Fabrizio Salvio, SportWeek 9/1/2016, 9 gennaio 2016
E ALLA FINE SPARISCO NEL NULLA
[Marco Giampaolo]
Adesso che la vita ha fatto il suo giro e si è rimessa sul binario giusto dopo aver più volte deragliato, adesso Marco Giampaolo potrebbe togliersi qualche sfizio, se soltanto gli piacesse assaporare il gusto della rivincita. Se fosse un tipo d’uomo diverso, meno schivo e più istintivo. Invece preferisce godersi la ritrovata serenità professionale senza aver mai perso quella personale. Senza aver smarrito quell’aria disincantata e vagamente annoiata, fuori moda in un calcio che fluttua sospeso come una gigantesca bolla d’aria. Fritta. In essa Giampaolo si era perso, emarginato, con il suo calcio cerebrale fatto di studio, applicazione e nessuna concessione mediatica. Poi, in estate, l’Empoli orfano del maestro Sarri pensa a lui e lui, l’ex enfant prodige degli allenatori, l’ex pupillo di Sacchi, in 17 partite di campionato (prima della sfida all’Inter del 6 gennaio) totalizza più punti del predecessore – 27 contro 17, 8 vittorie contro 3 – portando la squadra al 6° posto in classifica. Il tutto senza scendere a compromessi. Né oggi, né prima.
Dica la verità, non ci credeva nemmeno lei.
«Io non devo confrontarmi con Sarri. Questi numeri non significano nulla. Sono un risultato parziale in funzione dell’obiettivo finale: la salvezza».
Ma nemmeno un pizzico di orgoglio per un’avventura cominciata nel migliore dei modi, alla faccia dello scetticismo iniziale?
«Chi osserva dall’esterno può restare impressionato dai nostri risultati attuali, io che sto dentro faccio mia l’osservazione di un amico che lavora in un’azienda e mi spiegava come il suo lavoro consista nel far quadrare il bilancio al 31 dicembre. “Se ci riesco godo per 5-6 giorni”, diceva. “Dopo, ricomincio a lavorare per il 31 dicembre successivo”. Io sono nella medesima situazione. Anzi, peggiore: io non godo della vittoria neanche per un giorno».
Perché?
«Non lo so. È un mio difetto. Non mi rilasso finché non ho raggiunto l’obiettivo. A quel punto sparisco davvero. Non mi interessa più niente».
E come si rilassa?
«Al mare con gli amici. Esco la mattina e rientro la sera».
In barca?
«Quella è una vacanza che faccio ogni anno sempre con le stesse 5 o 6 persone. Siamo stati alle Eolie, in Croazia. Si parla di tutto tranne che di calcio. Ricordiamo le nostre bravate di bambini. Ci raccontiamo la strada. Il mare di cui parlavo è davanti a casa, a Giulianova».
È lì che si era rifugiato quando nel 2013 scomparve all’indomani delle dimissioni da allenatore del Brescia, tanto da mobilitare addirittura le telecamere di Chi l’ha visto?
«Dissi che ero al mare, ma in realtà non mi sono mai mosso da Brescia. Fu una battuta che feci in conseguenza di una cattiva comunicazione da parte della società. Un paio di giorni prima avevo avvertito il figlio del presidente Corioni e il direttore sportivo Visci: cercatevi un altro allenatore perché io vado via. Loro avevano tenuto la notizia riservata perché credevano che potessi cambiare idea. Così montarono la storia della mia fuga perché evidentemente faceva comodo; in realtà sapevano benissimo dove fossi. E io non ne uscii bene mediaticamente».
Come ci è arrivato a Empoli?
«Sono stato chiamato in primavera: “Se Sarri va via, sei la nostra prima scelta”, mi dissero. Hanno mantenuto la parola».
Cosa ha portato alla squadra?
«Le mie idee sull’impianto costruito da Sarri, favorito dal fatto che abbiamo una comune filosofia di gioco: organizzazione, dinamismo e possesso palla. Mi sono risparmiato quella parte didattica cui un nuovo allenatore di solito è costretto, col rischio di non ottenere risultati all’inizio e quindi di essere esonerato. È il pericolo che proprio Sarri ha corso a Napoli perché spesso chi giudica il nostro lavoro guarda solo i punti in classifica. Invece se un dirigente osserva gli allenamenti di Sarri non può non dargli del tempo. Sempre che sia in grado di giudicare. L’allenatore è un portatore sano di idee, poi sono i calciatori, con le loro qualità, a metterle in pratica».
