Charles C. Mann, National Geographic 1/2016, 14 gennaio 2016
IL BOOM DELLA GOMMA
È una bella giornata, tutta la Thailandia settentrionale palpita sotto il sole primaverile, così porti il tuo nuovo furgoncino Isuzu al torrente che scorre vicino al villaggio, Tung Nha Noi. Mucche e persone ti passano accanto mentre stai in piedi nell’acqua. Hai 21 anni e un pick-up nuovo di zecca e lo lucidi così bene da farlo brillare come uno specchio.
Fino a non molto tempo fa le possibilità che uno come Piyawot Anurakbranpot – “Chin” per gli amici – potesse permettersi un’auto simile a quest’età erano pressoché nulle. Gli abitanti di villaggi remoti come Tung Nha Noi non avevano soldi. Di recente, però, famiglie come quella di
Chin si sono arricchite e il motivo della nuova prosperità è ben visibile sulle colline alle sue spalle. Dieci anni fa quelle alture erano coperte da una fitta foresta tropicale, un generoso groviglio di vegetazione locale. Oggi la maggior parte dei pendii è stata spogliata di tutta la vegetazione e ripiantata con un’unica specie, Hevea brasiliensis. Notte dopo notte, la famiglia di Chin e decine di migliaia di altre in tutto il Sud-Est asiatico raggiungono le piantagioni e incidono gli alberi per raccogliere il lattice, come si fa con la linfa zuccherina dell’acero. Il denso lattice bianco gocciola nei secchi. La sostanza appiccicosa viene fatta solidificare in blocchi, poi pressati in fogli e trasportati nelle fabbriche, dove vengono lavorati per ricavarne guarnizioni meccaniche, cinghie, materiali isolanti e copertoni per auto, tantissimi copertoni. Quasi tre quarti della gomma raccolta nel mondo vengono utilizzati per fabbricare pneumatici per auto, camion e aerei, quasi due miliardi all’anno.
Da oltre 150 anni la gomma ha un ruolo per lo più nascosto nella storia politica e ambientale globale. Volete una rivoluzione industriale? Allora avete bisogno di tre materiali grezzi: il ferro, da cui ricavare l’acciaio per i macchinari, i combustibili fossili per farli funzionare e la gomma per unire e proteggere tutte le parti mobili. Provate a far andare un’automobile senza la cinghia della ventola o senza il tubo del radiatore; la vostra corsa finirà malamente in pochi minuti. Volete mandare il refrigerante nel motore usando un tubo di metallo rigido invece di uno di gomma flessibile? Poi spiegateci come si fa a impedire che vada in pezzi.
Se mai pensa alla gomma, gran parte delle persone crede si tratti di un prodotto di sintesi. In realtà più del 40 percento della gomma in uso nel mondo viene dagli alberi, quasi tutti Hevea brasiliensis. Rispetto alla gomma naturale, quella sintetica di solito ha costi di produzione minori ma è più debole, meno flessibile e meno resistente alle vibrazioni. Per gli oggetti che non devono rompersi in alcun modo, dai profilattici ai guanti da chirurgo, alle ruote di un aereo, la gomma naturale è da tempo la scelta d’obbligo.
Ferro e combustibili fossili si trovano in diverse parti del mondo. Gli alberi della gomma, invece, sono coltivati quasi esclusivamente nel Sud-Est asiatico, per via della combinazione unica di clima e infrastrutture favorevoli. Malgrado gli alti e bassi dell’economia mondiale, la domanda di pneumatici continua a crescere e ciò ha provocato in quell’area qualcosa di analogo alla corsa all’oro.
