Elizabeth Royte, National Geographic 1/2016, 12 gennaio 2016
LAVORO SPORCO
Al tramonto lo gnu sembra ormai spacciato: malato o forse ferito, vaga solitario sulla Piana del Serengeti, in Tanzania, a chilometri dal suo branco. All’alba l’animale è morto, il suo corpo circondato da una calca turbolenta di una quarantina di avvoltoi. Alcuni attendono pazienti ai margini, ma i più sono impegnati in una lotta gladiatoria: gli artigli tesi, si impennano, attaccano, fintano, graffiano. È un’onda scura e turbolenta di colli ricurvi, becchi taglienti, ali sferzanti. Dal cielo una fiumana costante di commensali cala a testa bassa, rimbalzando e ruzzolando a terra nella fretta di unirsi alla calca.
Perché affannarsi tanto intorno a una carcassa così grande? Perché tanta ingordigia? Il fatto è che lo gnu ha la pelle dura e non è stato ucciso da carnivori, perciò non c’è un’apertura buona per tutti. E così gli uccelli più aggressivi ingaggiano una lotta furibonda per assicurarsi l’accesso. Mentre la calca gracchia e schiamazza, un grifone dorsobianco infila la testa in un’orbita oculare dello gnu e succhia quello che può prima di essere strappato via a forza. Un altro dorsobianco ficca il becco in
una narice, mentre un avvoltoio di Rueppell attacca l’altra estremità; la sua testa è già una ventina di centimetri dentro l’ano dello gnu quando un altro pennuto lo strappa via e infila a sua volta la testa, come un braccio in un guanto da sera. E vanno avanti così, 40 uccelli disperati accaniti su cinque buchi grandi come palline da golf.
Poi intervengono due avvoltoi orecchiuti. Questi maestosi uccelli sono alti più di un metro e hanno un’apertura alare di quasi tre, la faccia rosea, il becco grande e adunco, il collo robusto drappeggiato di pelle rosa e cinto da una gorgiera scura. Mentre uno squarcia a colpi di rostro una spalla del mammifero, l’altro scava nel muso, sperando di trovare qualche succosa larva di Oestridae. Tendini e pelle si lacerano. A quel punto un dorsobianco affonda il capo nella gola dello gnu e tira fuori una spanna di trachea. Ma un marabù africano alto più di un metro si fa avanti, gliela sottrae e la ingoia intera. Grazie al lavoro dei due orecchiuti, che preferiscono i nervi al muscolo, lo gnu è ormai aperto. Sangue e muco schizzano ovunque, viscere colano dai becchi insanguinati; due pennuti fanno il tiro alla fune con tre metri di intestino ricoperto di terra e feci.
Man mano che il corpo dello gnu si sgonfia, il cerchio di uccelli sazi si allarga. Sopra il gozzo rigonfio le teste si chinano sulle ali chiuse, le membrane nittitanti si accasciano. Cala il silenzio, la furia si placa. Placidi come papere in un laghetto, i pennuti riposano, in pace col mondo.
È possibile che l’avvoltoio sia l’uccello più denigrato del pianeta, simbolo vivente della rapacità e dell’ingordigia. La Bibbia lo considera impuro e vieta ai figli di Israele di mangiarlo. Nel diario che scrisse durante il viaggio del 1835 sul Beagle, Charles Darwin lo definì “disgustoso” e aggiunse che la testa calva era “fatta per sguazzare nel putridume”. E tra i tanti espedienti dell’avvoltoio c’è quello di vomitare tutto ciò che ha nello stomaco per fuggire più rapidamente in caso di minaccia.
Disgustoso? Forse. Eppure anche questo uccello ha le sue virtù: non uccide (quasi mai) altri animali, forma con tutta probabilità una coppia monogama in cui entrambi i genitori si occupano dei piccoli e ama bagnarsi e oziare in grandi e solidali gruppi. Ma soprattutto rende all’ecosistema un servizio di importanza cruciale, per quanto assai sottovalutato: lo smaltimento rapido, e il riciclaggio, degli animali morti. Secondo una stima, gli avvoltoi che risiedono nell’ecosistema del Serengeti o che lo attraversano durante la migrazione annuale (quando 1,3 milioni di gnu si spostano fra Kenya e Tanzania) hanno consumato storicamente più carne di tutti gli altri mammiferi carnivori del Serengeti messi insieme. E sono rapidi: un avvoltoio può divorare un chilo di carne in un minuto e un gruppo consistente spoglia una zebra da capo a coda nell’arco di mezz’ora. Senza di loro, le carcasse maleodoranti resterebbero più a lungo sul posto, le popolazioni di insetti si moltiplicherebbero e le malattie si diffonderebbero fra esseri umani, bestiame e altri animali selvatici.
