Notizie tratte da: Maurizio Quilici, Grandi uomini, piccoli padri, Fazi editore, 234 pagine, 16,50 euro, 18 gennaio 2016
Notizie tratte da: Maurizio Quilici, Grandi uomini, piccoli padri, Fazi editore, 234 pagine, 16,50 euroVedi Libro in gocce in scheda: 2347535Vedi Biblioteca in scheda: mancaCameriera La figlia maggiore di Galileo Galilei, Virginia, nata il 13 agosto del 1600, quando suo padre aveva 36 anni
Notizie tratte da: Maurizio Quilici, Grandi uomini, piccoli padri, Fazi editore, 234 pagine, 16,50 euro
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Cameriera La figlia maggiore di Galileo Galilei, Virginia, nata il 13 agosto del 1600, quando suo padre aveva 36 anni. La madre era la cameriera Marina Gamba, 22 anni, bella, procace, sveglia.
Baldorie Galileo, che viveva a Padova, aveva conosciuto Marina Gamba durante una delle sue frequenti incursioni a Venezia, quando, deposti gli abiti del professore, correva a divertirsi. Erano week-end di baldoria, all’insegna del vino buono, di cibi grassi e saporiti e di femmine compiacenti.
Prostitute All’epoca a Venezia c’erano più o meno diecimila prostitute, fra le quali circa duecento cortigiane.
Dignità Galileo e Marina staranno insieme dieci anni e lei gli darà altri due figli, ma Galileo non pensò mai di sposarla. Anzi, non pensò neppure di viverci insieme, ché gli sarebbe parso poco dignitoso per le persone di riguardo che venivano a visitarlo e forse imbarazzante per via dei numerosi studenti ospitati in casa sua, secondo gli usi dell’epoca; però la fece venire a Padova, per sua comodità.
Legittimi Nel 1619 Galileo legittimerà il figlio Vincenzio, tredicenne, mentre non risulta che abbia mai fatto lo stesso con le figlie.
Fornicazione Virginia risulta «nata di fornicazione» il 13 agosto 1600, come è scritto nel certificato di battesimo della Parrocchia di San Lorenzo, a Padova. Galileo non era presente alla nascita della primogenita, sebbene si trovasse in città e l’università fosse chiusa per le vacanze estive.
Livia Antonia Il 18 agosto 1601 Marina partorisce una seconda bambina, Livia Antonia. Questa volta il parroco di San Lorenzo annota che la bimba è «figliuola di Madonna Marina di Antonio Gamba et di…». Lascia puntini di sospensione ma a Padova e a Venezia lo sanno tutti chi è il padre.
Vincenzio Andrea Vincenzio Andrea nascerà anche lui in agosto, il 21, ma cinque anni dopo, nel 1606. La parrocchia questa volta è quella di Santa Caterina e la formula che si può leggere nei registri è leggermente diversa: Vincenzo è «fio de Madonna Marina… ecc. ecc., padre incerto».
Mantenimento Quando si stufò della compagna e tornò in Toscana, Galileo mantenne con lei buoni rapporti e le lasciò il piccolo Vincenzio. Quantunque oberato di debiti, continuò a inviarle denaro per il mantenimento di Vincenzio anche dopo che lei s’era trovata un nuovo compagno.
Suore Le figlie femmine restano con Galileo, che in un primo tempo pensa di affidarle a sua madre, cosa che si rivela impossibile per il caratteraccio della donna. Sul finire del 1613 fa accogliere le due bambine – Virginia ha tredici anni, Livia dodici –tra le clarisse nel Monastero di San Matteo ad Arcetri, località collinare che sovrasta Firenze. Nel 1616 Virginia diventa suor Celeste, nel 1617 Livia prende il nome di suor Arcangela.
Processo Il 1616, anno in cui Virginia diventa suor Celeste, è lo stesso in cui Galileo deve affrontare il primo processo da parte del Sant’Uffizio.
Lettere 1 Del rapporto con Virginia possiamo capire qualcosa grazie soprattutto alle lettere che suor Celeste scrisse a Galileo. Un epistolario quasi tutto a senso unico, poiché Galileo raramente rispondeva. Nelle sue numerose lettere (ad esempio, dal 10 al 31 agosto 1623 ce ne sono pervenute sei), Virginia è sempre preoccupata di importunare il genitore, di rubargli tempo prezioso, di «venirgli a fastidio». Lo informa delle proprie condizioni di salute e di quelle della sorella, dà conto della vita del monastero, chiede timidamente al padre qualche favore, per sé o per il convento, come «qualche quattrino per provvedere a’ miei bisogni», una gallina per fare un po’ di brodo, «qualche barattolo o ampolla vota» che al padre sia d’ingombro e che a lei servirebbe invece molto per la bottega del convento.
Lettere 2 Virginia si preoccupa di continuo delle condizioni di salute del genitore. Si raccomanda «a non disordinare nel bere, come sento che sta facendo». A volte gli consiglia rimedi per la cattiva salute (compresa «una ricetta eccellentissima contro la peste») o gli fa pervenire «due pere cotte», «una rosa», «12 fette di pasta reale», qualche mostacciolo, un poco di «acqua di cannella» o di marzapane… Galileo risponde inviando un po’ di agnello, qualche fiasco di vino, frutta e persino caviale.
Lettere 3 Il 4 marzo 1628 Virginia rimprovera il padre che «sta tre mesi per volta senza venire a visitarne, che a noi paion tre anni, ed anco da un pezzo in qua, mentre però si ritrova con sanità, non mi scrive mai mai un verso».
Lettere 4 Virginia appare rassegnata alla vita monastica e sembra anzi animata da sincero e gioioso spirito religioso. Più volte – nelle 124 lettere a Galileo che ci sono pervenute – afferma che la clausura le pesa solo in una circostanza: quando sa che suo padre è malato e lei vorrebbe essergli vicina per assisterlo.
Isteria Per Livia l’obbligo della vita monacale si rivelò un disastro. Già il suo carattere era molto diverso da quello mite e aperto della sorella («di qualità molto diversa dalla mia» lo definisce Virginia, «e piuttosto stravagante»). Incline alla malinconia, ebbe a soffrire di numerosi disturbi fisici e psicologici: depressione, attacchi di nervi, isteria.
Furori La descrizione che suor Celeste fa, in una lettera del 22 novembre 1629, di quanto accaduto a una monaca «nostra maestra», «la quale, sopraffatta da que’ suoi umori o furori due volte ne’ giorni passati ha cercato d’uccidersi. La prima volta con percuotersi il capo e il viso in terra tanto forte ch’era divenuta deforme e mostruosa; la seconda volta con darsi in una notte tredici ferite, due nella gola, due nello stomaco e l’altre tutte nel ventre».