Per milioni di persone che vivono in questa zona povera del mondo il boom della gomma ha significato un’improvvisa ricchezza. Chin non è il solo, a Tunh Nha Noi, ad avere un nuovo pick-up. La gomma ha anche messo fine all’isolamento della regione. Le cosiddette “autostrade della gomma”, tutte nuove, l’ultima completata nel 2013, collegano le piantagioni del Sud-Est asiatico, un tempo isolate, alle fabbriche di copertoni in Cina. Ma il commercio della gomma non ha conseguenze solo economiche. Le legioni di Chin del Sud-Est asiatico hanno messo in moto quella che Jefferson Fox, dell’East-West Center delle Hawaii, definisce «una delle più grandi e veloci trasformazioni ecologiche della storia umana». In Cina, Vietnam, Laos, Thailandia, Cambogia e Myanmar i contadini hanno tagliato o bruciato le foreste per piantare filari e filari di H. brasiliensis. Stanno così trasformando uno degli ecosistemi più variati del mondo in una monocoltura che costituisce una potenziale minaccia per le funzioni ecologiche basilari di un’area abitata da decine di milioni di persone. Ciascuna delle ruote del pick-up di Chin è come un pezzetto di foresta tropicale disboscato e compresso in un cerchio nero lucente. Lo stesso vale per le gomme della mia e della vostra auto.
Le monocolture sono tanto produttive quanto vulnerabili. Provate a chiederlo a Henry Ford. Grandissimo industriale, maniaco del controllo, uomo brillante ma poco istruito, Ford usava il ferro delle sue miniere di ferro e carbone, l’elettricità delle sue centrali, il legno dei suoi boschi. Il suo River Rouge, il complesso industriale vicino a Dearborn, in Michigan, includeva un porto, una fonderia di acciaio (la più grande del mondo all’epoca) e oltre 150 chilometri di rete ferroviaria interna. Tutti i materiali di cui aveva bisogno per fabbricare automobili venivano prodotti a River Rouge tranne uno: la gomma.
Nel 1927 Ford acquistò circa 10.400 chilometri quadrati di terra nel bacino dell’Amazzonia, il luogo d’origine di H. brasiliensis. Le popolazioni indigene usavano la gomma da secoli per rendere impermeabili i loro vestiti e fabbricare rudimentali stivali. All’inizio dell’Ottocento i nativi americani del Nord compravano la gomma dai loro vicini del Sud per fabbricare oggetti analoghi. Queste prime creazioni di gomma, tuttavia, si scioglievano con il caldo d’estate e perdevano flessibilità con il freddo. Solo nel 1840, dopo la scoperta del processo di vulcanizzazione da parte dell’inventore dilettante Charles Goodyear, la gomma poté essere adattata a molti usi diversi. La scoperta di Goodyear aprì la strada a una marea di invenzioni.
Quando si capì che la gomma era una merce di valore gli esploratori cominciarono ad andare nella foresta amazzonica in cerca degli alberi che producevano il prezioso lattice. La regione si riempì di centri abitati nati da un giorno all’altro, come Manaus, il più importante. In questa città brasiliana circondata dalla foresta i baroni della gomma abitavano in enormi magioni, andavano in giro accompagnati dalle amanti coperte di gioielli e costruirono un teatro dell’opera decorato con marmi provenienti dall’Italia.
I governi dell’Europa e dell’America del Nord non gradivano l’idea di dipendere da un prodotto proveniente da un paese che non era sotto il loro controllo politico. I dirigenti dei Kew Gardens di Londra pensarono quindi di pagare qualcuno che contrabbandasse i semi dell’albero della gomma dall’Amazzonia. Fu così che entrò in scena Henry Alexander Wickman, un uomo che i brasiliani odiano ancora oggi.
Nato nel 1846, Wickham era un imprenditore con ambizioni grandi come la sua incapacità di realizzarle. Nel 1870 lui e la moglie cercavano con fatica di avviare una piantagione di tabacco e zucchero nei pressi di Santarém, una cittadina sul basso corso del Rio delle Amazzoni. Dopo essere stato contattato dai Kew Gardens, Wickham si procurò oltre mezza tonnellata di semi di Hevea brasiliensis e li caricò su una nave diretta a Londra. Le autorità britanniche rimasero di stucco quando l’uomo si presentò in Inghilterra chiedendo di essere pagato per ciascuno dei 70 mila semi che aveva portato fin lì. Alla fine i germogli spuntati da quei semi furono trasportati nelle colonie britanniche, francesi e olandesi in Asia. La foresta equatoriale fu invasa da aspiranti magnati della gomma armati di accette per disboscarla. Già nel 1910 in Asia crescevano oltre 50 milioni di alberi originari dell’America del Sud. L’anno dopo, quando il mercato fu invaso dalla gomma asiatica, i prezzi in Brasile crollarono. Con sorpresa e rabbia di tutto il paese, l’industria straordinariamente redditizia implose nel giro di alcuni mesi.