Ma questa situazione ideale che permane da secoli non è immutabile. Al contrario, è a forte rischio in alcune regioni chiave. L’Africa ha già perso una delle sue 11 specie di avvoltoio – l’avvoltoio monaco – e altre sette sono a rischio o gravemente minacciate. Alcune specie, come gli orecchiuti, si trovano prevalentemente in aree protette, mentre altre popolazioni regionali di capovaccai e di avvoltoi barbuti sono quasi estinte. Quello degli avvoltoi e di altre specie di uccelli spazzini, dice Darcy Ogada, vicedirettore dei Programmi di sostegno per l’Africa dell’ONG Peregrine Fund, «è il gruppo funzionale aviario più a rischio del mondo».
È una soleggiata giornata di marzo, e Ogada si sta recando con il collega Munir Virani nella regione del Masai Mara. Virani è qui per parlare con i mandriani. L’allevamento di bestiame, a quanto pare, è essenziale per il benessere degli avvoltoi. Virani spiega che in anni recenti i Masai hanno affittato le loro terre – che circondano la zona nord della Riserva naturale del Masai Mara – a organizzazioni che tutelano la fauna selvatica creando aree protette alle quali non possono accedere allevatori e bestiame.
Alcuni Masai sostengono che queste oasi abbiano attirato nella zona un maggior numero di leoni e altri carnivori (le oasi sono contigue e non recintate). Intanto le popolazioni di gnu e di altri ungulati che vivono nel Mara sono minacciate dal bracconaggio, da una siccità prolungata e dalla trasformazione della savana in terreno agricolo o edificabile. Già queste sono brutte notizie per gli avvoltoi; ma non è finita qui.
A tutti i Masai che incontriamo Virani domanda: «Hai perso bestiame di recente per l’attacco di qualche predatore?». La risposta è sempre uguale: «Sì, e lo stesso è successo ai miei vicini». Di solito i leoni attaccano di notte quando il bestiame è rinchiuso in recinti circondati di boscaglia spinosa, detti boma. Sentendo ruggire i leoni, il bestiame terrorizzato fugge sfondando il cancello del boma e si disperde. Anche se i proprietari vengono svegliati dai cani, è quasi sempre troppo tardi. L’uccisione di una vacca equivale alla perdita di 30 mila scellini (circa 270 euro), un brutto colpo per una famiglia che usa il bestiame come valuta.
Poi viene la rappresaglia: gli uomini legano i cani, recuperano i resti della preda lasciati dai leoni e li bagnano con il Furadan, un pesticida economico ad azione rapida, facilmente reperibile sottobanco. Il leone torna a mangiare, accompagnato molto probabilmente dalla famiglia, e così tutto il branco viene eliminato (si calcola che in Kenya muoiano così ogni anno un centinaio di leoni; nel paese sono rimasti circa 1.600 individui). Inevitabilmente anche gli avvoltoi si cibano delle carcasse dei bovini, oppure mangiano i leoni avvelenati; quale che sia il vettore, anche gli uccelli, che possono nutrirsi a stormi di oltre un centinaio di individui ognuno, finiscono tutti sterminati.
Si fa fatica a credere che qualche granulo di un composto usato per eliminare vermi e altri invertebrati riesca a uccidere un animale dotato di succhi gastrici capaci di neutralizzare rabbia, colera e antrace. In effetti il Furadan si è imposto all’attenzione di Ogada solo nel 2007, quando la ricercatrice ha cominciato a ricevere e-mail di colleghi che le segnalavano avvelenamenti di leoni. In Kenya il turismo è la seconda fonte di valuta straniera e i leoni sono l’attrazione principale del Paese. Nel 2008 studiosi e rappresentanti di gruppi ambientalisti ed enti governativi si sono dati convegno a Nairobi per scambiarsi informazioni sugli avvelenamenti e pianificare contromisure. «Il problema era molto più esteso di quanto tutti noi che lavoriamo a livello locale credessimo», racconta Ogada. Si è calcolato che il 61 per cento dei decessi di avvoltoi in Africa era causato da avvelenamento. Come se non bastasse, gli avvoltoi raggiungono la maturità sessuale tra i cinque e i sette anni di età, mettono al mondo un pulcino solo una volta ogni uno o due anni e il 90 per cento dei piccoli muore nel primo anno di vita. Si prevede che nei prossimi cinquant’anni gli avvoltoi del continente saranno dal 70 al 97 per cento in meno.