Gusto Suor Celeste conserva gelosamente le lettere – poche– che il padre le invia, e le legge e rilegge di continuo, con «grandissimo gusto». Nessuna di queste lettere c’è pervenuta.
Afflizione Il 2 aprile 1634 suor Celeste moriva, a soli 34 anni. In una lettera al fratello della nuora, Geri Bocchineri, inviata il 27 di quello stesso mese di aprile, Galilei dice di provare «una tristizia e melanconia immensa, inappetenza estrema, odioso a me stesso, et insomma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliola». In un’altra lettera indirizzata al discepolo Elia Diodati qualche mese dopo, scrisse che la morte della figlia, «donna d’esquisito ingegno, singolare bontà e a me affezionatissima», lo lasciava «in un’estrema afflizione».
Opinioni Pier Antonio Favaro, fra i più autorevoli studiosi galileiani, lo definisce «amorosissimo padre» e lo esime da ogni responsabilità per la monacazione della figlia, «condannata al chiostro dalla stessa sua nascita, della quale il pregiudizio le faceva una colpa». Lo scrittore americano Adam Gopnik, in un articolo su Galilei, ha scritto: «Nella rosa dei geni, l’evasione dalle responsabilità terrene sembra praticamente un tema fisso. [...] La scienza esige menti eroiche, ma non morali eroiche». Il giornalista Giovanni Ansaldo, nel 1927, osservò che la corrispondenza di suor Celeste è «il solo raggio amabile che riscaldi la fronte di Galilei, illuminata dalla gloria, ma fredda, ma gelida d’amore», che suor Celeste «fu una vittima del padre» e che il grande Galilei «sa misurare la distanza tra pianeta e pianeta, non quella da cuore a cuore».
Trovatelli Jean-Jacques Rousseau, considerato il fondatore della pedagogia moderna e uno dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo francese, ebbe cinque figli dalla giovane cucitrice Thérèse Levasseur, con la quale iniziò una relazione nel 1745 e che sposerà civilmente solo ventitré anni dopo. Di tutti i figli, si liberò subito dopo la nascita collocandoli all’Ospizio dei
Trovatelli. La prima volta lui stesso ammise di aver preso la decisione «risoluto, senza il minimo scrupolo». Giustificò il suo operato osservando che così facendo si adeguava a un modello «in auge fra persone amabilissime e in fondo onestissime», e addirittura che «chi popolava meglio l’ospizio dei trovatelli era sempre il più applaudito».
Marciapiede Quando Rousseau dovette fuggire dalla Francia e rifugiarsi in Svizzera, un anonimo detrattore pubblicò un libello nel quale lo accusava di aver abbandonato i figli «sul marciapiede».
Levatrice Quando nacque il primo figlio Rousseau cercò una levatrice «prudente e sicura» perché il parto avvenisse senza troppo clamore. La stessa levatrice portò poi il neonato all’ospizio e lo lasciò all’accettazione. Nelle fasce del neonato fu messo un foglio con una cifra; la stessa cifra fu scritta su un secondo foglio che tenne Rousseau. Questo scrupolo dei genitori era in uso fin dal tempo dei romani e dei greci, che erano soliti abbandonare all’angolo di una strada o sui gradini di un tempio i figli non voluti. Si lasciava addosso al neonato una mezza moneta, la parte di un monile o di un giocattolo, una scritta. La parte mancante dell’oggetto o un’identica scritta veniva conservata dal genitore,
perché ci fosse un giorno – magari mutate le circostanze – la possibilità, del tutto teorica, di ritrovare quel figlio.
Cifra Dopo un anno Thérèse rimane di nuovo incinta. E il filosofo non ha un attimo di incertezza nell’imporre alla sua compagna la stessa soluzione e alla sua creatura lo stesso destino: l’ospizio. Questa volta, però, non c’è nemmeno l’ombra di scrupolo della cifra o di simile “prova” per un eventuale, futuro riconoscimento. Scrive Rousseau nelle Confessioni: «L’anno dopo, stesso inconveniente e medesimo espediente, tranne la cifra che venne trascurata. Nessuna riflessione di più da parte mia, nessuna approvazione di più da parte della madre: obbedì piangendo».
Pubblica educazione «Affidando i miei figli alla pubblica educazione, non potendoli allevare io stesso, destinandoli a diventare operai e contadini piuttosto che avventurieri e cacciatori di doti, credetti di compiere un atto di cittadino e di padre [...] Il mio terzo figlio fu dunque affidato all’ospizio dei trovatelli come i primi due, e altrettanto accadde dei due successivi: ne ebbi infatti cinque in tutto. Quella soluzione mi parve così buona, sensata, legittima, che se non me ne vantai apertamente, fu soltanto per riguardo alla madre».
Moglie Nelle Confessioni Rousseau descrive la moglie così: non sa leggere bene, fatica a decifrare le ore sul quadrante di un orologio (per quanto il suo Pigmalione abbia impiegato più di un mese per insegnarglielo), non ricorda l’ordine dei dodici mesi dell’anno, non sa far di conto, né calcolare i prezzi. Inoltre «la parola che le viene parlando alle labbra è spesso l’opposto di quella che vuole dire». Subito dopo, però, ecco che le riconosce di essere «una consigliera eccezionale nelle occasioni cruciali», di aver visto spesso cose che lui non vedeva, di avergli dato i consigli migliori sul da farsi e averlo salvato in più occasioni da pericoli verso i quali stava precipitando. Insomma, «al cospetto di dame di più alto lignaggio, di potenti e di principi, i suoi sentimenti, il suo buon senso, le sue risposte e la sua condotta le valsero la stima universale, e a me, per il suo merito, complimenti di cui sentivo la sincerità».
Arrossire Il ricordo dei figli dovette quantomeno imbarazzarlo fino al termine della sua vita. Nella quarta delle Rêveries du promeneur solitaire infatti racconta come, durante un picnic con un paio di amici dalla signora Vacassin, ristoratrice, una delle due figlie di questa, sposata e incinta, gli chiese bruscamente, fissandolo, se avesse mai avuto bambini. Rousseau rispose, «arrossendo fino agli occhi», che non aveva avuto quella fortuna. Al che la giovane «sorrise con malignità guardando la compagnia».
Soldi Qualcuno ha ipotizzato che Rousseau abbandonò i figli a causa delle non buone condizioni economiche, e lui
stesso si è giustificato parlando di ristrettezze che non gli
avrebbero permesso di allevare dignitosamente i figli.
