Michele Neri, VanityFair 13/1/2016, 13 gennaio 2016
L’UOMO CHE PRESE A PUGNI IL NAZISMO
Questa è la storia del vuoto che distrugge l’esistenza. Di un uomo che ne è stato annientato, e di un altro che, raccontando la tragedia del primo, è riuscito a salvarsi dal proprio, di vuoto. Si tratta della vita di un pugile straordinario, un peso medio e poi mediomassimo entrato nella leggenda, raccontata da un modestissimo peso welter che però sa scrivere: sono pagine piene di pugni al sacco, ganci, montanti, quelle dedicate da Mauro Garofalo, nel suo primo romanzo Alla fine di ogni cosa, a Johann Trollmann detto Rukeli («albero» in lingua sinti), lo zingaro tedesco che negli anni Trenta diventò, solo per qualche giorno, campione di Germania. Prima che il nazismo gli togliesse il titolo, e poi tutto il resto.
Trollmann viveva in un campo lungo il fiume, fuori Hannover, e boxava in una palestra malandata, ma danzando sulle gambe come avrebbe fatto, trent’anni dopo, Muhammad Ali. Fu scoperto dall’intuito di un allenatore alla fine degli anni Venti: per Rukeli, il «campione Gipsy», si spalancò una carriera strabiliante, grazie a colpi così rapidi che nessuno riusciva a vederli.
Si trasferì a Berlino, perfezionò la tecnica, mandò al tappeto gli anni fino al 1933, mentre attorno a lui cresceva il nazismo. Garofalo intreccia le vicende del pugile e quelle della Germania: l’ascesa di Hitler, la comparsa di SA e SS, il rogo del Reichstag, le persecuzioni razziali. Fino al giorno in cui il pugile ballerino, ammirato dalle donne per la sua bellezza esotica e dagli appassionati per lo stile unico, diventa il diverso, qualcuno di temuto.
Nel giugno 1933 Gipsy combatte per il titolo in un ring circondato da uniformi nere. Ha di fronte Adolf Witt, prototipo del nuovo stile di pugilato imposto dal nazismo per esaltare il modello ariano, bieca resistenza ai colpi, gioco di gambe vietato. Johann come al solito combatte danzando: vince ai punti. I giudici vorrebbero che l’incontro finisca pari, perché Johann non ha onorato le regole del nuovo pugilato. Il pubblico però grida all’unisono: «Ru-ke-li». Gli daranno il titolo dei mediomassimi, ma solo per zittire la protesta. Pochi giorni dopo, con una lettera, glielo tolgono: ha «boxato male». La federazione organizza subito un nuovo combattimento, con Gustav Eder, martellatore del nuovo stile di boxe. Trollmann sa che stavolta non potrà muoversi dal centro del ring. E che perderà: «Era questo morire. Essere costretti a essere ciò che non si era». Lui riuscirà però a mostrare la sostanza del vuoto attorno a sé. Al cospetto dei gerarchi alla Bockbrauerei di Berlino, si presenta al match con i capelli dipinti di giallo e lisciati all’indietro, il volto bianco, cosparso di farina. Gelo sugli spalti. Non potendo ballare, si farà schiantare da Eder. Il vero avversario, il nazionalsocialismo, è però lì, stanato.
Una storia incredibile come questa incontra, prima o poi, chi la sente come se fosse una voce interiore. Qui entra in gioco Mauro Garofalo: pugile dilettante, giornalista e insegnante al Centro sperimentale di cinematografia a Milano, 41 anni vissuti quasi sempre in giro per l’Italia, è come se fosse rinato dopo aver scoperto Rukeli. La faccia poco da pugile, due figli piccoli, minuto, seduto a un bar milanese, lo scrittore mi dirà subito, parlando di sé, qualcosa che illumina anche un passaggio del libro. Le parole dell’autore, e quindi il collegamento, le svelerò alla fine. Il passaggio, invece, è questo: durante un combattimento. Trollmann ha una visione. Un cervo, dietro un albero ghiacciato, nel silenzio invernale. Tenete a mente il freddo.
«A parlarmi per primo di Trollmann è stato, nel 2012, un catalano con cui avevo appena finito di boxare in palestra. Mi affascinò il tentativo di combattere contro la propria ombra. Per i pugili, è il nemico peggiore. È dare colpi all’aria: non si prende niente. Tenere in vita la memoria di Trollmann sembrava la strada per scrivere di quello che ci portiamo così in fondo da non riuscire a vincerlo. Ero attratto dal fatto che lui avesse sacrificato tutto, per seguire un sogno».
