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 2016  gennaio 14 Giovedì calendario

LA CINA PREPARA L’ASSALTO FINALE ALL’INDUSTRIA EUROPEA – 

Immaginate un’Europa senza acciaierie, in cui chiude l’Ilva di Taranto, chiude la Ast di Terni, chiude perfino la ThyssenKrupp. E tutto l’acciaio arriva dalla Cina, “che ha un eccesso di capacità produttiva pari all’intera produzione europea”, spiega Guido Nelissen di IndustriAll, una federazione di sindacati. È uno scenario che potrebbe diventare realisticol’11 dicembre 2016, se l’Unione europea concederà alla Repubblica popolare cinese lo “status di economia di mercato”.
Sembra strano considerare la Cina un Paese normale, mentre le sue Borse sono scosse da crolli dovuti a una politica di sostegno agli investimenti fuori controllo, da uno yuan manipolato dalla Banca centrale sulla base di (confusi) input politici, mentre il contrasto tra dirigismo e spinte di mercato non è mai stato così forte. Eppure il presidente Xi Jinping e i suoi lobbisti molto attivi a Bruxelles ritengono di avere il diritto dalla loro. Quando la Cina è entrata nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, nel dicembre 2001, è stata classificata come “economia di mercato socialista” e ha preso impegni ad aumentare la concorrenza ed eliminare le distorsioni frutto dell’intervento pubblico. In base all’articolo 15 del protocollo di adesione, allo scadere dei 15 anni di appartenenza al Wto, la Cina può vedersi riconosciuto lo “status di economia di mercato”. I 15 anni scadono l’11 dicembre 2016: se cambia la classificazione della Cina, crollano in un colpo molte delle barriere commerciali che l’Europa oppone all’arrivo di merci cinesi.
In molti campi, come ha fatto con i pannelli fotovoltaici e la ceramica, la Cina cerca di conquistare i mercati stranieri in dumping, cioè vendendo le sue merci sottocosto, per sbaragliare la concorrenza, conquistare spazio e usare così la propria capacità produttiva, fare economie di scala e mettere le basi per la sua egemonia futura.
Il caso dell’acciaio lo dimostra con i numeri: tra il 2003 e il 2013, la produzione della Cina è cresciuta da 222,3 milioni di tonnellate a 822. Quella del resto del mondo soltanto da 748 a 827,3. “Come si spiega il miracolo visto che la Cina non ha alcun vantaggio competitivo nella siderurgia?”, si chiede retorico Guido Nelissem di IndustriAll. La risposta è che la Cina vende sottocosto. Nei Paesi normali è abbastanza facile stabilire se c’è dumping: si ricostruisce quanto costa davvero il prodotto e si capisce se viene esportato a prezzi più bassi di quelli a cui è venduto in patria. Ma come si fa in un Paese dove tutti i prezzi, dall’energia ai salari, sono decisi dallo Stato invece che dal mercato?
In questi anni si è usato il sistema del “Paese analogo”, con una simulazione di quanto costerebbe – per esempio – una tonnellata di acciaio in un Paese che avesse caratteristiche industriali simili a quelle della Cina. Sulla base di quei costi più realistici, si stabiliscono poi barriere tariffarie che fanno entrare le merci cinesi a un prezzo più alto, più vicino a quello dei concorrenti europei. Tocca quindi al produttore cinese dimostrare che, nel suo settore, lo Stato non distorce i prezzi e che vanno considerati i prezzi cinesi, non quelli “ricostruiti” dall’Ue. Al 30 novembre 2015, l’Ue aveva in corso 87 contenziosi anti dumping e 22 per sussidi pubblici, 58 di questi con la Cina. Riguardano quasi 400 mila posti di lavoro, secondo le stime di Aegis Group.