Ma all’incirca al tempo dei primi abbandoni, il filosofo subì un furto del quale si rammaricò molto. Scrupolosamente, fece l’inventario degli indumenti rubati, nel quale troviamo, fra l’altro, «quarantadue camicie di bellissima tela». La verità è che Rousseau conduceva un tenore di vita al di sopra del le sue possibilità: frequentava il “bel mondo” (che detestava e criticava regolarmente), e questo lo costringeva a forti spese, specie nell’abbigliamento, per non sfigurare. Logico quindi che non volesse gli ulteriori aggravi economici che gli sarebbero derivati dal mantenimento di un figlio (e figuriamoci di cinque).
Enrichetta A Milano, nel 1807, Alessandro Manzoni conosce una ragazza svizzera poco più che quindicenne, Enrichetta Blondel, e la sposa. Da lei avrà dieci figli – tre maschi e sette femmine – solo due dei quali gli sopravvivranno: Enrico e Vittoria.
Nevrosi Manzoni era afflitto da numerose forme di nevrosi tra cui l’agorafobia, che per molti anni rese difficile allo scrittore uscire se non accompagnato da qualcuno, preferibilmente un familiare. A quanto pare, soffriva anche di angoscia accompagnata da vertigini ogniqualvolta si trovava in un luogo elevato. Una paura che lo afferrava anche al chiuso, tanto da aver bisogno di appoggiarsi a una sedia prima di sedersi in poltrona, per non avere l’intollerabile impressione di precipitare.
Matilde Manzoni assente e distratto soprattutto nei confronti della figlia Matilde.
Journal Matilde è, dei dieci figli avuti da Enrichetta Blondel, quella della quale sappiamo di più, grazie al Journal, il diario che ella tenne per pochi mesi e che ci svela un grande amore di figlia e un altrettanto grande egoismo di padre.
Convento Matilde a 8 anni entra in convento, quello milanese di clausura della Visitazione, dove si trova già, da otto anni, la sorella sedicenne Vittoria, per tutti Vittorina. È il 9 maggio 1838. Raggiunti i diciotto anni Vittoria lasciò il convento, sei anni dopo si sposò con Giovanni Battista Giorgini, detto Bista, e andò a vivere a Lucca. Anche Matilde, in seguito, lascia il convento: dopo un breve soggiorno nella casa paterna a Milano, e poi nella villa del fratello Enrico a Renate, oggi in provincia di Monza e della Brianza, nell’estate del 1847 si trasferisce dalla sorella Vittoria.
Leopardi Matilde, che non ha mai avuto un marito né un amore, leggeva per ore l’amato Leopardi, che le suscitava grandi turbamenti e persino il pianto.
Ballo A ventun anni Matilde, bionda di capelli e chiara di
carnagione, vinse la sua ritrosia e partecipò a un ballo in casa di amici. Nel Journal scrive di essersi «assai divertita» e descrive la sua toilette: «Avevo un vestito bianco a puntini celesti con tre volants, dei fiorellini celesti fra i capelli, la mia berthe de blonde [mantellina di pizzo di seta, N.d.A.], e un largo nastro bianco e celeste alla vita: la mia semplice toilette fu molto lodata. Al collo avevo la rivière di opali della mia povera nonna; e più d’uno mi ha detto che le opali e i miei occhi avevano il medesimo colore».
Incontro Matilde visse con la sorella e il cognato dieci anni. E in quei dieci anni padre e figlia si incontrarono una sola volta: una visita di una ventina di giorni che lo scrittore fece a Matilde, nell’autunno del 1852, dopo cinque anni di lontananza.
Avversione al calamaio Manzoni e Matilde si scrivevano, e le lettere della giovane sono piene di attesa, di desiderio, di tenerezza, tanto quanto quelle del padre sono convenzionali e prive di slanci. Ma soprattutto era lei a scrivere perché lui era troppo impegnato, o in cattiva salute, o semplicemente indolente. Una difficoltà nel prendere carta e penna che tutti i biografi gli riconoscono e che lui stesso ammette più volte, scusandosene («avversione al calamaio», la chiama in una lettera del 21 ottobre 1848 a Vittoria, dopo due mesi e mezzo di silenzio) ma che non aveva certo per la sua seconda moglie: in quei venti giorni di visita alle due figlie Manzoni scrisse a Teresa Borri dieci lettere. In una di queste smania: «Sono sei interi giorni che sono senza tue nove». In un’altra si lamenta perché «non ho ancora vista una riga di tuo».
Lettere Manzoni a Matilde inviò quattro lettere in cinque anni. Della figlia, scritte in quei dieci anni trascorsi in Toscana, ci sono pervenute trentanove lettere al padre (se altre siano andate perse non lo sappiamo).
Silenzi Manzoni si scusa spesso con le figlie per i suoi prolungati silenzi, per gli annunci di prossime lettere che non scrive (del resto deve scusarsi con tutti per lo stesso motivo: amici, parenti, conoscenti…) ma nello stesso tempo ha sempre una giustificazione, a suo avviso validissima: la cattiva salute – sua o della moglie – gli impegni letterari, le incombenze per la casa milanese o la villa di Brusuglio, «l’aver avuto gente». Spiega spesso in modo vago i continui ritardi nello scrivere, naturalmente «involontari»: «Sono, al solito, [cagioni] non gravi, ma molte e rinascenti». Oppure si tratta di «affari inderogabili e ristrettezze», non meglio specificati. Quando poi scusanti vere non ce ne sono, si autoassolve così: «…la pigrizia è della penna e non del cuore». In compenso, chiede a loro, alle figlie, di scrivergli più spesso, «e lettere lunghe».
Bachi da seta Vittoria e Matilde chiedevano di continuo al padre di andarle a trovare, ma lui rinviò la visita più volte, per varie ragioni. Una volta lo fece per via dei bachi da seta (aveva cominciato a dedicarsi alla bachicoltura) che richiedevano la presenza di Pietro a Brusuglio, nel mese di maggio.
Tisi Quando si ammala di tisi, Matilde prega più volte il padre di andarla a trovare. Ma lui rinvia di continuo, ripondendo con lettere nelle quali giustifica il fatto che non viene, «dispiacentissimo del ritardo». Ora è il «cholera» scoppiato in Toscana, o la stagione cattiva, ora sono i malanni di Teresa, ora quelle «burraschette infiammatorie» alle quali è soggetto. Le parole di Matilde si fanno ansiose, affannate, frenetiche: «Sono quattro mesi che sono in questo letto. Dio cosa ho sofferto e cosa soffro… Piango delle volte come una disperata [...] La testa se ne va assolutamente, la tosse non mi lascia pro e bisogna che smetta…![...] Papà mio tanto venerato e caro! Ti prego mandami la tua benedizione tutte le sere che mi conforti e mi ajuti a soffrire addio! E a guarire». Manzoni risponde subito, prega per lei e fa pregare gli altri, consola. Ma è incerto se partire o no. Pochi giorni prima di risponderle ha scritto al genero perché siano lui e Vittoria a decidere se deve o no partire per Siena. «Il pensiero della Toscana», scrive il 15 ottobre 1855 a Teresa, «mi tiene in una continua agitazione. Da una parte il desiderio di Matilde m’attira con una specie di violenza; [...] dall’altra parte, vedo purtroppo le difficoltà [...]». A toglierlo dall’imbarazzo ci penserà Matilde, spirando fra le braccia della sorella e del suocero alle tre del pomeriggio di una domenica, il 30 marzo del 1856. Aveva 26 anni.