Era finito nel dimenticatoio: cosa ha pensato quando l’Empoli l’ha chiamata?
«Che dovevo ripagare la fiducia di chi ha avuto il coraggio di venire a ripescarmi in LegaPro, a Cremona».
Lei è una persona sicura di sé?
«Sono sicuro del mio modo di pensare».
E qual è, il suo modo di pensare?
«Molte volte ci si può vendere: per un’opportunità, per scalare una posizione... Io ho sempre rinunciato a farlo, soprattutto al pensiero di danneggiare altri. Ho iniziato questo mestiere nel 2001, a 34 anni, a Giulianova, quando Buffoni, l’allenatore, mi invitò a collaborare con lui. A 3 domeniche dalla fine del campionato, quando eravamo virtualmente qualificati ai playoff, Buffoni si dimise per contrasti con i dirigenti. La società mi chiamò per affidarmi la squadra, io rifiutai e mi dimisi a mia volta. Non potevo tradire la fiducia della persona che mi aveva dato l’opportunità di allenare. Finì che il Giulianova rimase fuori dai playoff. Lo stesso l’anno dopo a Treviso, con Ammazzalorso: a 7-8 giornate dalla fine, primi in classifica, lui si dimise perché sapeva già che, in caso di promozione in B, avrebbero preso un altro al suo posto. Mi disse: “Io vado via, tu fai quello che vuoi”. Risposi: “Sbagli, ma se vai via tu, vado via pure io”. Poi la cosa rientrò e fummo promossi. Altre due volte, a Cagliari e a Brescia, ho rifiutato il ritorno nei club dai quali ero stato esonerato o da cui mi ero dimesso. Orgoglio e dignità non hanno prezzo, dissi: lo confermo. Tutte le mie vicissitudini da allenatore sono state dovute al rispetto che ho per i miei principi: per questo non mi sono mai pentito. Anche perché a te stesso non puoi mentire. E alla fine sono stato ripagato».
Cosa è cambiato dai tempi in cui Sacchi la definiva il migliore tra i giovani allenatori o da quando, nel 2011, Allegri diceva che in Italia c’erano solo 3 più bravi di lui: Conte, Mazzarri e Giampaolo?
«Ho avuto una parabola discendente proprio a causa della mia coerenza, spinta fino all’autolesionismo. Perciò, se ho commesso errori, non li considero tali».
Ha mai pensato che Empoli potesse essere la sua ultima spiaggia?
«Dopo Brescia, ho avuto l’incoscienza di rimettermi in gioco in LegaPro. Se non l’avessi fatto forse avrei smesso, perché sarebbe passato troppo tempo dall’ultimo incarico. Quella, e non Empoli, è stata la mia ultima spiaggia».
Una sera del 2009 andò a dormire da allenatore della Juve e si risvegliò che era stato superato da Ciro Ferrara. Ha saputo il perché?
«Sì. Renzo Castagnini, allora dirigente del club, mi disse che certe decisioni alla Juventus venivano prese ai piani altissimi. Ho fatto campionati importanti a Siena e a Cagliari, e quando riesci a fare certe cose in provincia meriti di avere una chance in una squadra di alto livello. A me questa possibilità è stata negata».
Suo padre le parlava di Berlinguer: lei cosa direbbe a Renzi?
«Nel film Viva la libertà, Toni Servillo, che interpreta un politico di sinistra, guarda un cartello dove c’è scritto “pace” e “libertà”, e dice: “Non vedo una parola che mi è molto cara: passione”».
Per chi vota?
«Prima, Bertinotti. Mi chiesero: a chi darebbe l’Oscar della politica? Feci il suo nome. Lui venne a saperlo e mi invitò a un incontro informale a Roma. Non ci sono mai andato. Ho sempre votato a sinistra. Più a sinistra del Pd».
Ha bevuto con Luis Sepulveda. È vero che rimaneste in silenzio tutta la sera?
«Ma no, io restai in silenzio ad ascoltare le sue storie. Ne ricordo una in particolare. In Amazzonia, con un medico tedesco, incontrò degli indigeni coi quali non riuscivano a comunicare. Allora, per spiegare loro da dove venissero, disegnarono sul terreno una cartina della Germania. E quelli, sentendo quella parola, risposero in coro: Beckenbauer!».