Carlo Puca, Panorama 14/01/2016, 14 gennaio 2016
LA MALEDIZIONE DI VIVERE A LAMPEDUSA
Piange Marco. Urla il suo tormento con tutta la disperazione di un’età fragilissima. Ha sette giorni di vita e soltanto la madre può alleviarne le pene. Così è: in un istante delicato, Anna lo avvolge al seno per nutrirlo con il corpo affaticato. Benedetta donna, avrebbe avuto ancora bisogno di riposare. Invece eccola qui, pallida e sfinita, su una grigia panchina dell’aeroporto di Palermo. Ma non è né matta né incosciente. Sta semplicemente tornando a casa, a Lampedusa. E deve farlo per forza oggi: è questione di buona educazione.
Il mare è ribelle, la nave non parte. Per rientrare resta soltanto il cielo, peraltro plumbeo e ventoso. Perciò nonna Carmela prega: vuole garantirsi una raccomandazione con il Padreterno. «Signora, perdoni l’invadenza, forse sua figlia doveva aspettare ancora qualche giorno per mettersi in viaggio». Carmela prima pondera e poi sentenzia: «Sì, però eravamo ospiti, rimanere troppo non stava bene», sarebbe risultato sconveniente, «e nuatri, a Lampedusa, accussì semu fatti». Sono fatti così, a Lampedusa, capitale (in)visibile del Mediterraneo che diventa visibile soltanto in tempo di crisi: si arrangiano con dignità anche nelle situazioni estreme. E siccome sull’isola manca un punto nascite, e per le partorienti è previsto appena il rimborso del viaggio, per garantire a Marco un’assistenza sanitaria decente e a basso costo, la sua famiglia ha dovuto stabilirsi a Palermo tre settimane prima del parto, appoggiarsi a casa di amici e poi lasciarla repentinamente perché, appunto, «non stava bene». Almeno questo fagotto con gli occhi lunghi e neri è anagraficamente siciliano.
A pochi è garantito lo stesso privilegio. I lampedusani nascono ovunque ci sia una comunità di emigranti: Ancona, Anzio, Milano, Torino. E i parti sono tanti, basti pensare che su 6.500 residenti invernali (d’estate diventano 20 mila), 1.200 sono in età scolare. Ciononostante, l’ultimo bambino nativo dell’isola si chiama Giacomo. Ventisei anni fa il suo arrivo lo festeggiarono tutti. Poi non c’è stata più occasione: da allora sono nati soltanto due figli di migranti.
Ma tant’è. La traversata è tribolata, la corrente tormenta un fianco dell’aereo, per fortuna a tenerlo saldo ci sono Carmela e il suo Dio. Ma quando l’isola spunta dietro un rosso tramonto invernale, invita alle emozioni. Dopo l’atterraggio anche di più. Per Mario, il proprietario dell’hotel Sole, la storia di Marco è ordinaria, inaspettato arriva invece il rilancio: «Se è per questo, qui è difficile pure morire». E cioè? La risposta è una sosta davanti a un manifesto funebre.
In coda c’è scritto: «I funerali verranno celebrati con l’arrivo della nave». Anche se sono stati appena inaugurati due nuovi ambulatori specialistici, da Lampedusa vanno generalmente a curarsi in Sicilia a spese proprie. E quando il sonno eterno si palesa improvviso, al defunto la famiglia deve pagare il viaggio di ritorno e pure la sosta nella camera mortuaria. Capita infatti di dover attendere giorni per ottenere una degna sepoltura. «Nove mesi l’anno l’aereo è troppo angusto per trasportare le bare», spiega Mario. Resta solo il traghetto. Che, quando il mare è grosso, resta fermo anche settimane a Porto Empedocle. Ma quando la nave arriva, lo sanno tutti. Una volta, per annunciarla, suonavano le campane della chiesa, in tempo di internet basta e avanzano i social network. Perciò i funerali sono sempre molto affollati. Anche quelli dei migranti morti tra le onde del Mediterraneo, il cimitero più vasto del pianeta.
FOSSE COMUNI
Più modesto nelle dimensioni, in quello di Lampedusa convivono anime di tutti i colori del mondo. «Stimola un intreccio di stati d’animo nel quale mi sto perdendo», mormora Alice, volontaria partita da Torino per tentare di salvare i vivi. Ora, però, prega per i morti e la commozione più forte la manifesta davanti alle fosse comuni degli annegati arabi e neri, privi di foto, identità e ricordi. I fiori, quelli no, non mancano mai, c’è sempre qualche isolano a donarli.