Nei decenni successivi, Hevea brasiliensis si diffuse in gran parte di quelle che oggi sono la Malaysia, l’Indonesia e le regioni meridionali di Thailandia, Cambogia, Vietnam e Myanmar; il Sud-Est asiatico diventò il centro della produzione della gomma. I proprietari delle piantagioni, improvvisamente ricchi, si affrettarono a comprare beni immobili a Singapore.
Wickham morì nel 1928. Un anno prima Henry Ford aveva ottenuto le sue terre sul fiume Tapajós, nel tratto inferiore del bacino dell’Amazzonia. Ford non sopportava l’idea di dipendere dalla gomma asiatica, così decise di crearsi una propria fornitura. Migliaia di operai costruirono una nuova città in stile Midwest americano in mezzo alla foresta tropicale: file di casette rivestite con assi di legno, qualche chiesa battista e una strada con botteghe di fornai, ristoranti, sarti, calzolai e cinema. A Fordlandia, come il progetto fu subito battezzato, c’era l’unico campo da golf a 18 buche di tutta l’Amazzonia. Le dimensioni erano grandiose: la città poteva accogliere centinaia di migliaia di persone. Ford spese circa 20 milioni di dollari per costruirla, l’equivalente di 300 milioni di dollari di oggi.
L’impresa, però, fu un completo disastro. Incredibile a dirsi, la società di Ford avviò una piantagione grande la metà del New Jersey senza consultare nessuno che sapesse come coltivare Hevea brasiliensis. Tanto per cominciare, il terreno non era adatto per una coltivazione su vasta scala: il suolo era troppo sabbioso e le precipitazioni troppo stagionali. Se sul luogo ci fosse stato un botanico, Ford avrebbe scoperto che c’è un buon motivo per cui allo stato selvatico gli alberi della gomma crescono sempre a una certa distanza gli uni dagli altri: sono troppo vulnerabili alla “ruggine delle foglie”, provocata da un fungo.
Per Microcyclus ulei gli alberi della gomma sono un po’ come le rane per gli eserciti di formiche: rappresentano un ottimo pasto. Il fungo “non uccide le piante immediatamente”, spiega lo storico Greg Gradin nel suo libro Fordlandia, ma le sue spore scavano gallerie nelle foglie, mangiandone le sostanze nutrienti fino a farle cadere. Quando le foglie ricrescono il fungo le attacca di nuovo; l’albero, scrive Grandin, “diventa sempre più debole e produce germogli rachitici o muore del tutto”.
La battaglia è silenziosa, lunga, e per l’albero è quasi inevitabilmente fatale. In natura le spore di Microcyclus ulei non si diffondono facilmente da un albero all’altro perché questi sono molto distanziati tra loro. In una piantagione gli alberi sono uno accanto all’altro, come pietanze su un buffet, e il fungo ha quindi modo di saltare da un piatto all’altro facilmente. Nel creare la sua piantagione di Hevea brasiliensis, in pratica, Ford aveva speso una somma enorme per realizzare una gigantesca incubatrice per il vorace parassita.
Nel 1935, in pochi mesi, gli alberi della gomma di Fordlandia rimasero senza foglie: fu una catastrofe ambientale ed economica. Dieci anni dopo Ford rivendette a poco prezzo e senza troppo clamore le sue terre in Amazzonia. Sono passati settant’anni, e ogni tentativo di creare una piantagione di alberi della gomma in America centrale o del Sud è fallito. Il fungo ha sempre la meglio.
Attraversando in auto la periferia di So Phisai, in Thailandia, si ha l’impressione di essere in un salone per manicure. L’odore prevalente è quello dell’acido formico, la sostanza utilizzata per far coagulare il lattice dell’albero della gomma. Quasi tutte le case hanno un tetto nuovo con la parabola per la TV satellitare. L’odore dell’acido formico è anche l’odore dei soldi. In molti a So Phisai vorrebbero essere come Sommai Kaewmanee. Figlio di immigrati poveri, nel 1992 Kaewmanee si fece prestare il denaro per piantare i primi alberi della gomma della zona. All’epoca, mi ha raccontato, a So Phisai tutti coltivavano la manioca, guadagnando una miseria. I giovani erano costretti a trasferirsi a Bangkok per trovare un lavoro decente. Con i soldi avuti in prestito Kaewmanee piantò circa 1.500 alberi in tre ettari di terreno e convinse altri tre contadini.