Per quanto brutta possa apparire la situazione in Africa, altrove è anche peggio. In India le popolazioni degli avvoltoi più comuni – grifone dorsobianco del Bengala, grifone indiano e avvoltoio beccosottile – si sono ridotte di oltre il 96 per cento in appena 10 anni. Nel 2003 i ricercatori del Peregrine Fund hanno accertato l’esistenza di un legame tra le carcasse dei volatili e il bestiame trattato con l’antinfiammatorio diclofenac, nato per la cura dell’artrite e altre patologie negli esseri umani e approvato nel 1993 per uso veterinario. Negli avvoltoi il diclofenac causa insufficienza renale; nel corso di alcune autopsie sono stati osservati organi ricoperti di cristalli bianchi.
La moria indiana ha fatto molto rumore soprattutto per le conseguenze. La popolazione bovina indiana è tra le più vaste al mondo, ma la maggioranza degli indiani non mangia carne. E con la morte per avvelenamento di milioni di avvoltoi i cadaveri dei bovini hanno cominciato ad accumularsi per le strade. La popolazione di cani randagi – non dovendo più competere con gli avvoltoi per le carogne – è schizzata da 22 a 29 milioni in 11 anni. Il risultato? Un aumento stimato dei morsi di cane all’uomo di 38,5 milioni. Anche i topi sono aumentati. E i decessi per rabbia sono cresciuti di quasi 50 mila unità, con un costo stimato per l’India di 31 miliardi di euro tra spese mediche, perdita di reddito e costi di mortalità.
Assodato che la scomparsa degli avvoltoi era causata dal diclofenac, nel 2006 India, Pakistan e Nepal hanno proibito l’uso veterinario del farmaco (tuttora somministrato al bestiame clandestinamente). Il Bangladesh ha preso la stessa decisione nel 2010 e a metà giugno del 2015 una coalizione di gruppi ambientalisti ha sollecitato la Commissione Europea a bandire l’uso del farmaco negli animali. Si attende ancora una risposta. Assieme alle iniziative per la riproduzione in cattività e ai “ristoranti” per avvoltoi, dove gli uccelli selvatici trovano carne da allevamenti e mattatoi sicuri, la campagna ha avuto qualche risultato positivo: dopo nove anni, il calo degli avvoltoi indiani è rallentato e in alcune regioni il numero di individui comincia ad aumentare. Ma la popolazione delle tre specie più colpite è tuttora minima rispetto ai milioni di un tempo.
Darcy Ogada dubita che l’Africa seguirà l’esempio indiano per rispondere alla crisi. «In Kenya le iniziative prese dal governo per salvaguardare gli avvoltoi sono poche», dice, «e non c’è la volontà politica per limitare l’uso dei carbofuran», cioè la famiglia di composti che comprende il Furadan. E se gli avvoltoi in India devono affrontare un’unica, grande minaccia – l’avvelenamento involontario – ben più numerosi sono i pericoli che incombono sui loro cugini africani.
Nel luglio 2012, in un parco nazionale dello Zimbabwe, 191 avvoltoi sono morti dopo essersi cibati di un elefante abbattuto e spruzzato di veleno dai bracconieri. Un anno dopo, circa 500 avvoltoi sono rimasti uccisi in Namibia dopo aver mangiato la carne di un elefante inondato anch’esso di veleno. Ma perché i bracconieri, interessati all’avorio, prendono di mira gli avvoltoi? «Perché questi avvisano i guardacaccia della loro presenza volteggiando sopra i cadaveri di elefanti e rinoceronti», spiega la Ogada. I bracconieri sono responsabili ormai di un terzo degli avvelenamenti causati agli avvoltoi nell’Africa orientale.
