Roberto Casalini, Prima Comunicazione 12/2015, 14 gennaio 2016
L’ALBA DELLA REPUBBLICA
Nella notte fra il 13 e il 14 gennaio 1976 una dozzina di persone aspettano, nell’ufficio di Eugenio Scalfari in piazza Indipendenza, le prime copie di un quotidiano nuovo di zecca, La Repubblica. Ci sono Carlo Caracciolo, Gianfranco Alessandrini e Lio Rubini del Gruppo L’Espresso. L’avvocato Vittorio Ripa di Meana, amico e consigliere di sempre. I partner di Segrate Giorgio Mondadori e Mario Formenton. Andrea Barbato, vice di Scalfari per pochissimi giorni, che sta andando a dirigere il Tg2. Gianni Rocca, che del fondatore sarà il braccio destro per vent’anni. E poi Mario Pirani e Gianluigi Melega, Sandro Viola e Giorgio Forattini. Quando arrivano le copie il direttore generale Amedeo Massari, un maremmano “massiccio, nerboruto ed estroverso” che, giura Caracciolo, “ha la specialità di galvanizzare l’ambiente” e che cinque anni dopo traslocherà al Giornale, ne prende una bracciata ed esce: va a fare lo strillone tra i rari passanti infreddoliti della notte romana.
Gli altri sono commossi, brindano e si mettono a controllare la prima pagina, ci fosse mai qualche errore da correggere al volo. Cinque titoli, sei firme in vetrina, i pezzi proseguono all’interno. Scalfari intervista Francesco De Martino, ancora per pochi mesi segretario del Psi, Bettino Craxi gli farà le scarpe a luglio, nel congresso del Midas: ‘Carte in tavola, compagno Berlinguer’. Fausto De Luca fa il punto sulla crisi di governo, il Moro quattro a cui succederà un Moro cinque monocolore e pre-elettorale: ‘L’incarico è a Moro ma la sfida è sull’economia’. Edgardo Bartoli racconta la lunga agonia del franchismo: ‘La nuova Spagna scende in piazza contro il regime’. Giorgio Bocca offre una delle sue magistrali inchieste, proseguirà per tre giorni: ‘Innocenti: come si uccide una fabbrica’. Roberto Chiodi e Bruno Corbi consegnano una rivelazione che scotta: ‘Antimafia: un documento segreto’, che documenta i rapporti fra i clan e la Democrazia Cristiana. Sotto la testata campeggia l’editoriale: ‘È vuoto il Palazzo del potere’.
Il Palazzo, il Potere: figure pasoliniane, quelle degli interventi corsari ospitati in prima pagina dal Corriere della Sera di Piero Ottone giusto uno o due anni prima. Il processo alla Dc, la scomparsa delle lucciole: “Oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé”. L’editoriale allude a quegli interventi, si confronta con il Corriere di Ottone, che ha scalfito la coltre conformista delle grandi testate quotidiane e la cui parabola si sta esaurendo (Ottone lascerà via Solferino un anno dopo ed entrerà nel consiglio di amministrazione di Repubblica). Ma, echeggiando Pasolini, lo mette al tempo stesso con i piedi per terra: nessun tono profetico e oracolare, piuttosto la constatazione che “non c’è molto di drammatico in questa crisi di governo nonostante che i protagonisti siano fermamente convinti del contrario. ‘La democrazia va a rotoli senza una guida’ sostengono accorati la Democrazia Cristiana, La Malfa, i sindacati, Agnelli. I giornali italiani mostrano di crederci. Ma via: sono anni che l’economia italiana non la guida nessuno, o meglio la guidano da Mirafiori, da Foro Bonaparte e da alcuni altri ben noti indirizzi fra i quali non è mai apparso palazzo Chigi né alcun altro palazzo del governo”.