Partorire «La donna fa una grande cosa: partorisce i figli, ma non partorisce i pensieri, questo lo fa l’uomo» (Tolstoj).
Stupidi «La più intelligente delle donne lo è meno di un uomo stupido» (Tolstoj).
Tredici figli Lev Tolstoj, dalla moglie, Sof’ja Bers, ebbe tredici figli, nove dei quali gli sopravvissero. Con i figli maschi ebbe rapporti spesso conflittuali, mentre era adorato dalle femmine. Gli ultimi anni furono segnati da una forte tensione con Sof’ja, sofferente di disturbi nervosi, che lo angustiò fino a spingerlo a fuggire di casa, nel 1910, all’età di ottantadue anni.
Diari 1 Tolstoj ebbe sempre a cuore l’educazione dei bambini e dei ragazzi, traducendo il suo im pegno pedagogico nella Scuola di Jasnaja Poljana, da lui fondata. Ma nei confronti dei figli – a giudicare dai Diari che Sof’ja Tolstaja tenne dal 1862, anno del suo matrimonio, fino al 1919, anno della sua morte - fu un pessimo padre. Tutto il diario di Sof’ja è una costante accusa al marito per l’indifferenza nei confronti dei figli «Perché», si chiede il 26 ottobre 1889, «ai padri non tocca soffrire per tutto quello che riguarda i figli? Perché per le donne c’è anche questo peso nella vita?». Il 18 marzo 1898 scrive: «Una madre non può educare i figli da sola e la giovane generazione è cattiva perché i padri sono cattivi e pigri nell’educare e si buttano più volentieri su qualsiasi altra occupazione, trascurando la cosa più importante, cioè l’educazione delle generazioni future, che devono continuare l’opera di tutta l’umanità e andare avanti». Il 13 febbraio 1873 annota disperata: «…ho bisogno di allegria, ho bisogno di chiacchiere vuote, ho bisogno di bei vestiti, ho bisogno di piacere, ho bisogno che si dica che sono bella. [...] Mi piacciono i fiocchi, vorrei una nuova cintura di pelle e ora, dopo che l’ho scritto, ho voglia di piangere…». 6 giugno 1897: «Dei figli non solo non si occupa, ma molto spesso dimentica anche la loro esistenza». 23 luglio 1897: «Non è interessato ai suoi figli: per lui era una cosa difficile e lo annoiava». 7 novembre 1897: «Anche le figlie lo hanno servito e allora si è interessato a loro, ma i figli gli sono completamente estranei».
Diari 2 Sof’ja nei Diari non nega che a volte il suo Levočka, così come affettuosamente lo chiama, giochi con i figli. A volte, anzi, descrive i giochi che Tolstoj fa con loro, come il 6 marzo 1891, quando annota: «Ogni giorno, dopo pranzo, Levočka gira con loro per tutta la casa. Ne fa sedere uno in una cesta vuota, poi la chiude e la trasporta per la casa, quindi si ferma in qualche posto e ordina a chi sta dentro la cesta di indovinare in quale stanza si trova». Però, Sof’ja rimprovera al marito di giocare con i figli e basta, tralasciando tutto il resto, specialmente l’educazione: «Si diverte con tutti i bambini, ma non si occupa assolutamente di loro».
Turbe psichiche Sof’ja aveva un sistema nervoso di grande fragilità, soffriva, specie negli ultimi anni della vita con il marito, di vere e proprie turbe psichiche, con complessi di colpa e di inferiorità, frequenti minacce di suicidio (che tentò in alcune occasioni) e altrettanto frequenti scenate melodrammatiche, con svenimento finale. Gli ultimi appunti nel diario di Tolstoj sono di crescente esasperazione: «Con lei non si può vivere. È solo tormento», «Mi è molto penoso stare in questa casa di pazzi», «Sono sempre più e sempre più oppresso da questa vita».
Reumatismi Il 28 giugno 1863 nasce il primo figlio dei Tolstoj, Sergej. Lo scrittore, che pure ama vergare appunti, riflessioni, osservazioni su tutto, non ci ha lasciato una riga su quell’evento. Nemmeno nel diario, dove pure annotava non solo pensieri elevati e riflessioni profonde, ma anche un «reumatismo alla gamba», una visitina in una casa di tolleranza (prima del matrimonio), due lepri prese in mezz’ora di caccia, una partita a dama.
Vanečka Il 23 febbraio 1895 muore il figlio Ivan. Sof’ja Tolstaja scrive a lungo, nel suo diario, ricordando gli ultimi giorni del bambino, citando episodi toccanti, particolari commoventi. Il padre annota poche righe: «Abbiamo seppellito Vanečka. Terribile. No, non è terribile, ma è stato un grande avvenimento spirituale. Ti ringrazio, Padre. Ti ringrazio». Riprende la penna dopo quasi due settimane, e il 12 marzo scrive: «Ho sentito, ho provato, ho pensato tanto in questo periodo che non so cosa scrivere. La morte di Vanečka è stata per me, come la morte di Nikolenka, [Il fratello Nikolaj, morto di tisi nel settembre 1860. «La morte di Nikolenka », aveva scritto Tolstoj nel Diario, «è stata l’impressione più forte della mia vita», N.d.A.] no, in misura ancora più grande, una manifestazione di Dio, un avvicinamento
a Lui. E per questo non solo non posso dire che è stato un avvenimento triste, penoso, ma dico apertamente che è stato (gioioso): non gioioso, è una parola impropria, ma un avvenimento misericordioso di Dio, che avvicina a Lui, che scioglie la menzogna della vita.Seguono riflessioni su Sof’ja, che «non riesce a vederlo così. Per lei il dolore quasi fisico del distacco ha nascosto l’importanza spirituale dell’avvenimento».
Morte dei fanciulli « La morte dei fanciulli da un punto di vista oggettivo: la natura cerca di dare uomini migliori e, dopo aver constatato che il mondo non è ancora pronto per loro, se li riprende indietro. Ma deve provare lo stesso, per andare avanti. È un bisogno. Come le rondini che arrivano troppo presto e muoiono di freddo. Ma esse devono ugualmente arrivare. Così Vanečka. Ma è un ragionamento oggettivo stupido. Mentre un ragionamento giusto è che lui ha contribuito all’opera di Dio, all’affermarsi del regno di Dio attraverso l’aumento dell’amore, più di quanto abbiano fatto molti che hanno vissuto mezzo secolo e più» (Tolstoj).