Se l’11 dicembre la Cina otterrà lo status di economia di mercato, nei contenziosi l’Europa dovrà prendere per buoni i prezzi cinesi, quindi alzare barriere molto più basse. Proprio mentre negozia con gli Stati Uniti un trattato di libero scambio molto contestato (il Ttip) per imporre alla globalizzazione gli standard occidentali e non quelli di Pechino, l’Europa aprirebbe le porte a un’invasione di merci cinesi. Secondo le stime più pessimistiche, il Pil europeo scenderebbe dell’1-2 per cento, i posti di lavoro in pericolo sarebbero tra 1,7 e 3,5 milioni (calcoli dell’Economic Policy Institute).
L’Australia ha già riconosciuto lo status di economia di mercato, gli Stati Uniti non lo faranno e sono molto contrari a un’apertura europea. Il servizio giuridico della Commissione, secondo quanto riportava ieri Politico.eu, invece è favorevole: vuole evitare scontri con la Cina. Secondo la tesi dei cinesi, il cambio di status è inevitabile e automatico, scatta alla mezzanotte dell’11 dicembre 2016. E addio barriere. “Non c’è nessun automatismo e, secondo i parametri fissati dalla stessa Commissione, la Cina non è un’economia di mercato: i Paesi potranno continuare a decidere se usare i prezzi cinesi o quelli ricostruiti nei contenziosi”, assicura Bernard O’Connor, avvocato dello studio Ntcm, che difende anche il Consiglio europeo nelle dispute commerciali. L’unico problema è che il Wto ha contestato, nello scontro Argentina-Ue sulla soia, il meccanismo di ricostruzione del prezzo vero. Si attende uno studio di impatto da parte della Commissione, che dice di averlo avviato, ma rifiuta di rivelare ogni dettaglio. Ieri i commissari si sono riuniti e hanno deciso di rinviare ogni decisione all’estate, assecondando la propensione bruxellese a prendere tempo.
Eppure non sembra ci siano molti vantaggi nell’apertura alla Cina. Ci sono lobby potenti che si muovono: gruppi industriali come Abb o Siemens possono avere grandi benefici se entrano semilavorati cinesi a basso costo che permettono loro di aumentare i margini di profitto. La Germania è indicata da più parti come la prima alleata della Cina in questa partita. Paesi che vivono di logistica, come l’Olanda, hanno grande interesse a veder aumentare l’interscambio: nel programma della presidenza olandese dell’Unione, appena iniziata, si prevede già che la Commissione aprirà alla Cina. La diplomazia, a cominciare dall’Alto rappresentante per la Politica estera, Federica Mogherini, invita alla cautela: non vuole scontri con Pechino ed è incline a fare concessioni. Il governo Renzi invece è decisamente contrario.
“Il Consiglio è bloccato, diviso tra blocchi contrapposti, mentre la Commissione tace, la commissaria per il commercio Cecilia Malmström non ha niente da dire al Parlamento e ai cittadini”, spiega al Fatto David Borrelli, eurodeputato del Movimento Cinque Stelle che è riuscito a mettere attorno a un tavolo Ppe (conservatori) e Pse (centrosinistra), nel primo dibattito pubblico che ha rotto il silenzio sul tema Cina, due giorni fa. In sala c’erano rappresentanti dell’ambasciata cinese, ma hanno spiegato che passavano di lì per caso. Il gruppo Efdd, di cui M5s fa parte, è quello che per primo ha preso posizione contro il riconoscimento della Cina.
Gli altri tentennano, molto cauti perché è ancora incerta la linea dei rispettivi Paesi. “C’è anche un rischio Schengen: che di fronte all’incapacità di una reazione comunitaria, come sull’immigrazione, ogni Paese segua linee diverse, sarebbe il caos”, dice Borrelli. Il Parlamento ha anticipato la Commissione, silente in materia, perché eterodiretta dai tedeschi filo-cinesi, dicono i critici. Ma il Parlamento potrà solo approvare o respingere una decisione presa altrove, quando verrà sottoposta al voto. La partita si gioca tra Pechino e le Capitali nazionali. Ed è appena cominciata.