I giornali italiani mostrano di crederci – Come a dire: noi non siamo come gli altri. Come a dire: noi siamo un giornale fatto da due editori, L’Espresso e Mondadori, non abbiamo dietro la Fiat e Montedison, l’Eni e le banche, la Confindustria e la Dc veneta, il petroliere Monti e il cementiere Pesenti, il Banco di Napoli e la Sir di Rovelli. La tesi dell’editoriale è semplice, altro che Potere metafisico: con una Dc che tenta di cambiare pelle, incerta fra il vecchio e il nuovo, con un Pci che ha cominciato la marcia di avvicinamento al potere (a fine luglio si asterrà, dando la “non sfiducia” al terzo governo Andreotti) e con un Psi indeciso a tutto, l’economia è nelle mani della Fiat e della Montedison, di Agnelli e di Cefis. Degli interessi particolari, e dei giornali che li veicolano. Dell’accettare le versioni ufficiali e del non disturbare il manovratore. Gianni Agnelli, che è tra l’altro cognato di Carlo Caracciolo e patisce di essere accostato all’Espresso, ha con Scalfari un rapporto – è ancora Caracciolo a riferirlo in una lunga intervista a Nello Ajello (‘L’editore fortunato’: ndr) – “altalenante, su un fondo di reciproca stima”. Verso la fine degli anni Sessanta chiede all’allora direttore dell’Espresso di cessare la campagna sul Sifar e i piani golpisti del generale De Lorenzo, che è arrivata a lambire il Quirinale e mette in imbarazzo la Fiat. Ne riceve un netto e cortese rifiuto: “Troncare quei servizi, o modificare l’opinione del settimanale in materie così cruciali, non mi è consentito. Posso fare di più: dimettermi dalla mia carica. Così smetterei di danneggiarvi e riparerei i danni che vi ho procurato”.
Nel 1974, una nuova inchiesta dell’Espresso sui fondi neri della Montedison (‘Anche Rumor ha preso i soldi’) mette Torino ai ferri corti con la Dc. Da Amintore Fanfani, tramite il fido Franco Maria Malfatti, arriva ad Agnelli l’ultimatum: o Caracciolo cede le quote dell’Espresso a una persona grata allo scudo crociato, o il governo bloccherà l’aumento del prezzo delle automobili.
Agnelli fa pressioni sul cognato, Caracciolo non accetta e separa le sue attività editoriali (la casa editrice tecnica Etas che ha fondato nel 1950, Le Scienze-L’Espresso è cosa a sé) dall’Editoriale Finanziaria, controllata dalla Fiat in cui è socio al 20%. Fallita l’operazione Espresso, Agnelli per sedare la Dc cederà poco dopo, assieme al petroliere Moratti, le sue quote del Corriere della Sera, costringendo l’unica superstite della proprietà originaria, Giulia Maria Crespi, a vendere ai Rizzoli. Scalfari lo attaccherà in un articolo di insolita durezza, ‘L’Avvocato di panna montata’.
Dietro Rizzoli al Corriere c’è la Montedison di Eugenio Cefis, bersaglio privilegiato degli attacchi di Scalfari ai boiardi di Stato (è lui l’incarnazione straripante della ‘razza padrona’, titolo di un libro fortunato che Scalfari ha scritto a quattro mani nel 1974 con Giuseppe Turani), di un management che ricatta la politica e ne è ricattato, incurante delle regole del gioco e propenso alle invasioni di campo. Inutile dire che dietro Cefis c’è la Dc, più esattamente Fanfani. Con Cefis la partita si chiuderà presto, un anno dopo la nascita di Repubblica, quando il dominus di Montedison getterà la spugna per emigrare in Canada.
Il nuovo giornale, dunque, si schiera subito contro le scorrerie dei potentati. “Vogliamo contribuire alla formazione di un Paese attento e partecipe di valori come l’innovazione, l’efficienza, la moralità pubblica, la solidarietà civile e sociale, l’eguaglianza dei punti di partenza, lo stato di diritto, la laicità, la costruzione dell’Europa, il mercato e le regole che disciplinano. Il tutto animato dallo spirito della libertà”. Il vecchio programma liberal-democratico, da Ernesto Rossi al Mondo di Pannunzio passando per L’Espresso.
Il nome stesso del giornale, spiega Scalfari a Prima (n. 23, luglio 1975), è tutt’altro che neutro: “È stato un collega dell’Espresso che mi ha proposto questo titolo perché aveva in mente una vecchia testata comunista che uscì a Roma subito dopo la Liberazione... Ho intenzione di fare un giornale senza alcun legame con nessuno dei partiti o dei gruppi della sinistra, con simpatia verso tutti gli elementi liberali, tra virgolette, che sono presenti in varie formazioni della sinistra, e invece con netta e dichiarata antipatia per tutti gli elementi di clericalismo che pure sono presenti in varie formazioni della sinistra”. Un po’ Alien, un po’ cuculo che depone le uova nei nidi altrui: farsi contaminare da tutti, ma allo stesso tempo invadere tutti. La tattica, lo sappiamo, avrà un successo superiore alle aspettative.