Lieserl Lieserl, figlia di Albert Einstein e di Mileva Marić (che sarebbe poi divenuta sua moglie e gli avrebbe dato altri due figli) “cancellata” perché giunta in un momento e in un contesto sbagliati. L’esistenza di Lieserl fu scoperta solo nel 1987, circa ottantacinque anni dopo la sua nascita, quando furono pubblicate alcune lettere fra Albert e Mileva. Nessuno sa che fine fece questa bambina rifiutata dai genitori.
Zoppa Lieserl, nata nel 1901. Albert ha da cinque anni una relazione con Mileva Marić. Relazione osteggiata dalle famiglie di entrambi, ma specialmente da quella di Albert e in particolare dalla madre di lui, Pauline, che manifestò sempre una profonda ostilità per Mileva. Mileva era serba, di religione cattolica, fisicamente insignificante – per di più affetta da lieve zoppia – e tutt’altro che brillante (tranne quando parlava di fisica). Ce n’era abbastanza perché una madre tedesca ed ebrea, autoritaria e possessiva nei confronti del figlio maschio, ritenesse la fanciulla non adatta al suo ragazzo.
Figlio illegittimo In quel periodo Einstein aveva in prospettiva un lavoro a Berna, all’Ufficio Brevetti, e un figlio illegittimo non sarebbe stato la migliore delle presentazioni.
Abortire A Zurigo – dove nel 1901 le nascite illegittime furono il 12 per cento del totale – era possibile abortire con una spesa che andava dai 30 ai 150 marchi ed era persino possibile acquistare per corrispondenza farmaci abortivi.
Tracce Lieserl nacque alla fine di gennaio o ai primi di febbraio del 1902, a Novi Sad, in Serbia, dove vivevano i genitori di Mileva. Di lei si perdono quasi da subito le tracce. Alcuni indizi portano a pensare che la piccola sia stata affidata a una cara amica della madre di Mileva, Helene Kaufler Savić. Tra questi, una lettera che Albert inviò a Mileva il 13 novembre 1901, nella quale Mileva suggeriva ad Albert di scrivere ogni tanto qualche parola alla donna: «Ora dobbiamo trattarla molto bene. Dovrà aiutarci in qualcosa di importante, dopotutto». Einstein non vide mai sua figlia.
Nozze Il 6 gennaio 1903, nell’ufficio dello stato civile di Berna, Albert e Mileva si sposarono, di fronte a un ristretto gruppo di colleghi di lui. Nessun familiare della coppia era presente. A questo punto avrebbero potuto legittimare Lieserl (nascite regolarizzate dopo il matrimonio non erano infrequenti), ma non lo fecero.
Hans Albert Il 14 maggio 1904 nacque Hans Albert Einstein, dai genitori chiamato con il diminutivo “Albertli”. Hans Albert scoprirà di avere (o avere avuto) una sorella solo nel 1948, quando, dopo la morte della madre, 430 lettere scambiate fra lei e Albert entrarono in suo possesso. Ma non fece nulla per cercarla.
Giochi Hans Albert, da grande, ricordava ancora con commozione una piccola funivia che lo scienziato aveva costruito per lui utilizzando semplicemente scatole di fiammiferi e spago. Continuò a dedicare tempo al figlio anche in seguito. Lo testimonia Mileva, quando, nel dicembre 1906, scrive all’amica Helene: «Mio marito passa spesso il suo tempo libero a casa semplicemente giocando con il bambino». Il sabato si poteva vedere papà Einstein, con l’immancabile pipa fra i denti e un taccuino in mano, che spingeva per la strada una carrozzina col piccolo Albertli. E fra i suoi biografi c’è chi racconta che, andando a casa sua, non fosse difficile trovarlo intento a cullare il piccolo.
Tete Nel 1909 Albert e Mileva si trasferirono a Zurigo. Nel luglio 1910 nacque Eduard, che i genitori chiamarono da subito con il nomignolo “Tete”: un bambino di salute cagionevole, che avrà in seguito gravi problemi fisici e psichici. Soffrì sin dai primi anni di problemi respiratori e più tardi manifestò sintomi di schizofrenia che lo costrinsero a vari ricoveri fino alla sua morte, avvenuta in una casa di cura svizzera nel 1965.
Violino Nei primi anni Einstein si dedicò a entrambi i bambini. Molti anni dopo Hans Albert ricorderà che, quando Mileva era occupata, «papà metteva da parte il suo lavoro e badava a noi per ore, facendoci saltellare sulle sue ginocchia. Mi ricordo che ci raccontava delle storie e spesso suonava il violino nel tentativo di tenerci buoni».
Relazione clandestina I problemi con i figli cominciarono più tardi. Nel 1912 lo scienziato si recò da solo a Berlino, durante le vacanze di Pasqua, e iniziò una relazione con una cugina, Elsa, che era stata sua compagna di giochi da bambina. Elsa aveva 36 anni – tre più di Einstein –, era divorziata e viveva con le due figlie, Margot e Ilse. Tornato a casa (i coniugi Einstein, nel frattempo, si erano trasferiti a Praga), fece un paio di tentativi di troncare la relazione con Elsa, senza riuscirvi. Dopodiché avviò una regolare, clandestina relazione con la cugina. Ormai in casa i rapporti erano irrimediabilmente guastati. E i figli, specialmente il più grande, cominciarono ad accorgersene. E a soffrirne. Hans Albert ricorderà di aver capito, subito dopo aver compiuto otto anni, che qualcosa di grave stava accadendo ai suoi genitori.
Mileva era sempre più taciturna, irritata, gelosa. Per usare le parole di Einstein, «diffidente, di poche parole e depressiva, vale a dire cupa».
Croce Einstein che, sognando la cugina, parlava ormai della moglie come della sua «croce».
Condizioni Al termine di un feroce litigio Einstein se ne andò di casa. Poi però fece pervenire alla moglie un documento nel quale si diceva disposto a tornare a vivere insieme («Perché non voglio perdere i ragazzi e non voglio che loro perdano me») ma elencava puntigliosamente una serie di condizioni.
Ti assicurerai:
1) che i miei indumenti e la mia biancheria siano tenuti in
ordine;
2) che io riceva i miei tre pasti regolarmente nella mia camera;
3) che la mia camera da letto e lo studio siano mantenuti
puliti e soprattutto che la mia scrivania sia riservata al
mio uso esclusivo.
Rinuncerai a qualsiasi rapporto personale con me se non
in quanto sia strettamente necessario per ragioni sociali.
