Catherine Spaak, Grazia 14/1/2016, 14 gennaio 2016
SONO QUI PER INCANTARVI
[Giancarlo Giannini]
Saltimbanchi, giullari, plagiatori, imbonitori. Altro che artisti che sentono il fuoco sacro del cinema: Giancarlo Giannini parla dell’attore che non può abbandonare la sua fanciullezza se vuole restare vivo, mescolando lo stupore alla scaltrezza, il sacro con il profano, un alchimista che trasforma continuamente la realtà. Rifugiarsi nell’immaginazione sembra essere il solo modo di affrontare la vita. Parla a raffica Giannini, 73 anni, con una voce scura e metallica che sembra uscire dal petto di un giocattolo con le pile. Ha una mezza dozzina di film in lavorazione, anche con le attrici Maria Grazia Cucinotta e Donatella Finocchiaro. E in primavera lo vedremo nelle sale con On Air – Storia di un successo, sul leggendario programma radio Lo Zoo di 105, condotto dal dj Marco Mazzoli. Ma oggi Giannini è interamente assorbito dalla nostra intervista. Che quasi sembra un monologo.
C’è un lato poco conosciuto di te: quello dell’inventore. Puoi parlarmi del giubbotto che hai realizzato per Robin Williams nel film Toys del regista Barry Levinson?
«Anni fa mi sono divertito a costruire una giacca parlante con dispositivi vari e un altoparlante nascosto dal quale usciva musica: il giubbotto, con i movimenti del corpo di chi lo indossa, reagiva in modi diversi, tutti sorprendenti. Il regista Levinson, che ho incontrato in Italia nel 1992, mi ha detto che stava preparando un film sui giocattoli, Toys appunto, e mi ha chiesto di costruire una di quelle giacche per lui. Quando il protagonista Robin Williams andava in tv, indossava la mia invenzione per stupire gli spettatori e io gli davo le istruzioni a distanza col telefono».
Che uomo era Robin Williams?
«Molto simpatico, intelligente e un po’ nevrotico. Mi dispiace che sia scomparso in modo drammatico (Williams si è tolto la vita nel 2014, ndr). Sembra strano che persone gioiose e leggere come lui possano finire male».
Dopo aver girato film con Stanley Kramer, Francis Ford Coppola, Ridley Scott e altri famosi registi non hai mai pensato di fermarti in America?
«No. In realtà questi registi mi vedevano come una sorta di prototipo dell’italiano medio, dopo il successo di Pasqualino Settebellezze e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto. Per loro, quei personaggi raccontavano la storia di tutti i miei connazionali. Non si rendevano conto che bisognava studiare, e anche parecchio, per interpretare un napoletano o un siciliano. E che c’è una grande differenza fra i due modi di esprimersi e di essere. Per loro era tutto uguale. Ho capito che o sei Marlon Brando oppure rimani te stesso e resti nel tuo Paese».
Hai conosciuto alcune delle grandi star che hai doppiato in italiano? Parliamo, tra gli altri, di Al Pacino, Jack Nicholson, Michael Douglas, Gerard Depardieu, Dustin Hoffman, Mel Gibson.
«Al Pacino, Dustin Hoffman, Jack Nicholson sono persone molto semplici: amano chiacchierare e mangiare. Al Pacino era molto felice di essere stato doppiato da me. Dustin Hoffman mi ha chiesto come avessi potuto interpretare Pasqualino e tanti altri miei personaggi. “Ti daranno l’Oscar”, mi diceva. E mi ha raccontato che per rendere unica la sua camminata in Un uomo da marciapiede aveva infilato dei sassolini appuntiti nelle scarpe. Ma non è vero che l’attore deve soffrire per essere bravo. In realtà, si divertono tutti. Quando ho incontrato Marlon Brando e gli ho chiesto quale fosse il segreto della sua tecnica, mi ha risposto: “Non leggo i copioni”».
Non ci credo.
«Ti assicuro. Brando non studiava mai la parte: la leggeva scritta su foglietti di carta, sulla sua mano, su un polsino. E quando non riusciva a leggerli, gli suggerivano le battute attraverso un auricolare. Aveva capito tutto. Anche Marcello Mastroianni non studiava la parte. Mi ha detto che, arrivato alla terza pagina dei copioni, si addormentava. Quando girò La notte del regista Michelangelo Antonioni, non conosceva neanche la storia del film».
Tu fai lo stesso? Sembri molto meticoloso e diligente quando costruisci un personaggio.
«No, ho un altro metodo, estremamente preciso, forse suggerito dagli anni passati al liceo scientifico. Io lavoro molto sul copione. Solo una volta mi sono detto che si poteva farne a meno, e ha funzionato».
Lina Wertmüller è stata la regista che più ti ha capito e valorizzato?
«Devo quasi tutto a lei: è riuscita a cogliere il meglio di me. È un geniaccio nello scrivere, sul set, al montaggio, al doppiaggio».
Quali sono i difetti delle star del cinema?
«Nei film tutto è finzione. Un attore è necessariamente un po’ pazzo, fortemente egocentrico. Per il pubblico sei simile a un dio. Il divismo non mi diverte, però nel nostro mestiere è quasi d’obbligo. C’è chi si esalta per la notorietà e chi rimane semplice».
Tu come sei?
«Questa mattina mi sono alzato presto per riparare una casetta di legno che tengo sul mio terrazzo: mi piace moltissimo il lavoro manuale. Le mani, unite alla fantasia, mi fanno trovare soluzioni interessanti di fronte alle difficoltà».
Come vivi i cambiamenti legati all’età?
«Sono cose naturali. E, da credente, non ho paura della morte. “Non tutto il male viene per nuocere” è il mio motto. La sofferenza, fa parte della vita. È la lezione di tanti registi che ho incontrato, geni rimasti bambini. Pier Paolo Pasolini, che mi voleva per un suo film su San Paolo, mai realizzato, passeggiando mi parlava dei gerani. Federico Fellini mi telefonava alle quattro del mattino e correvo a casa sua per finire insieme le fettuccine con il ragù: “Che ci facciamo con questi avanzi?”, mi diceva. Erano geni rimasti bambini. Anche Luchino Visconti amava la buona tavola. Quando giravamo L’innocente si raccomandava con me: “Se hai fame, fammi un segno e andiamo a pranzo”».
Quali sono stati gli eventi che hanno cambiato la tua vita?
«Su tutti, la morte di mio figlio Lorenzo, a 19 anni, per un aneurisma cerebrale. Ti chiedi come sia possibile che accada a un ragazzo giovane e sano. Io sento di cambiare ogni giorno, invento sempre cose nuove, mi piace cercare quello che mi manca. Ma non ho grandi desideri né sogni nel cassetto: affronto la vita in modo semplice».
Discreto, riservato, un po’ solitario, eppure di te si dice che sei un impenitente Don Giovanni: confermi?
«Non so se lo sono. Comunque posso morire contento, perché ho avuto la fortuna di conoscere donne bellissime: forse, avendomi visto sul grande schermo, pensavano che fossi chissà che cosa nella vita».
La tua biografia, uscita l’anno scorso, s’intitola Sono ancora un bambino (Longanesi): che cosa significa?
«L’attore deve restare per sempre un fanciullo. Quando ti vesti da Zorro, devi sentire di esserlo davvero. Quando a tavola aspetti il tuo risotto caldo e giochi con la forchetta e il coltello, le posate diventano dei trenini. La verità, però, è che la gente recita per noi. Il pubblico paga per ridere e per piangere: gli attori sono solo dei grandi plagiatori».