Anche alcune pratiche culturali mietono vittime fra gli avvoltoi. Come spiega André Botha del gruppo avvoltoi dell’IUCN, molti uccelli rinvenuti presso le carcasse di animali uccisi dai bracconieri sono privi della testa e delle zampe, evidentemente venduti come rimedi della muti, la medicina tradizionale. Nei mercati dell’Africa meridionale è facile acquistare parti di animali ritenute in grado di curare malattie o di infondere forza.
Ma le maggiori minacce all’esistenza degli avvoltoi africani restano la disponibilità e l’uso diffuso dei veleni. La FMC di Philadelphia, casa produttrice del Furadan, ha cominciato a ritirare il composto dai suoi distributori in Kenya, Uganda e Tanzania e ne ha sospeso la vendita in Sudafrica. Il composto, però, è ancora reperibile nella sua variante generica. L’agricoltura è la seconda fonte di reddito del Kenya e il paese si avvale da tempo di sostanze tossiche per combattere epidemie e infestazioni. Chiunque può entrare in un negozio e acquistare pesticidi altamente tossici per meno di due euro. «L’agricoltura ai tropici non esisterebbe senza pesticidi», dice Charles Musyoki, del Kenya Wildlife Service. «Occorre educare la popolazione all’uso corretto e sicuro di questi prodotti».
La popolazione sa che i carbofuran sono economici, affidabili e, se paragonati al dover inseguire e infilzare un predatore, privi di rischi. E a tutt’oggi nessuno è stato processato per uso di veleno sugli avvoltoi. «Avvelenare un predatore fa parte della cultura locale», dice Ogada. I gruppi indigeni hanno sempre protetto le loro mandrie, e i discendenti degli europei, che introdussero l’uso di veleni sintetici a buon mercato, abbattono mammiferi e uccelli carnivori africani da più di tre secoli.
Dopo una lunga giornata trascorsa a parlare con i mandriani masai, Virani e Ogada attendono con ansia il tramonto, il momento in cui si accenderanno le luci elettriche. Nel crepuscolo, Virani parcheggia la jeep davanti a un gruppo di case in una zona desertica tra i 20 mila ettari dell’area protetta Mara Naboisho a est e i 150 mila della riserva del Masai Mara a ovest. Sotto un cielo tempestato di stelle Virani fissa un boma e, quando vede accendersi una decina di lampadine appese a un filo tra i pali del recinto, produce un gran sorriso.
Gli organizzatori dei safari in mongolfiera, che iniziano le ascensioni prima dell’alba, si sono lamentati dell’inquinamento luminoso. Ma per Virani quelle lampadine collegate a una batteria solare sono un miracolo, il modo più sicuro ed economico per tenere lontani i predatori dai recinti del bestiame e bloccare gli avvelenamenti.
«Le luci costano tra i 25 mila e i 35 mila scellini per ogni boma», dice Virani, cioè tra i 220 e i 320 euro, una cifra coperta per metà dal Peregrine Fund. «Basta impedire anche una sola predazione e la spesa è ripagata». Nei primi sei mesi di impiego in questa parte del Mara, gli attacchi dei leoni ai 40 boma illuminati sono diminuiti del 90 per cento. Carnivori ed elefanti – che fanno la spola fra le oasi e la riserva, attraversando spesso gli orti dei Masai – continuano a evitare le luci, ma l’assenza di manutenzione e la cattiva gestione degli impianti (ai quali per esempio si sottrae corrente elettrica per ricaricare i telefonini) hanno ridotto 1’efficacia del sistema. Ciò nondimeno, la richiesta di illuminazione sorpassa la capacità di fornitura.
Nel Serengeti, circa 250 chilometri a sud del Masai Mara, la luce dell’aurora illumina tre iene immerse fino al collo in uno gnu morto. Il pubblico di pennuti radunato intorno avanza ogni tanto, ma le iene lo respingono alzando il mento e mostrando i denti. Gli avvoltoi capiscono l’antifona. Fra bipedi e quadrupedi c’è rispetto reciproco: le iene contano sugli avvoltoi per individuare la preda e gli avvoltoi contano sulle iene per aprirla alla svelta.
Alla fine le iene, sazie, si ritirano, cedendo il posto a un assiepamento di uccelli. La carcassa dondola avanti e indietro mentre una ventina di avvoltoi strappano, succhiano, spaccano, strattonano. All’improvviso scende dal cielo un avvoltoio orecchiuto e si fa largo a testate fra altri due della sua specie che stazionano innocenti ai margini del gruppo. Poi si gira, china il capo, solleva le ali imponenti e monta trionfante sullo gnu. «Sono animali affascinanti», dice Simon Thomsett, esperto di avvoltoi dei National Museums of Kenya, osservando la scena col binocolo. «Certo non staremmo lì a guardare un leone per così tanto tempo».