In particolare rinuncerai:
1) a che io stia a casa con te;
2) a che esca o viaggi con te
Ti atterrai ai seguenti punti nei tuoi rapporti con me:
1) non ti aspetterai nessuna intimità da me, e nemmeno
mi rimprovererai in alcun modo;
2) smetterai di parlarmi se lo richiederò;
3) uscirai immediatamente dalla mia camera da letto o
dallo studio senza protestare se lo richiederò.
Separazione A quel punto Mileva capì che non restava che la separazione. I due redassero un accordo nello studio di un avvocato: Mileva avrebbe avuto la custodia dei figli, che periodicamente sarebbero andati a trovare il padre, e sarebbe tornata a vivere a Zurigo. I rapporti con Albert furono soggetti a una condizione: i bambini non dovevano incontrarlo in una casa dove eventualmente vivesse anche Elsa.
Lacrime Il giorno in cui Mileva e i bambini partirono, Einstein si recò alla stazione accompagnato da Fritz Haber e – nel ricordo di quest’ultimo, «pianse come un neonato» tutto il pomeriggio e la sera. Fu una delle rare occasioni in cui Einstein fu visto piangere da adulto (pianse anche alla morte della madre e a quanto pare, molti anni dopo, anche a quella di Elsa).
Liti Per alcuni anni il rapporto a distanza con Mileva fu burrascoso. I due litigavano su tutto: sui mobili, sull’assegno di mantenimento, sui figli. Soprattutto quest’ultimo argomento era motivo di dissidio. Einstein, infatti, era convinto che Mileva stesse aizzando i bambini contro di lui. «Mi hai portato via i figli», le scrisse in una lettera del 15 settembre 1914, «e mi sono reso conto che i loro sentimenti verso il padre si sono guastati».
Sgarbato Hans Albert, dopo la separazione, si rifiutava di rispondere alle accorate lettere del padre e, quando lo faceva, lo faceva controvoglia e sempre con tono critico.
Infanzia felice «Nessuno ha il diritto di aspettarsi un’infanzia felice» (Einstein a sua figlia Evelyn).
Malattie Nell’estate del 1917 i rapporti con Hans Albert cominciarono lentamente a migliorare. Albert aveva avuto dei problemi di salute che lo avevano fatto dimagrire di venticinque chili in due mesi: ulcera allo stomaco (ma anche problemi di fegato, calcoli, itterizia e vari altri malanni: tutte malattie che Einstein attribuiva a uno stretto collegamento fra la vita psichica e quella fisica). Mentre si trovava ricoverato in una clinica di Lucerna, il figlio lo andò a trovare.
Indecisione Quando ottenne il divorzio da Mileva, Einstein sposò la cugina. Era il giugno 1919. Prima, però, ebbe qualche indecisione: fu incerto se sposare Elsa o la figlia maggiore di lei, Ilse. Questo a patto di prestare fede a una lettera che la ragazza, appena ventunenne, scrisse all’amante, Georg Nicolai, e nella quale affermava che la questione fu seriamente affrontata e discussa in famiglia. Alla fine Einstein optò per la madre.
Segretaria Appena quattro anni dopo Einstein si innamorò della sua segretaria, Betty Neumann, con la quale ebbe un’intensa relazione, seguita poi da molte altre con donne diverse.
Monogamia Einstein aveva sempre sostenuto che «la maggior parte degli uomini (e molte donne) sono per natura non monogami».
Compleanni Einstein non ricordava mai i compleanni dei figli.
Odio Eduard più volte si dispiacque per il distacco con il quale Einstein rispondeva alle sue lettere piene di passione. Nel 1930, a vent’anni, cominciò a scrivere al padre lettere piene di risentimento. Lo accusava di aver proiettato un’ombra sulla sua vita, di averlo generato e poi abbandonato. Gli scrisse senza mezzi termini che lo odiava.
Chaplin Nel 1930 Einstein, con Elsa, si recò per la seconda volta in America per un viaggio di lavoro di due mesi. Fu durante questo soggiorno, alla prima del film Luci della città, che incontrò e conobbe Charlie Chaplin. Mentre entravano assieme, accolti dagli applausi di una folla enorme, Chaplin commentò: «Applaudono me perché tutti mi capiscono, e lei perché nessuno la capisce».
Ultima volta Nel 1932 Einstein andò a trovare Eduard, ricoverato in una clinica psichiatrica. Quella fu l’ultima volta che Einstein vide Tete. Suo figlio avrebbe atteso invano per i successivi ventidue anni, fino al giorno della propria morte: suo padre non sarebbe mai andato a trovarlo. Con un amico che viveva nei pressi della clinica dove Eduard era ricoverato e che spesso gli dava notizie del figlio, Albert si giustificò così: «C’è qualcosa che mi blocca e che non sono in grado di analizzare fino in fondo. Credo che susciterei in lui sentimenti dolorosi di vario genere se dovessi comparire in una qualunque forma».
Progetti Poco tempo prima di morire, Hans Albert dirà del padre: «Probabilmente l’unico progetto cui rinunciò in tutta la sua vita fui io».
Testamento Quando fece testamento Einstein lasciò soltanto diecimila dollari ad Hans Albert e quindicimila a Eduard per garantirgli l’assistenza nella casa di cura. Ma ne lasciò ventimila a Helen Dukas, la fedele segretaria che lo aveva assistito per ventisette anni (e che Hans Albert sospettava avesse una relazione con il padre) e altrettanti alla figliastra Margot (oltre a una casa che era già a lei intestata; l’altra figlia di Elsa, Ilse, era morta nel 1934).
Vita e morte «La vita è uno spettacolo entusiasmante. Mi diverte. È meravigliosa. Ma se sapessi di dover morire dopo tre ore, mi impressionerei molto poco: penserei al modo migliore di impiegare questo tempo, dopodiché metterei tranquillamente in ordine le mie carte, e mi metterei pacificamente sdraiato». (Einstein)
Eleganza Quando a Princeton, dove visse gli ultimi anni, l’aneurisma dell’aorta addominale cominciò a rompersi – era il 13 aprile 1955 – molti medici si precipitarono al capezzale di Einstein. Suggerirono un intervento chirurgico, anche se con poche speranze, ma Einstein disse di no. Parlando con Helen Dukas, che aveva assunto come segretaria nel 1928, le disse: «È di cattivo gusto prolungare la vita artificialmente. Ho fatto la mia parte, è ora di andare. Lo farò con eleganza».
Equazioni Einstein accettò malvolentieri di essere ricoverato in ospedale, dove seguirono quattro giorni di alti e bassi. Domenica 17, sentendosi un po’ meglio, chiese carta e penna e si mise far calcoli. Morì il giorno dopo, verso l’una del mattino, a 76 anni. Accanto al suo letto trovarono dodici pagine fitte fitte di equazioni.