Dopo la sconfitta con Eder, nel 1933 il nazismo toglie a Trollmann la licenza per combattere. Farà il fornaio, senza rinunciare alla boxe: continuerà a dar pugni negli scantinati, alle sagre, per due soldi. Si sposerà, con Olga; avrà una figlia, Rita.
Non esistendo più il pugile, il potere se la prende con lo zingaro. Sono gli anni delle leggi razziali, dei campi sinti distrutti. Trollmann potrebbe scappare, ma resterà lì, davanti al turbine in arrivo. La boxe, Berlino erano la sua vita: è il sacrificio totale di cui parla Garofalo.
Nel 1938 Himmler emana la legge per cui gli zingari sono «razza degenerata», e dà l’avvio a una campagna di sterilizzazione. Per salvare figlia e moglie, Rukeli costringe lei al divorzio. Getta i guantoni nel fiume.
Viene spedito a combattere: ferito, i nazisti lo giudicheranno inadatto alla Wehrmacht. Lo arrestano, lo rinchiudono nel campo di concentramento di Neuengamme. Gli danno un numero, il 9841, tra i compagni di prigionia Sergej Nabokov, fratello dello scrittore Vladimir autore di Lolita, e Fritz Pfeffer, uno degli inquilini di Anna Frank.
Rukeli diventerà anche un altro numero, di una somma mai contata fino in fondo, ma che si avvicina al mezzo milione: sono gli zingari la cui esistenza fu cancellata dal nazismo. Il nome che descrive lo sterminio. Porrajmos, in sinti «divoramento». Quel vuoto che divora. A esso, e alla vicenda del pugile sinti, è dedicato un altro libro in uscita, Razza di zingaro (Chiarelettere), scritto da Dario Fo.
La Germania riconobbe per prima, solo nel 1980, il loro sacrificio, che ora trova un posto accanto a quello degli ebrei, nel Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Nel 2003 il titolo fu restituito a Trollmann, la sua cintura da campione offerta alla figlia Rita, oggi ottantenne, e al pronipote Manuel, che si occupa dell’eredità morale del pugile.
«Ho cercato anch’io, e per tutta la vita, di riempire un vuoto, e ho finito per prenderlo a pugni», dice Garofalo. «Ma ci vogliono cinquemila diretti, prima di tirarne bene uno. Ho provato, a testa bassa, molte cose: il giornalismo, la musica, altri lavori, sempre da solo. Quando ho scoperto la storia di Trollmann, ho sentito un richiamo. Nel 2013 sono stato per mesi a Berlino, sulle sue tracce: cercavo strade, palestre, le atmosfere di allora. Niente, la sua voce non arrivava. Ho poi voluto andare a Hannover, per incontrare chi gestisce l’associazione che si occupa della memoria di Trollmann. Il treno si bloccò, i fiumi erano straripati. Immobilizzato, mi sentivo vittima del mio errore. Ero partito inseguendo la storia dello zingaro, degli zingari, del “caso”. Tornato a Milano, la voce non si faceva ancora sentire. Finché non capii che cercavo qualcosa di più semplice, e vicino a me. La storia di Johann, di un uomo, e della materia di cui sono fatti i sogni».
Gli ultimi giorni di Rukeli sono nel campo. Scava fosse, tira pugni – l’hanno riconosciuto – con sempre meno chili addosso. Non svelo il finale: persino la Storia ha perduto le sue ultime tracce. Nel libro torna però la visione del cervo: il kapò un giorno trascina Rukeli nella neve. Lo zingaro avverte «un movimento tra gli alberi congelati... un cervo poggiò lo zoccolo su un ramo, lo spezzò...». Di nuovo il gelo. Johann ha 36 anni.
Garofalo, all’inizio della chiacchierata, mentre io accennavo al Capodanno in arrivo come a un rito quasi fastidioso, mi aveva interrotto: «Quando avevo tre anni, il 31 dicembre, mio padre uscì la mattina presto per andare al lavoro, e morì, scivolando con l’auto su una lastra di ghiaccio. Dovetti cominciare presto a cercare un modo per riempirlo, il vuoto».