Passano le ore e c’è un gran viavai di esseri insanguinati: iene, sciacalli, cicogne, aquile spazzine e quattro specie di avvoltoi. Malgrado il caos, ognuno riesce a ricavarne qualcosa.
Thomsett e la Ogada hanno riflettuto a lungo su cosa succederebbe se gli avvoltoi venissero eliminati da questo cast di personaggi. Dopo due anni di esperimenti sul campo con carcasse di capra, Ogada ha constatato che, in assenza di avvoltoi, i corpi impiegavano quasi tre volte tanto a decomporsi, che il numero di mammiferi arrivati alle carcasse triplicava e che questi si trattenevano presso la carcassa quasi il triplo del tempo.
Perché hanno importanza questi dati? Perché più tempo trascorrono insieme sciacalli, leopardi, leoni, iene, genette, manguste e cani alle prese con una carcassa, maggiore è la probabilità che diffondano agenti patogeni – che nello stomaco degli avvoltoi muoiono – ad altri animali, sia selvatici che domestici. Mangiando placenta di gnu, mi dice Thomsett, gli avvoltoi prevengono anche nei bovini la febbre catarrale maligna, un herpes spesso fatale. E riducendo una carcassa a un mucchio d’ossa in poche ore, eliminano le popolazioni di insetti legati a malattie oculari dell’uomo e del bestiame. «Se pensiamo ai servizi che rendono all’umanità, gli avvoltoi sono più importanti dei grandi mammiferi che tutti vengono qui a vedere», dice. Gli studiosi sono convinti che la loro scomparsa innescherebbe una catastrofe ecologica ed economica.
Benché la causa immediata del declino degli avvoltoi siano gli avvelenamenti, Thomsett osserva senza giri di parole che il motivo all’origine è un altro: troppa gente. Si calcola che la popolazione keniota, dai 44 milioni odierni, raggiungerà nel 2050 gli 81 milioni. E i Masai sono tra i gruppi etnici del paese che crescono più in fretta.
Thomsett elenca le minacce antropogeniche agli avvoltoi del Kenya: intorno alle aree protette, spiega, gli agricoltori piantano mais e frumento; meno pascoli significano meno ungulati a disposizione degli avvoltoi. Lo Stato, inoltre, non è riuscito a bloccare le trivellazioni di pozzi geotermici a meno di 300 metri dai luoghi di nidificazione di specie a rischio. Gli avvoltoi muoiono anche sbattendo contro i fili dell’alta tensione. E il Kenya Wildlife Service non solo non ha attuato, ma non ha nemmeno ancora stilato, un piano strategico per tutelare le specie di avvoltoio a rischio.
Nel dicembre del 2013 il Kenya ha approvato una legge che prevede fino a 20 milioni di scellini (180 mila euro) di multa o l’ergastolo a chiunque sia coinvolto nell’uccisione di una specie a rischio di estinzione. E pare che il Kenya Wildlife Service stia progettando una campagna per mutare la percezione degli avvoltoi. Ma in mancanza di indagini più approfondite e di leggi contro gli avvelenamenti, questo genere di campagna – concordano Thomsett e Ogada – non basterà a salvare gli uccelli della regione. Un provvedimento più rapido ed efficace, dicono, sarebbe accettare la proposta di un proprietario terriero del Kenya sudoccidentale, che si è detto pronto a vendere allo Stato il terreno in cui sorge uno dei siti più importanti del paese per la riproduzione di una specie gravemente minacciata come l’avvoltoio di Rueppell.
Thomsett continua a osservare gli avvoltoi che sguazzano nel putridume finché gli uccelli si saziano e lo gnu sembra solo un rugoso tappeto grigio-azzurro con gli zoccoli. Nei giorni a venire, ogni avanzo di pelle o tendini verrà cancellato dagli elementi e da insetti, funghi e microbi. Le ossa più grandi dell’ungulato sopravvivranno per anni, ma i suoi elementi fondamentali proseguiranno intanto il ciclo: nel terreno, nella vegetazione e in tutti i magnifici avvoltoi che oggi si sono nutriti di tanta generosa abbondanza.