La Repubblica del 14 gennaio 1976 – dei primi anni – è un giornale selettivo: delle notizie, dei punti di vista. Un settimanale che esce tutti giorni, secondo la celebre formula scalfariana: pronto a dare due pagine a una notizia rilevante e a costringere un disastro ferroviario, un’inondazione in quindici righe. Senza sport, ma qualche anno dopo torna indietro e arriva Gianni Brera. Con una sezione spettacoli all’osso, una pagina di articoli (una sola recensione cinematografica, ma la fa Tullio Kezich: avercene) e una di cartellone: i giovani lettori intervistati da Prima (n. 29, febbraio 1976), anche se il nuovo giornale li ha conquistati con la sua attenzione al movimento, alle università e alle caserme, ironizzano su ‘Profondo rosso’ attribuito ad Antonioni e sul trombettista Don Cherry spacciato per chitarrista.
Un giornale senza dorsi locali e con Roma e Milano costrette a coabitare in una pagina, ‘Le capitali d’Italia’, sopra il Nord e sotto la Città Eterna: ma con pezzi insoliti per i giornali tradizionali, per esempio in cronaca milanese una mappa dettagliata dei bar “dove si nascondono i picchiatori fascisti”. Una “cronaca politicizzata. Non politica: politicizzata”, dice ancora Scalfari.
In compenso c’è un sontuoso paginone centrale di cultura che fa piazza pulita di terze pagine ed elzeviri. Nelle intenzioni di Scalfari lo avrebbe dovuto dirigere Cesare Garboli, lo cura invece Rosellina Balbi e da subito fa scintille: Alberto Arbasino che intervista Bernardo Bertolucci su ‘Novecento’, Vittorio Strada e Giuliano Briganti, Alfredo Giuliani ed Enzo Forcella, soltanto nei primi giorni.
Fa scintille anche l’economia. Mario Pirani che la dirige promette (Prima n. 26, novembre 1975): “Ci proponiamo non solo di informare sui grandi avvenimenti ma anche di ‘raccontare’ il retroscena dei fatti, di fare emergere i personaggi e la loro storia, di portare nel giornalista economico la passione del cronista. Analogo approccio avremo per i fatti sindacali, le vertenze, la vita interna delle organizzazioni dei lavoratori, che troveranno nel nostro giornale non solo spazio ma partecipe e continua attenzione... Sul piano economico questo si tradurrà in una linea di difesa dell’imprenditorialità contro il parassitismo e la rendita, della funzione unitaria del sindacato contro le spinte corporative, dello spazio dell’industria privata contro gli aspetti degenerativi dell’economia pubblica”.
Il patto fra i produttori, insomma. Sul primo numero, a sottolineare la potenza di fuoco del giornale, c’è un intervento a tutta pagina del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi: ‘È possibile conciliare le richieste sindacali con l’equilibrio dei conti con l’estero?’. Particolare curioso: è molto attivo come redattore di economia Claudio Risé, che qualche anno prima ha presentato i Moratti a Giulia Maria Crespi puntando a entrare nel consiglio di amministrazione del Corriere, e qualche anno dopo diventerà psicoanalista junghiano e teorico del maschio selvatico.
Un quotidiano di seconda lettura, questa Repubblica degli esordi, che punta a una diffusione di 150mila copie. I soci Espresso e Mondadori ci hanno investito 5 miliardi di lire, con la speranza di aprire a nuovi soci e l’obiettivo di arrivare a pareggio in tempi rapidi. Con la redazione, 50-55 giornalisti (“Se fossero di più non saprei che farne”, dichiara il fondatore), i patti sono chiari: tempo tre anni, o si sfonda o si chiude e tutti a casa. Agile nel formato e nella foliazione: tabloid, 24 pagine, innovativo e smilzo, molto smilzo per i nostri gusti odierni di consumatori di giornali gonfiati con gli steroidi.
Fin dall’inizio – il nostro elenco è relativo soltanto ai primi tre giorni – il parco firme è dovizioso, nomi già noti o che lo diventeranno presto: Giovanni Valentini e Miriam Mafai, Sergio Frau e Pierluigi Gandini, Carlo Rivolta (morto a 33 anni, nel 1982, precipitando dal balcone di casa mentre era in crisi di astinenza, è stato lo straordinario cronista dei movimenti di quegli anni e, al tempo stesso, l’indagatore implacabile del mercato della droga), Corrado Augias che scrive di politica estera da New York, il vaticanista Luigi Accattoli, Paolo Filo della Torre che si occupa di economia da Londra, Rodolfo Brancoli ed Elena Guicciardi, Saverio Tutino dall’America Latina e Barbara Spinelli, Tiziano Terzani che racconta i funerali di Ciù En Lai, Paolo Guzzanti e Claudio Sabelli Fioretti che realizza forse la prima inchiesta italiana sugli ultras, Maurizio Carloni e Natalia Aspesi, Stefano Jesurum e Nico Garrone, padre del futuro regista Matteo.