Cervello 1 Il corpo di Einstein fu cremato e le ceneri furono disperse in un punto imprecisato del fiume Delaware, come lui aveva voluto per scongiurare ogni forma di futuro pellegrinaggio verso le sue spoglie. Non tutto, però. Durante l’autopsia di routine effettuata al Princeton Hospital, il medico legale Thomas Harvey estrasse il cervello dello scienziato e, senza chiedere nulla a nessuno, decise di conservarlo.
Cervello 2 Dagli studi risultò che nella regione del lobo parietale inferiore – considerata la zona del pensiero matematico – il cervello di Einstein aveva una superficie del 15 per cento più sviluppata rispetto a quella dei 35 cervelli-campione esaminati. Per molti aspetti, però, il cervello del genio Einstein non aveva nulla di speciale.
Cervello 3 A Mosca, nell’Istituto per Ricerche sul Cervello, fondato nel 1926 per ordine di Stalin, sono conservati, fra gli altri, i cervelli di Lenin, dello stesso Stalin, di Čajkovskij, di Sacharov. Anche i cervelli di Anatole France, di Turgenev, di Whitman furono estratti, pesati, analizzati meticolosamente. E a Torino, il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso conserva gelosamente il cervello (ma anche il cranio e lo scheletro)
del medico veronese da cui prende il nome, assieme a circa novecento crani che lo stesso Lombroso aveva raccolto e classificato, a conferma delle sue teorie sull’«uomo delinquente».
Pace «Non sono un uomo fatto per la famiglia. Desidero stare in pace» (Einstein).
Autobiografia 1 Charlie Chaplin Si sposò quattro volte ed ebbe undici figli: uno – che morì a tre giorni dalla nascita – dalla prima moglie, due dalla seconda e otto dalla quarta, Oona O’Neill, figlia del famoso drammaturgo Eugene. Nelle oltre cinquecento pagine che compongono la corposa autobiografia che Chaplin scrisse fra il 1959 e il 1963 gli accenni ai figli sono pochissimi. La nascita del primo figlio, avuto dalla prima moglie, Mildred Harris, è così ricordata: «Dopo un anno di matrimonio nacque un bambino che visse solo tre giorni».
Autobiografia 2 Non va meglio con i due figli che Chaplin ebbe dalla seconda moglie, l’attrice Lillita McMurray, in arte Lita Grey. Questo lo spazio che il regista dedica loro nell’autobiografia: «Durante la lavorazione della Febbre dell’oro mi sposai per la seconda volta. Poiché abbiamo due figli grandi ai quali voglio molto bene, non entrerò in dettagli».
Autobiografia 3 Negli otto anni trascorsi con la terza moglie, Paulette Goddard, non ci furono figli. Infine, ci fu il quarto matrimonio, quello con Oona O’Neill, figlia del drammaturgo Eugene O’Neill. Da Oona Chaplin ebbe otto figli, ma a nessuno di loro l’autobiografia dedica una parola. Dei primi quattro l’autore ricorda giusto i nomi: Geraldine, Michael, Josie (Joséphine) e Vicky (Victoria). Degli altri neppure quelli. Nel libro, meticolosamente annotati, ci sono tutti i successi di Chaplin, i film da lui diretti o interpretati, i favolosi guadagni, le manifestazioni
di entusiasmo (o di ostilità) che la sua presenza suscitava, gli assedi da parte dei fan, i tanti incontri con i “grandi” del suo tempo, la descrizione compiaciuta del lusso che era propria dell’ambiente che frequentava e che faceva sbiadire il ricordo di tante ristrettezze e sacrifici. («Come è piacevole e confortante il lusso!», scrisse nell’autobiografia).
Charles junior Dei dieci figli di Chaplin, tre hanno scritto libri di ricordi. Il primo, Charles junior, figlio di Chaplin e della seconda moglie, Lita Grey, è autore di My Father, Charlie Chaplin, pubblicato in Italia nel 1961 dall’editore Rizzoli, con il titolo Charlot mio padre Nel suo ricordo – e nei racconti che gli ha fatto sua madre – Charlie Chaplin è un padre apprensivo, sempre preoccupato di ciò che può accadere ai figli; un padre che, la notte in cui nacque il suo primogenito, si chinò a guardarlo «con un’ansia che superava di gran lunga quella comune ad ogni uomo che diventa padre la prima volta». E tuttavia è anche un uomo «di illimitato egoismo», con una «spiccatissima tendenza a imporre la propria personalità», fortemente egocentrico, vanitoso, con un carattere molto chiuso, che quasi mai apre il suo animo, di umore mutevole e con un «quasi fanatico attaccamento al lavoro». Caparbio come un mulo, difficilmente ammette di aver avuto torto. È anche un perfezionista quasi maniacale, di un perfezionismo che vorrebbe anche nei figli, dai quali pretende «un contegno irreprensibile». È facile all’ira e Charles junior e il fratello, Syd, temono le sue sfuriate («Non ci picchiò mai, nemmeno nelle esplosioni di collera, ma Syd e io lo temevamo ugualmente in quei momenti, per il suo rabbio so desiderio di solitudine»). Però non porta rancore. E poi è anche un padre divertente come pochi, che sa improvvisare irresistibili pantomime per i suoi bambini, raccontare terrificanti storie da brivido e organizzare “cacce” come la ricerca delle uova di pasqua che lui stesso ha nascosto. Insomma, per il figlio, «una natura complessa, uno strano miscuglio di cupa introversione e d’improvvisa gaiezza».
Lettere Quando Charles padre se ne andò in crociera con la sua terza moglie, Paulette Goddard, e stette lontano tre mesi, non si fece mai vivo con i figli. «Non ci scrisse una sola lettera», ricorda Charles junior, «sebbene, ne sono sicuro, pensasse spesso a noi».
Michael Chaplin Di tono assai diverso il libro di memorie che, pochi anni dopo, nel 1965, pubblicò Michael Chaplin, figlio diciannovenne di Chaplin e di Oona. Titolo: I Couldn’t Smoke the Grass on My Father’s Lawn, (Non potevo fumare l’erba sul prato di mio padre). Qui il padre è chiamato «il vecchio», «il padre-piovra». O anche «il grande regista», quando ingaggia un
detective privato, che si spaccia per poliziotto, con l’incarico di rintracciarlo (il quindicenne Michael aveva marinato la scuola), intimorirlo, dissuaderlo dal continuare a frequentare una ragazza ventiduenne della quale si era invaghito e ricondurlo a casa. La differenza di età fra i due giovani preoccupava molto i genitori. Comunque sia, Michael tornò a casa dove subì una dura punizione dal padre, che prima lo investì dandogli del «cretino» e del «povero pazzo» e poi lo colpì con un violento manrovescio facendolo sanguinare dal naso. Il risultato fu che un paio di mesi dopo il ragazzo se ne andò di casa e appena compiuti diciotto anni si sposò (in Scozia, dove non era necessario il consenso dei genitori) con una bionda attrice-scrittrice ventiquattrenne, Patrice
Johns.