Durante la mia visita a So Phisai, Kaewmanee mi ha mostrato i libri contabili della sua attività. Se quelle cifre fossero state riportate in un grafico, avrebbero seguito lo stesso andamento delle vendite internazionali di automobili: una linea ondulata ma inesorabilmente puntata verso l’alto. Con i lenti ma costanti profitti ricavati dalla gomma, Kaewmanee ha comprato una casa nuova, un’elegante auto 4x4 e i gadget elettronici con cui i suoi figli, tornati a casa da scuola, giocavano in quel momento. Kaewmanee è diventato supervisore agricolo del suo distretto, nel quale il 90 per cento dei contadini coltiva Hevea brasiliensis. Oggi l’uomo possiede 75 mila alberi e una serra che gli consente di vendere un milione di semi l’anno. Intorno a So Phisai, mi ha detto, c’è ancora terra disponibile pronta a essere trasformata in pneumatici.
Senza saperlo, Sommai Kaewmanee deve la sua casa e la sua automobile agli scienziati cinesi. Quando furono introdotti nel Sud-Est asiatico, gli alberi della gomma potevano crescere solo nelle foreste equatoriali calde e umide di paesi come l’Indonesia, la Malesia e le punte meridionali di Thailandia, Cambogia, Vietnam e Myanmar, luoghi cioè che somigliavano alla natia Amazzonia.
Durante la guerra di Corea, gli Stati Uniti imposero sanzioni alla Cina riguardo al commercio della gomma. La Cina reagì sviluppando alcune varietà di Hevea brasiliensis che potevano crescere in un clima relativamente freddo come quello del distretto di Xishuangbanna, nella provincia dello Yunnan, al confine con il Laos e il Myanmar. Xishuangbanna rappresenta solo lo 0,2 per cento della superficie territoriale della Cina, ma ospita molte specie presenti nel paese: il 16 per cento della sua flora, il 22 per cento della fauna e il 36 per cento dei volatili. Tutte oggi sono minacciate dall’albero della gomma. Armati delle nuove varietà resistenti al freddo, i soldati cinesi avviarono in questa regione molte piantagioni di proprietà dello Stato. Successivamente, i piccoli contadini riempirono i terreni che erano rimasti liberi. Oggi nel Xishuangbanna si vedono soltanto alberi della gomma a perdita d’occhio.
In genere per fabbricare uno pneumatico è necessario il lattice di quattro alberi raccolto per un mese. Xishuangbanna non è in grado di soddisfare la domanda asiatica di gomma. Incoraggiata con programmi statali, richiesta dalle aziende cinesi, la coltivazione di Hevea brasiliensis si è diffusa in Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam, sostituendo intere fasce di foresta autoctona. La produzione mondiale di gomma naturale è balzata dai quasi 4 milioni di tonnellate del 1983 ai circa 12 milioni di tonnellate di oggi.
Per ottenere simili quantità, i contadini del Sud-Est asiatico hanno disboscato un’area di circa 46 mila chilometri quadrati; più estesa della Svizzera. E la cifra non include le foreste abbattute per far posto ai nuovi impianti di lavorazione, alle case costruite per i nuovi operai e alle strade realizzate per raggiungere le nuove piantagioni.
Negli ultimi anni l’aumento della produzione – combinato a un calo della domanda – ha fatto scendere il prezzo della gomma, ma nessuno pensa che la fase di crescita sia finita. Per effetto del boom un visitatore qualsiasi come me attraversa in auto il Laos settentrionale di notte e vede le colline illuminate dagli incendi provocati dalle famiglie che bruciano macchie di foresta per fare spazio a nuove piantagioni. Per effetto del boom vedi adolescenti thailandesi passarti accanto su motociclette che gemono sotto il peso dei sacchi di plastica pieni di balle di lattice coagulato fatte in casa. Per effetto del boom interi villaggi rurali si svegliano alle due del mattino per incidere gli alberi della gomma, perché il lattice scorre meglio prima dell’alba.