In quel 1976 in cui muore Mao e Berlinguer lancia a Mosca, sotto gli occhi di un incollerito Breznev, le vie nazionali al socialismo, in cui il Pci alle elezioni raggiunge il suo massimo storico (34,4%) ma la Dc riconferma il primato (38,7%) e il Psi tracolla al 9,6%, in cui esplode lo scandalo Lockheed e Jimmy Carter diventa presidente degli Usa, in cui ci sono il terremoto in Friuli e la diossina a Seveso, tre morti ammazzati dalle Br e da Ordine Nuovo e più di mille attentati (saranno 2.128 nel 1977), la Repubblica fa scuola ma fatica a imporsi.
Fa scuola e al tempo stesso fa paura perché, come scrive Giorgio Bocca parlando di “complesso della Repubblica” (Prima n. 29, febbraio 1976): “La Repubblica – e non mi si accuserà spero di parlare prò domo – è un giornale che toglie niente o quasi niente ai giornali esistenti e che può arricchire tutti; non è un primo giornale, non può fare la concorrenza al giornale locale e può come giornale indipendente aiutare tutti coloro che nella professione già stanno lavorando a salti di qualità”. E invece “i redattori dei più grandi e fortunati settimanali, improvvisamente, si sentono l’erba tagliata sotto i piedi, scoprono la morte della formula, arrivano a dire che il loro giornale è morto. E si susseguono le crisi personali...”.
E in effetti, mentre i pubblicitari pronosticano alla creatura di Scalfari un radioso avvenire, i direttori delle testate concorrenti sono freddini o addirittura acidi. Se va ha le gambe, dice in buona sostanza Piero Ottone a Prima. Dovrei vendicarmi di Scalfari ma sono un galantuomo, ruggisce Montanelli. Soltanto Gaetano Afeltra saluta ecumenico il neonato quotidiano: “Una voce nuova è sempre una buona notizia”, e aggiunge: “Anche se mi hanno saccheggiato la redazione”. Intanto a Paese Sera, giornale fiancheggiatore del Pci, corrono ai ripari ingaggiando Arrigo Benedetti, antico direttore dell’Espresso che durante la guerra dei Sei giorni proprio i comunisti avevano accusato di razzismo perché si era schierato con Israele scontrandosi con Scalfari, al quale aveva rivolto un perentorio: “Da una parte c’è la democrazia, dall’altra le dittature. Scegli”. È un maquillage che servirà a poco, ma ancora nessuno lo può prevedere.
In quel 1976, i quotidiani in Italia tirano 6,4 milioni di copie, ne vendono 4,6 e hanno un deficit complessivo di 83 miliardi di lire. I due quotidiani più diffusi sono il Corriere della Sera (502.062 copie) e La Stampa (363.630). Repubblica, che ha fatto l’esaurito delle 300mila copie stampate per il primo giorno, terminerà l’anno con una diffusione media di 50mila copie. Boccheggerà per i primi due anni, Giorgio Mondadori ha lasciato il consiglio di amministrazione in giugno in disaccordo con la linea di sinistra del giornale, la Mondadori sarà tentata di ritirarsi.
Intanto però il quotidiano ha cominciato a seminare, talvolta a fare bottino: forte della sua dote iniziale che Scalfari aveva stimato in 70mila copie (il lettorato liberal-socialista), comincia a sfondare tra i comunisti, ad accreditarsi fra gli imprenditori, a sedurre i lettori giovani e le donne. Nel 1978, il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e la scelta della fermezza gli faranno conquistare nuovi consensi: 144mila copie, obiettivo quasi raggiunto. Arrivano i lettori cattolici, cresce la diffusione, crescono le pagine, nel 1985 si arriva alle 400mila copie, a un soffio dal Corriere della Sera (traumatizzato dalla crisi dei Rizzoli e dallo scandalo della P2). Con Via Solferino, il duello per il primo posto sul podio proseguirà per i successivi trent’anni, fino a oggi.
Roberto Casalini