Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 16 Sabato calendario

LA FALSA LEGGENDE DEL RE

Martedì 18 gennaio 1977: pioviggina e fa freddo per essere Roma. Luciano Re Cecconi sta per ritrovare il campo tre mesi dopo l’infortunio patito contro il Bologna. Insieme col compagno Pietro Ghedin gira per il quartiere Fleming. «Sto be­ne», ripete sorridendo. Verso le 19.30 i giocatori si fermano dell’amico profumiere Giorgio Fraticcioli.
«Venite con me, devo lasciare dei flaconi da un gioielliere». Cecco acconsente e firma la sua condanna a morte. I tre percorrono cica 100 metri, poi il profu­miere si ferma davanti all’ingresso della gioielleria di Bruno Tabocchini. Bussa alla porta di vetro per farsi aprire. Da dentro fanno un cenno per capire se i due ragazzi alle sue spalle fossero con lui. Dentro al nego­zio ci sono il proprietario, la moglie, il figlio di 9 anni, un conoscente con i suoi due bimbi. Tutto accade in pochi secondi. Il profumiere entra di scatto, posa le boccette sul bancone. Re Cecconi e Ghedin lo seguo­no in fila indiana. Qualcuno farfuglia una frase tipo «Siamo tutti». In contemporanea l’orafo prende la Walther che ha nella fondina dei pantaloni, la punta su Ghedin (d’istinto alza le mani), poi la sposta ad altezza petto dell’uomo biondo distante un metro o poco più. Parte il colpo: calibro 7,65 rinforzato. Cecco ha il tempo di dire al compagno «Non ti muovere, aspetta..». Crolla agonizzante e muore in ospedale poco dopo a causa di una emorragia. E lo scherzo? Non c’è traccia nelle prime ricostruzioni. Lo stesso gioielliere afferma: «Re Cecconi non ha fatto nulla che mi potesse far pensare a una rapina». E al proces­so aggiunge: «Aveva (il giocatore, ndr) un viso lungo e teso. Insomma, non una faccia comune...». Quasi un trattato lombrosiano. La tesi della goliardata prende piede. Rilanciata dall’orafo, dall’amico testi­mone, dalla moglie e dai giornalisti che intravedono la strada migliore per fare titoli e riempire le pagine.
La tragica fatalità ha il suo bel perché. «Quando hai la pistola in mano non c’è tempo per pensare», dichiara Tabocchini. L’orefice (di calcio non sapeva nulla: Re Cecconi era un perfetto sconosciuto) nei mesi prece­denti aveva fatto fuoco altre due volte: verso un rapi­natore entrato nella sua bottega e in strada nei con­fronti di un presunto scippatore della moglie.
Entrambi hanno lasciato Roma da tempo. Gigi Martini vive ad Antigua, Caraibi. Pie­tro Ghedin a Malta, Mediterraneo. Due isole, unite da una storia. Martini è stato difensore scudettato, pilo­ta d’aerei, deputato di An e tanto altro ancora. Ma soprattutto amico di Re Cecconi. Ghedin più lineare: calciatore e dopo allenatore. Ma il 18 gennaio 1977 è impossibile da dimenticare. Martini ha ospita­to l’ex compagno nella notte più tremenda: «Basta con la storia della finta rapina. Non c’è stato nessuno scherzo. Ghedin mi ha spiegato l’accaduto: è entrato per ultimo, occhi bassi per non inciampare sul gradi­no. Quando li ha rialzati ha visto la pistola: ha tolto le mani dalla tasca in segno di resa. Un gesto che gli ha salvato la vita perché l’arma era senza sicura, sensibi­le a ogni vibrazione. In pratica, con il dito sul grillet­to, è bastata spostarla per far partire il colpo. Ghedin non ha sentito nessuna frase pronunciata da Luciano. Me lo ha giurato. Quella versione faceva comodo. Meglio far passare per stupidi due calciatori piuttosto che parlare di tragica fatalità o di altro. E mi disgusta questa cosa, calpestare così la memoria di un uomo che mai avrebbe solo immaginato uno scherzo simile. Ho visto il mio amico da morto, sul tavolo dove hanno cercato di salvarlo. Il dottore della Lazio era lì, mi portò in sala operatoria. Mi prese la mano e poi m’in­filò il dito in un piccolo buco sul corpo. “Da qui è en­trato il proiettile, questioni di millimetri. Un po’ più in basso e si sarebbe salvato”, disse. Poi incontrai Pietro e lo invitai a stare da me: mi escluse la storia dello scherzo».
