantaggiare le sue industrie che hanno massicciamente delocalizzato in Cina. Pechino è entrata nell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) nel 2001, ma senza essere riconosciuta come economia di mercato. Dopo 15 anni, questa la decisione di allora, ci sarebbe stata una revisione dello status. Appunto nel 2016.
Secondo i cinesi, e i liberisti del Nord Europa, automatica. Dunque il Mes dovrebbe essere riconosciuto senza discussioni, senza alcuna analisi di impatto sulle industrie del Vecchio Continente, un mero atto burocratico. Per l’Italia e i suoi alleati no. Lo status di economia di mercato non può essere concesso così, con una fredda decisione scevra da qualsiasi considerazione politica. Anzi, lo status di economia di mercato alla Cina non dovrebbe proprio essere concesso. D’altra parte nel 2001 l’Europa aveva fissato cinque condizioni che i cinesi avrebbero dovuto rispettare per ottenere l’ingresso nel club del libero mercato come lo stop dell’influenza governativa sulle imprese, fine degli aiuti di Stato, trasparenza sul diritto di proprietà ed esistenza di un settore finanziario indipendente. Naturalmente, almeno per i paesi in diretta concorrenza con la Cina, Pechino non soddisfa queste condizioni se si pensa al perdurante dirigismo, ai prezzi ammini-strati e alla metodica manipolazione dello yuan da parte delle autorità pubbliche. Ma il problema è che il commissario europeo al Commercio, la svedese Cecilia Malmstroem, e il servizio giuridico dell’esecutivo comunitario sono convinti che l’Unione sia legalmente costretta a riconoscere il Mes a Pechino. Con loro due viceprsidenti di peso, come l’olandese Tiemmermans e il finlandese Katainen.
Al contrario, i legali dell’Europarlamento hanno concluso che questo obbligo non esiste. Mercoledì scorso il collegio dei commissari presieduto da Jean-Claude Juncker ha tenuto una prima discussione sul tema. E in quell’occasione l’Italia ha segnato una vittoria di tappa impensabile fino a qualche mese fa, riuscendo a far slittare la decisione cancellando dunque l’idea dell’automatismo. Un risultato, per una volta, frutto di un lodevole lavoro di squadra da parte dei protagonisti italiani. Il governo, in particolare con il viceministro Carlo Calenda e con lo stesso Renzi, ha appoggiato il grande attivismo di Confindustria, a sua volta sostenuta dagli europarlamentari italiani, dalla nostra rappresentanza permanente presso la Ue e dagli stessi sindacati, preoccupati per le conseguenze sull’occupazione. Un vero successo che ha evitato il peggio, con la Commissione che ha deciso di rinviare di sei mesi la decisione e ha annunciato uno studio di impatto sul quale si baseranno le sue mosse future. Fino a pochi giorni fa Bruxelles ufficialmente parlava solo di 250mila posti di lavoro a rischio in caso di apertura dei mercati alla Cina.
La questione è elementare: se Pechino otterrà il Mes, le sue merci non potranno più essere soggette a decisioni antidumping. Insomma, in caso di palesi violazioni delle regole di mercato, l’Europa non potrà più proteggere le proprie industrie con i dazi in entrata contro i prodotti della Repubblica popolare. Provocando una vera ecatombe industriale, almeno stando ai diversi studi di impatto commissionati dalle associazioni imprenditoriali di mezza Europa. Ad esempio, secondo una analisi dell’Economic Policy Institute, con il Mes nell’arco di 3-5 anni l’Unione perderebbe fino a 3,5 milioni posti di lavoro, dei quali fino a 400mila in Italia in conseguenza di un aumento del 25-50% dell’export cinese. Con una possibile perdita di 228 miliardi di euro, pari al 2% del Pil del continente. In più l’export italiano potrebbe perdere lo 0,4% delle proprie vendite, un danno da 1,5 miliardi e altri 20mila posti bruciati. Con un impatto ulteriore su tutto l’indotto di 58mila posti persi e decine di migliaia di aziende a rischio chiusura con perdite fino a 1,1 miliardi. D’altra parte l’Italia è il Paese in maggiore concorrenza con la Cina. Basti pensare che su 52 categorie di prodotti cinesi attualmente colpiti dai dazi europei 30 sono anche o prevalentemente italiane. E a rischiare il tracollo sarebbe la siderurgia (protetta da 20 procedure antidumping). Così come a subire gravi danni, tra gli altri, sarebbero anche meccanica, chimica, bulloneria, calzature, biciclette, pannelli solari, carta, vetro e ceramica.
Per questo la scorsa settimana la nostra industria, scampato il primo, imminente, pericolo, ha tirato un sospiro di sollievo. E a determinare il rinvio da parte di Bruxelles c’è stato anche lo zampino americano, dato da non sottovalutare nemmeno in futuro: fino alle presidenziali gli Usa bloccheranno la decisione sul Mes alla Cina e oggi nessuno è in grado di prevedere quale sarà la scelta della prossima amministrazione. Per questo a Washington pressano affinché l’Europa non apra alla Cina temendo che quando entrerà in vigore il Trattato di libero scambio con l’Europa (Ttip) gli Stati Uniti possano essere invasi da tonnellate di merci cinesi a basso costo entrate dal nostro continente e senza alcuna contromisura difensiva a disposizione, danneggiando pesantemente l’industria a stelle e strisce. Juncker mercoledì non ha voluto un vero dibattito tra commissari, ma nessuno all’interno del collegio si è schierato apertamente contro il Mes. Dal suo staff oltretutto filtra l’indiscrezione che alla fine Pechino lo status di market economy lo otterrà. Non tutti però a Bruxelles si danno per vinti, l’industria europea continuerà a battersi contro la decisione, e così diversi governi. Ma anche i cinesi faranno pressioni fortissime, al pari dei leader Ue favorevoli e di diversi corpi diplomatici, preoccupati da un possibile deteriorarsi delle relazioni internazionali su vari scacchieri strategici.
Per questo il team del presidente della Commissione dà la decisione per inevitabile, ma nel frattempo lavora a una serie di "mitigations", contromosse per contenere l’impatto negativo sulle nostre economie e che permetta al testo di passare il voto del Parlamento di Strasburgo, dove il gruppo socialista è contrario, e dei governi dei Ventotto. Il punto è che un meccanismo di protezione applicato all’Argentina a dicembre è stato bocciato da un arbitrato in seno al Wto. Un tasto sul quale batterà il fronte contrario alla Cina per evitare tout court il via libera al Mes. Tuttavia nei prossimi mesi i tecnici e i legali della Commissione cercheranno un’altra forma giuridica per dotare l’industria europea di un paracadute in caso di scomparsa dei dazi: al momento si pensa ad abrogare la "Lesser duty rule", consentendo di alzare le tariffe in caso di pratiche di dumping da parte di economie di mercato, come eventualmente la Cina, su alcuni settori che rischiano l’estinzione. Soluzione che certamente sarebbe applicata all’acciaio e che troverebbe il favore della Gran Bretagna, in generale favorevole al Mes ma impegnata a salvaguardare le proprie acciaierie colpite da una drammatica crisi. Dunque la sensazione è che alla fine l’apertura ci sarà. Resta da vedere quanto dolorosa.
di ALBERTO D’ARGENIO, Affari&Finanza – la Repubblica 18/1/2016