Ecco, più dei pescatori a caccia di persone nelle onde, più delle donne che asciugano migliaia di disperati, più dei bambini che donano i loro giocattoli ai figli dell’Africa; più di tutto quanto messo assieme, la fotografia esatta della Lampedusa che avrebbe meritato il Nobel della Pace è questo camposanto disordinato, malinconico e profumato. Il camposanto della solidarietà.
La beffa del Premio mancato è arrivata per i particolari meccanismi che pilotano il Nobel. Però ancora e sempre lo meriterebbe, Lampedusa, pure ora che i fari sono tutti puntati su Grecia, Svezia e Germania. Soltanto nei giorni di Natale sull’isola sono arrivati circa mille migranti; di questi, trecento si sono schiantati con il loro barcone sulla costa di Linosa, frazione di Lampedusa e minore delle Pelagie. Per capirci: Linosa conta trecento abitanti stabili, a Natale i migranti hanno pareggiato i residenti.
SOLDI E MIGRANTI
«Già me li immagino i giornali e i tg della primavera 2016. Titoleranno: riprendono gli sbarchi, emergenza a Lampedusa. Ma qui gli sbarchi non conoscono sosta, mai. E l’emergenza mediatica dura il tempo della morte di qualcuno» ironizza caustica Francesca, che lavora al Bar del Porto e nel tempo libero fa pure lei la volontaria, come molti coetanei sotto i 40 anni d’età. Volontaria a titolo gratuito, sia chiaro, perché su questo pezzo d’Italia (in)visibile corrono molte leggende. C’è una parte di opinione pubblica nazionale convinta che grazie agli immigrati Lampedusa si sia arricchita.
Ma degli svariati milioni di euro spesi (impossibili quantificarli) poco o nulla è toccato ai residenti. Tanto è vero che, nonostante le poche decine di unità impegnate nell’accoglienza, il tasso di disoccupazione continua a galleggiare intorno al 22 per cento. I soldi, infatti, sono finiti principalmente ai militari che governano l’hotspot o nelle tasche delle associazioni non-profit piombate sull’isola dopo la grande crisi del 2011. Va da sé: trattasi di associazioni internazionali, non locali, tuffatesi sul business di un emergenza che notoriamente costa allo Stato dai 35 ai 40 euro al giorno per profugo. Ed ecco perché a Lampedusa ce l’hanno con lo Stato e non con i profughi.
Vito Mannino, per esempio, abita al confine con il Centro d’accoglienza. Indica un dettaglio buono a spiegare perché con i denari attribuiti a Lampedusa i lampedusani c’entrano poco: un tubo, un semplice tubo fognario, che serve il Centro per gli immigrati ma non casa sua «perché hanno pensato soltanto al Cie, a noi no: eppure bastava una deviazione di cinque metri». È un disinteresse, quello statale, che si palesa con mezz’ora di pioggia abbondante, trenta minuti che allagano le strade; insomma, qui le fogne hanno un funzionamento perlomeno incerto. Inoltre, l’acqua diventerà potabile con il completamento dell’impianto di desalinizzazione, e pure quando sarà pronto bisognerà fare i conti con condotte idriche obsolete. Gli edifici scolastici sono come sono (sotto la sufficienza) e, cosa più grave, gli insegnanti cambiano di continuo: quando va bene, restano un anno, accumulano punteggio utile per la carriera e se ne vanno. La benzina è la più cara d’Italia. Elettricità e gas costano un terzo in più rispetto a Palermo. Per comprare qualsiasi cosa bisogna calcolare un 25 per cento di spesa ulteriore per la spedizione.
Per intenderci, Amazon consegna fino ad Agrigento, il resto del viaggio va pagato a un monopolio che puzza di mafia. La prova è che il 2 dicembre 2015 la presunta «Nuova Cupola» di Agrigento (13 persone, compreso un basista lampedusano) è finita in manette, scrive la Squadra mobile, anche «per aver condizionato il trasporto da e per Lampedusa». Insomma, per ragioni endogene ed esogene la vita sull’isola costa cara, a fronte di servizi insufficienti. Giuseppe Mercurio, un vecchio pescatore, la mette così: «A Roma si riempiono la bocca per aver risolto il problema di Lampedusa. Forse stanno risolvendo il problema degli immigrati: noi italiani non esistiamo». O quasi. Ma solo perché a tampinare il governo è il sindaco Giusi Nicolini.