Ghedin al processo disse proprio questo, lo ribadì anche quando il giudice gli fece notare che le dichiarazioni verbalizzate a caldo andavano in un’al­tra direzione. «Frutto di pressioni giornalistiche», ri­spose. In pratica fu condizionato. A casa di Martini e in aula raccontò che Luciano non aveva aperto bocca, neppure durante il tragitto tra i negozi. Da allora Ghedin convive col peso di essere testimone e soprav­vissuto. Ecco perché quando (non) parla della vicen­da tende ad alzare lo sguardo, come per nascondere il turbinio di emozioni e ricordi laceranti. Ha accettato d’incontrare la Gazzetta a Malta, in una giornata di gennaio molto diversa da quella romana del 1977: sole e vento. «Non c’è stato nessuno scherzo? L’ho già detto al processo, è tutto agli atti. Perché ripeterlo? Da quasi 40 anni c’è la rincorsa a farmi un’intervista, cercando di provocarmi. Magari per innescare pole­ miche inutili. Non devo giustificarmi, sono a posto con la coscienza. E’ stata una tragica fatalità, un uo­mo ha perso la vita. Poteva capitare a me». E ancora: «Ha ragione Martini, è vergognoso dipingerci da idio­ti in cerca di guai. Perché è passata la versione della finta rapina? Me lo sono chiesto tante volte: tengo le risposte per me. Come i ricordi. La vita non si ferma, va avanti. Ma dentro restano le ferite. Bisogna scrive­re le cose giuste su Re Cecconi: un grande uomo, an­che se così può sembrare retorico. Eravamo due cal­ ciatori; io normale, lui un grande che ha fatto grande una Lazio irripetibile. Da tramandare».
Il compito lo affidiamo a Martini: «Squadra di fascisti? Fandonie, quasi tutti votavano Dc, Maestrelli era un ex partigiano. Io sì, ero di destra. Vera, invece, la divisione in clan: da una parte Chinaglia, Pulici, Wilson; dall’altra io, Re Cec­coni, Nanni. Maestrelli era per lo spogliatoio aperto, avevamo i giornalisti pure nei gabinetti. Oggi è impensabile, come sarebbero follia le nostre partitelle del giovedì: venivano a vederci 3­4 mila persone. Ci sfidavamo con botte vere e tensione a mille, ma la domenica tornavamo uniti, merito di Maestrelli. A volte non era semplice: nella stagione dello scudetto ricordo una settimana molto complicata, culminata col 2-­1 del Verona all’Olimpico dopo 45’. C’era aria di resa dei conti, Maestrelli lo capì e ci impedì di rientra­re negli spogliatoi, ributtandoci in campo. Il pubblico restò prima sorpreso nel vederci schierati senza av­versari e arbitro, ma poi iniziò a rumoreggiare. L’adrenalina salì a mille: vincemmo 4­-2. Con Cecco eravamo più che amici, lo convinsi a prendere il bre­vetto per lanciarsi col paracadute. Il presidente mica ci fermò, chiedeva informazioni. Il tuffo più bello? Quello per la raccolta fondi in favore dell’Unicef. Ri­cordo ancora la faccia di Luciano al primo tuffo. Dis­se: “Gigi, sei proprio un pirla…”. Lo chiamavamo il saggio, ponderava ogni cosa. Ecco perché la storia dello scherzo è un insulto alla sua memoria. E’ stato un tragico destino. Certo, un destino armato...».