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 2016  gennaio 09 Sabato calendario

INFERNO DI GIADA


Da Mandalay ci vuole anche una settimana per risalire il corso superiore dell’Irrawaddy fino a Mytitkyina, la capitale dello Stato Kachin. Le barche a motore navigano lentamente, serpeggiando tra i fondali limacciosi del fiume, cariche di passeggeri che bivaccano sul ponte, insieme a masserizie, sacchi di riso, balle di tabacco, galline e bambini. I battelli scivolano tra banchi di sabbia e isolotti, costeggiando pagode, orti e capanne di bambù con una lentezza ipnotica: ma la via fluviale, quando è aperta, resta preferibile a quella di terra, molto più disagiata.
Il nord della Birmania è da secoli isolato: strade impraticabili, altipiani rocciosi, giungle tropicali, continui guadi e pantani, un clima malarico fanno del Kachin una regione impervia. Eppure questo angolo del Myanmar attira da sempre l’interesse di avventurieri e mercanti di ogni sorta, soprattutto cinesi, per via dei suoi immensi giacimenti di giada. Giada verde, la più pregiata: la pietra più preziosa del mondo. Un minerale che alle quotazioni correnti (duemila euro al grammo) vale quasi 100 volte più dell’oro e che per la nuova ricca borghesia cinese non ha prezzo. Al punto che a un’asta a Hong Kong nel febbraio 2014 Sotheby’s ha potuto vendere una collana di questa pietra alla cifra record di 25 milioni di euro.
La regione delle miniere comincia a Mogaung, non lontano da Mytitkyina, un antico insediamento dell’etnia Shan (una delle tante minoranze che compongono il mosaico birmano) raggiunto anche dalla ferrovia. Qui i primi cercatori cinesi di giada arrivarono già nel XIII secolo. Intorno al 1300 gli sconfinamenti dallo Yunnan per esplorare le vene del Kachin divennero sistematici. Ma le insidie del territorio, le febbri malariche e l’ostilità delle popolazioni locali fecero della corsa alla giada un’impresa per pochi temerari. Neanche la normalizzazione dei rapporti tra Cina e Birmania, alla fine del XVIII secolo, riuscì a trasformare questo commercio in un business come gli altri. In un tempio di Amarapura, l’antica capitale birmana fuori Mandalay, è ancora conservato l’elenco dei seimila mercanti cinesi morti nel XIX secolo su questi altipiani maledetti. La “pietra del cielo”, come viene chiamata in Cina, sa essere fatale. E continua a mietere vittime anche oggi che kachin e birmani hanno ripreso il controllo delle miniere, estromettendo gli stranieri. Frane e smottamenti, alluvioni, epidemie e rapine sono all’ordine del giorno. Ancora lo scorso novembre il crollo di una galleria ad Hpakant ha causato più di 200 tra morti e dispersi. Molti sono stati sepolti senza nome: in tanti vengono qui in cerca di fortuna, e senza documenti.
Hpakant è una sorta di Fairbanks, una città spuntata dal nulla, a un centinaio di chilometri da Mogaung, nel bel mezzo di un paesaggio lunare, tra colline sventrate dalle scavatrici, foreste abbattute, cumuli di rocce annerite, crateri giganteschi e corsi d’acqua deviati. Qui la chiamano la “piccola Hong Kong”, perché grazie alla ricchezza generata dalle miniere è possibile trovare di tutto: cognac e whisky delle marche più care, Rolex, iPhone e iPad, antenne satellitari e schermi al plasma, scarpe Nike, moto, prostitute, metanfetamine ed eroina. Droghe e pietre preziose sono d’altronde business che vanno insieme, in Birmania, e da un quarto di secolo finanziano la guerriglia dei ribelli del movimento indipendentista del Kachin (Kia). Tutte le formazioni militari in campo sono coinvolte nei due traffici: l’esercito governativo e le milizie irregolari di un’altra minoranza separatista, quella Wa. Il Myanmar è il secondo produttore al mondo di oppio dopo l’Afghanistan; e gli altopiani al confine con Cina, Laos e Thailandia rientrano nel «Triangolo d’oro» del narcotraffico. Eroina e giada sono talmente intrecciate tra loro che non si capisce quale attività sia funzionale all’altra. Per esempio il cinese Wei Hsueh Kang, comandante in capo dell’Esercito dello Stato Unito Wa (Uwsa), è