Non è facile incontrare Giusi (non è una confidenza eccessiva, qui quasi tutti si chiamano per nome). Da tre anni e mezzo guida un Comune di seimila abitanti che vale quanto una capitale. Alla fine l’appuntamento lo fissa Maurizio, più noto come Maurizietto. È un folletto buono e vivace, un poeta inconsapevole. Alla domanda «che cos’è Lampedusa?» risponde inquieto: «Per noi è il mondo intero. Per il resto del mondo è un luogo di passa», un luogo di passaggio. «Qui passano tutti: balene, uccelli, uomini. Resta solo chi tra loro muore».
BRITISH MUSEUM
Maurizietto sta organizzando per il sindaco una pizzata, una cena a base di pizza. Nel frattempo diventa il Cicerone di luoghi ameni e formidabili: la Spiaggia dei conigli, le Grottacce, Cala Pulcino. E poi fa cose e vede gente. Come Andrea (il nome è di fantasia, tra un attimo si capirà perché), un sottoufficiale di Marina di turno il 3 ottobre 2013, la notte della più grande sciagura dei migranti finora conosciuta: provocò 386 vittime e svelò definitivamente la solitudine di Lampedusa. Da allora Andrea non ha più voluto andare in mare «nemmeno con gli amici». Ora si limita a operare da terra, il suo comando ha fatto uno strappo alla regola e i commilitoni approvano.
Franco Tuccio è invece il falegnameartista che ha realizzato «La Croce di Lampedusa» con i rottami della nave affondata. Ecco, il 23 dicembre 2015 l’opera è stata acquisita dal British Museum di Londra. Tuccio è uomo semplice e religioso, racconta del suo incontro con Papa Francesco («Ha lo stesso sguardo di Dio»), che l’8 luglio 2013 impose proprio quella Croce su Lampedusa. A domanda precisa («Qualcuno in Italia te l’ha chiesta? Un museo, una galleria, una sovrintendenza?») il falegname, imbarazzato, pronuncia una parola semplice: «No». Maurizietto è veloce: «Meglio così, Franco: futtitenne». Fregatene.
Ora è il tempo della pizzata. Gente e argomenti sono interessanti, sembra di vivere in un film di Ferzan Ozpetek, dibattito compreso, con lunghe punte di allegria e qualche malinconia. È inevitabile: tutti hanno foto, video e racconti drammatici sui migranti. Il più forte è proprio di Giusi, riguarda una bimba di cinque mesi arrivata ustionata e orfana. Ma quando la narrazione si fa troppo dolorosa, la discussione si sposta su Lampedusa e le sue criticità.
«La pesca è in crisi, il turismo tira una stagione l’anno e l’immigrazione dura tutto l’anno» esordisce la sindaca «ma l’origine dei problemi, alcuni dei quali giganteschi, è molto chiara: qui un piano strutturale non c’è mai stato, ci si è sempre accontentati di interventi spot, peraltro segnati da fenomeni corruttivi e speculativi, che ancora tentano di resistere, soprattutto sull’edilizia. Io ho imposto altre scelte, quella dell’onestà e della programmazione». E se sull’onestà la svolta è evidente, i maggiori problemi arrivano dalla programmazione. «La mia più grande battaglia è per il nuovo Piano regolatore, siamo all’ultimo miglio, molto dipende da questo. Poi, certo, nonostante la singolarità di Lampedusa, burocrazia e tasse restano le stesse dell’Italia normale, anzi del Sud Italia anomalo, con l’aggravante delle distanze e dell’immigrazione». In assenza di uno Stato regolatore e compassionevole, per la capitale del Mediterraneo (altro che isola minore...) le distanze significano anche tariffe ultra-maggiorate su merci ed energia. «Qui la benzina, per esempio, costa anche due euro al litro ma le spese di trasporto incidono appena per 5 centesimi. La verità è che in Sicilia operano monopoli che determinano i nostri prezzi. Ora, però, ho ottenuto una seconda nave di linea. Mi auguro che serva a calmierare le tariffe, anche se a monte servirebbero controlli severi. Noi siamo soltanto la valle lontana 205 chilometri dall’Italia...».
Una valle, però, ambita da migliaia di migranti. «Ventiduemila soltanto nel 2015. Però ne sono stati ricollocati appena qualche decina: è chiaro che c’è qualcosa che non funziona e il governo non intende renderne conto, non ci ascolta. L’hotspot doveva essere sperimentale e sperimentale vuole dire che si vede come va e che se ci sono problemi si trovano soluzioni. Non mi pare stia accadendo questo». Questo e molto altro, per la verità: i migranti partono, l’Italia esita, l’Unione europea dà il peggio di sé. E Lampedusa l’(in)visibile soffre.