Capellone Michael fu, da giovane, un figlio insolente e ribelle, un adolescente più incline alla marijuana e all’hascisc che allo studio, un capellone (e naturalmente suo padre odiava i capelli lunghi). Detestava gli amici dei genitori considerandoli degli insopportabili snob e si sentiva a disagio negli alberghi a cinque stelle nei quali talvolta alloggiava e nelle scuole esclusive che veniva costretto a frequentare con pessimi risultati.
Emozioni Michael – che oggi è attore e produttore, padre di sette figli e vive con la seconda moglie in Svizzera – ancora oggi conferma che il grande Chaplin, a casa, era avaro di risate e spesso si comportava in modo distaccato sia fisicamente che affettivamente: «Aveva difficoltà a manifestare le sue emozioni ai figli e credo che ciò lo imbarazzasse ».
Diciassette minuti Jane, sesta degli otto figli avuti con Oona O’Neill, ha scritto il libro 17 minutes avec mon père (17 minuti con mio padre, pubblicato in Italia nel 2009 dall’editore Giulio Perrone): 17 minuti sono il tempo dell’unico colloquio a tu per tu con il padre che Jane riesce a ricordare. Era il 17 novembre 1974,
si trovavano nella tenuta di famiglia. Jane aveva diciassette anni. È un momento scolpito per sempre nel suo cuore e nella sua mente. «La mia vita con lui non è stata che silenzio», avverte in una delle prime pagine del libro. «Il padre del film muto è anche un padre silenzioso».
Pranzi Dal libro libro 17 minutes avec mon père: «Una volta, mentre mangiavo controvoglia, mamma mi ha guardato in cagnesco dicendo: “Sei così egoista da non riuscire a mettere da parte il tuo disgusto e provare, almeno per una volta, a farti piacere questa pietanza? A tollerarla quanto meno? È il piatto preferito di tuo padre, ed è contrariato dal fatto che non ti piaccia”. Ecco come andavano, il più delle volte, i nostri pranzi e le nostre cene».
Gare Una mattina la piccola Jane corre a sguazzare nella grande piscina con i fratelli minori, Annie e Cristopher. La madre la afferra per un braccio e la avverte: quando faranno le “gare” con papà, lei dovrà farlo vincere. E allo stupore della bambina, che chiede perché, risponde: «Ama vincere e allora lascialo vincere».
Felicità «Si può trovare più felicità nel lavoro che in qualunque altra cosa» (Chaplin).
Barba David Robinson, storico del cinema e autore di una monumentale biografia di Chaplin, riporta i ricordi di Carlyle T. Robinson, responsabile dell’Ufficio Pubblicità del Lone Star Studio, di quando Chaplin, dopo aver finito di girare l’ultima scena di L’emigrante – era il 1917 – si dedicò a ridurre il film dai dodicimila metri girati ai circa seicento necessari. «Lavorò per quattro giorni e quattro notti senza alcun riposo. Rivedeva la stessa scena cinquanta volte, eliminando qualche centimetro qui o lì, assistito solo da un collaboratore». Quando il film raggiunse le dimensioni volute, «i migliori amici dell’attore non l’avrebbero riconosciuto: la barba gli era cresciuta di vari centimetri, i suoi capelli erano spettinati, il suo aspetto sporco, disordinato; non aveva più nemmeno il colletto della camicia».
In punta dei piedi Quando Chaplin si chiudeva nello studio per lavorare, ai figli era vietato fare il minimo rumore. Dovevano camminare in punta di piedi e se qualcuno sgarrava erano guai: «Subiva severe punizioni, che coinvolgevano tutta la tribù».
Lacrime Quando, dopo soli tre giorni dalla nascita, il bambino che la giovanissima moglie, Mildred Harris, aveva dato alla luce morì, Chaplin, a quanto pare, pianse.
Conferenza stampa Quando diventò nuovamente padre, la seconda moglie, Lita Grey, cominciò a lamentarsi (non avrebbe mai smesso fino al divorzio) perché Chaplin era troppo preso dal suo lavoro per andare a trovare il primogenito. Il 24 settembre 1925, poco dopo la première della Febbre del l’oro, Chaplin tenne una conferenza stampa all’Hotel Ritz-Carlton. Qualcuno gli chiese se gli erano mancati moglie e figlio durante la lavorazione del film, e lui rispose che non li aveva sentiti per due mesi e che non aveva fretta di tornare da loro.
Parlare Geraldine Chaplin disse una volta: «Mamma è meravi gliosa, ma non riesco a parlare con lei. E con mio padre nemmeno. Vivono in un mondo tutto loro».
Personale Nella residenza svizzera di Chaplin, oltre a un amministratore e a una segretaria per il padrone di casa, erano a disposizione due camerieri, una cuoca, un maggiordomo, un aiutante di cucina, due bambinaie, due giardinieri e un autista.
Eugene O’Neill Il drammaturgo Eugene O’Neill, premio Nobel per la letteratura nel 1936 e tre volte vincitore del premio Pulitzer, pessimo padre pre lui. Bevitore smodato, manesco (almeno lo fu con la seconda delle tre mogli, Agnes Bulton, che picchiava di tanto in tanto e alla quale strappava i capelli), egocentrico ed egoista, per i figli mostrava una spiritosa, goliardica attenzione solo al momento della nascita. Per Shane: «È un maschio di quattro chili e mezzo, e ha l’aria di potersi mettere a giocare a calcio già adesso». Per Oona: «È una bambina. Sia reso grazie ad Allah. Stando ad alcuni segni premonitori, diverrà la prima giornalista specializzata sui campi di polo. Prevedo un luminoso avvenire nell’opera lirica». Poi, non appena i figli si facevano più grandini, i pianti, il chiasso, gli strilli lo infastidivano irrimediabilmente.
Funerale Quando suo figlio Eugene junior – quarant’anni, apprezzato studioso di greco ma anche lui sulle orme alcoliche del padre – si uccise tagliandosi le vene nella vasca da bagno, non si recò neppure al funerale (aveva già interrotto i rapporti con lui da tempo).
Matrimonio Disapprovò il matrimonio di Oona con Chaplin e dopo che lei ebbe fatto di testa sua non le rivolse più la parola per dieci anni, fino al giorno della sua morte.
Carcere Shane, eroinomane, dopo aver tentato più volte di suicidarsi, a ventinove anni fu condannato a due anni di carcere per abuso di stupefacenti e da quel giorno Eugene si rifiutò di vederlo.