un noto boss della droga sulla cui testa pende una taglia americana da due milioni di dollari. Ma è anche un ricco finanziere che col suo Hong Pang Group, holding con interessi diversificati, dalla grande distribuzione all’agricoltura, le costruzioni, l’elettronica, il petrolio, gli alcolici e le miniere, partecipa direttamente all’attività estrattiva di Hpakant con una cinquantina di società. Fino all’armistizio concordato tra separatisti e governativi, una ventina d’anni fa, l’eroina veniva venduta ad Hpakant direttamente per strada, come qualsiasi altra mercanzia. A queste latitudini peraltro l’oppio viene anche consumato sciolto nell’acqua, come antidoto contro la fame e la stanchezza. Con la ripresa dei combattimenti, nel 2011, lo spaccio di droga è tornato a fiorire alla luce del sole. In città si stima che la metà dei lavoratori nelle miniere ne faccia uso. L’eroina si accompagna a livelli altissimi di diffusione dell’Aids. Ogni dose costa duemila kyat, meno di un euro e mezzo, e mediamente se ne assumono cinque al giorno. A venderle sono direttori dei lavori e capisquadra, anche se non è chiaro se arruolino solo eroinomani, o se sia la miniera a incentivare la tossicodipendenza. Certo è che, con le maestranze sotto l’effetto di stupefacenti, basta il minimo incidente per fare una strage. Nella stagione dei monsoni, a ogni cedimento causato da pioggia, le vittime in galleria si contano a dozzine. Le miniere di Hpakant, dove si trova la giada migliore, si estendono su 350 chilometri quadrati, lungo il fiume Uru e i suoi affluenti. L’accesso alla città è ufficialmente vietato agli stranieri, ma qualche giornalista riesce a entrare. Le società titolari di concessione sono quasi mille, e nel 2014 hanno estratto complessivamente circa 17 tonnellate di giada. Dai dati sulle importazioni forniti dalle autorità di Pechino si ricava che, nello stesso anno, quasi un terzo di quelle pietre preziose è finito in Cina, per un controvalore di circa 11 miliardi di euro. Se tutto il minerale estratto fosse stato pagato allo stesso prezzo, i proventi avrebbero sfiorato i 35 miliardi di euro. Più cautamente gli analisti di Global Witness, Ong internazionale che da vent’anni fa campagne contro la spoliazione di risorse nel Terzo mondo, calcolano che il mercato della giada abbia reso nel 2014 almeno 28 miliardi di euro, pari al 48% del Pil birmano. «Se solo l’1% venisse speso per la salute, l’educazione e le infrastrutture nel Kachin, la differenza sarebbe immensa. Ma i benefici vanno solo a una ristretta cerchia di persone», denuncia un rappresentante della comunità locale. Il commercio di giada potrebbe trasformarsi nella prima industria della Birmania, se venisse gestito nella legalità. E invece neanche il 2% dei ricavi finisce allo Stato, sotto forma di diritti di concessione, accise e dazi.
Le pietre vengono trasportate a Mogaung per la pesatura e un primo taglio: qui si effettuano anche i controlli per la riscossione delle tasse, ma aggirarli è uno scherzo visto che i controllori sono a loro volta concessionari, e la corruzione dilaga. In un recente rapporto Global Witness scrive che tutto il vecchio establishment legato alla giunta militare in carica fino al 2011 ha interessi personali nel mercato della giada, a partire dalla famiglia dell’ex dittatore Than Shwe. Per questo tra il 50 e l’80% di tutto il minerale estratto viene contrabbandato illegalmente in Cina, passando per le montagne controllate dai ribelli Kachin, dietro il pagamento di tangenti.
Questi traffici vanno ad arricchire tutti i capi militari delle fazioni che si combattono tra loro, in una guerra etnica che finora ha causato centomila sfollati. La Birmania continua a restare così uno dei più poveri paesi asiatici, con il 37,5% della popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno, mentre un’élite di alti papaveri, generali e narcotrafficanti si spartisce la metà della ricchezza nazionale. Quando basterebbe un chilogrammo di giada a mantenere per un anno 147 ospedali in una delle regioni più disastrate del Paese.