Il boom della gomma è una minaccia che va oltre la perdita della biodiversità. Gli esemplari di Hevea brasiliensis di queste nuove piantagioni discendono dai semi che Henry Wickham trafugò
dal Brasile. Come Henry Ford imparò a sue spese, sono estremamente vulnerabili alla micosi. Già negli anni Ottanta gli scienziati sottolineavano che se una sola spora di Microcyclus ulei avesse raggiunto il Sud-Est asiatico l’era dell’automobile poteva considerarsi finita. “Le possibilità di un disastro economico aumentano con ogni volo intercontinentale che atterra nel Sud-Est asiatico”, ammonivano due ricercatori della Florida A&M University nel 2012. Un rapporto della Fao stilato l’anno prima raccomandava di sottoporre a ispezione tutti i passeggeri diretti nel Sud-Est asiatico che nelle tre settimane precedenti erano stati nella zona dell’America del Sud in cui era presente la micosi. Il provvedimento non è mai stato attuato. Benché gli scienziati brasiliani abbiano scoperto e iniziato a testare varietà di albero della gomma resistenti a Microcyclus ulei, in Asia non è stato varato alcun programma di selettocoltura analogo. Nei miei quattro soggiorni non ho mai incontrato un contadino che pensasse di coltivare una varietà resistente al parassita.
Gli alberi della gomma consumano molta acqua per produrre il lattice. Fabbricare pneumatici è come prendere le acque freatiche delle colline e caricarle sui camion per esportarle. Per questo motivo, dice Xu, i pozzi e i fiumi montani si stanno prosciugando. Per tutta risposta l’industria ha dichiarato che «la gente può bere l’acqua delle bottiglie di plastica», racconta lo studioso. Presto gli alberi della gomma copriranno gran parte del Sud-Est asiatico. In una giornata nebbiosa e molto fredda ho visitato la Riserva naturale di Xishuangbanna. Ero accompagnato da Liu Feng, direttore del dipartimento ricerche della riserva, e da Gerhard Langenberger, esperto di agroecologia dell’Università di Hohenheim, in Germania. Lungo la strada che portava alla riserva, il paesaggio era un alternarsi di piantagioni e tratti di natura selvaggia. Secondo Liu e Langenberger la riserva meritava una visita perché è un esempio di come l’albero della gomma può coesistere con un ecosistema naturale.
A differenza della maggior parte delle aree protette, Nabanhe è piena di persone. All’interno dei suoi 260 chilometri quadrati si trovano 33 villaggi, per un totale di circa 6.000 abitanti. L’area è divisa in tre zone. In quella centrale non è consentita nessuna attività umana, come nelle classiche riserve naturali. Tutt’intorno si trova una zona cuscinetto in cui le persone possono vivere, ma con un accesso limitato alle risorse. Nella zona esterna, sperimentale, la terra può essere coltivata e la gente può piantare gli alberi della gomma ed estrarre il lattice. L’equilibrio è difficile da mantenere, sosteneva Liu. Abbiamo visto alcuni abitanti dei villaggi che estirpavano alberi della gomma piantati illegalmente. I contravventori erano stati denunciati dai loro vicini. La polizia forestale controllava che le piante fossero portate via. Qualche ora dopo ci siamo fermati a bere e mangiare con alcuni agenti. Uno di loro mi ha spiegato che la punizione per quei contadini non era stata severa; voleva soltanto che rispettassero le regole del parco.
Secondo Langenberger, la scienza deve fornire i dati precisi, ma lasciare che siano gli abitanti del posto a decidere come gestire il loro territorio. «Non posso biasimare i contadini», ha detto. «Sono stati poveri troppo a lungo. Oggi possono coltivare una pianta che consente loro l’accesso al mercato globale». Gli scienziati non possono, e non devono, «dire a questa gente di smettere di coltivare gli alberi della gomma», aggiunge. La logica della conservazione è proibire qualsiasi attività umana in nome della tutela dell’importante foresta pluviale. La logica dell’industria vuole che in ogni minimo pezzo di terra sia piantato un albero della gomma. Langenberger spera che sia possibile arrivare a uno stato di tensione produttiva e che la Riserva Nabanhe possa indicarci la via da seguire per far funzionare le cose in questo piccolo angolo del mondo interconnesso.