Andrea Cangioli, GQ 1/2016, 12 gennaio 2016
LEONARDO DICAPRIO INSEGUE L’OSCAR DA VENT’ANNI, ORA CON THE REVENANT DI IÑÁRRITU, POTREBBE FARCELA
Si dice che DiCaprio goda dell’ammirazione di Vladimir Putin: «DiCaprio è un uomo vero», avrebbe dichiarato il presidente russo, colpito dalla determinazione con la quale l’attore ha affrontato alcune battaglie ambientaliste in terra russa. Non è cosa da poco né priva di pericoli.
Talento straripante, carattere forte, voglia di vivere con il rischio: sono questi i tratti che accompagnano Leonardo sin da giovanissimo. A Hollywood continuano a ricordare come, a dieci anni non ancora compiuti, tenne testa a un potentissimo agente che voleva imporgli di cambiare il cognome “troppo etnico”. Leonardo disse che la vita era sua, il nome era suo, e uscì orgogliosamente dalla stanza, seguito da una sbalordita mamma.
Trent’anni dopo, DiCaprio e la più grande star maschile vivente e nello stesso tempo l’antidivo per definizione. Si è tirato fuori dal sistema dello show business e dai suoi rituali: è più facile incontrarlo tra la folla di una manifestazione per i diritti delle popolazioni indigene che su un red carpet. L’ultimo suo azzardo è The Revenant – Redivivo, un film già diventato leggenda per via della complessa e travagliata produzione. Un affare tanto rischioso da fare rinunciare persino il re dei testardi, Christian Bale.
Ambientato nella frontiera inesplorata del West, il film si basa su una storia vera: quella di un cacciatore dato per morto dai compagni di spedizione, i quali uccidono anche suo figlio. Sopravvissuto invece miracolosamente, l’uomo parte a caccia di vendetta, affrontando da solo tundre ghiacciate, branchi di animali selvatici, tribù native e ogni ostacolo immaginabile.
Ci sono voluti allenamenti durissimi e nove mesi di riprese pericolose, su e giù tra Canada e Argentina, alla ricerca della neve e della perfetta luce crepuscolare desiderata dal regista Alejandro G. Iñárritu e dal direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, lo stesso team (vincente) di Birdman. Bastano pochi secondi del trailer per vedere gli effetti del film sul volto di DiCaprio: chiazze violacee sugli zigomi, labbra spaccate dal freddo, capelli lunghi e unti, barba cosparsa di pezzi di ghiaccio. Nessun effetto computerizzato, così come non è assolutamente virtuale la scena di lotta corpo a corpo con l’orso.
I maligni dicono che DiCaprio avrebbe fatto tutto questo per implorare quell’Oscar che gli è sfuggito di mano cinque volte. O forse ci sta chiedendo, una volta per tutte, di dimenticare Titanic: non è più un idolo per ragazzine, un bel viso da schiaffare su poster e blog di gossip; Leo oggi è un attore, che vive e si nutre di cinema, e di alti ideali.
Cosa significa questo film nella sua carriera?
«Penso più che altro a quello che ha significato per me, e a come mi ha cambiato nel profondo. Per le condizioni in cui abbiamo vissuto, per l’immedesimazione nel percorso emotivo di un uomo che cerca di sopravvivere con tutti i mezzi. Spesso ho avuto la sensazione di svanire in mezzo a qualcosa di più grande».
Lei ha detto che voleva mettere in scena un tipo di americano diverso dal solito. In che senso lo è un cacciatore del West?
«Da un lato, il protagonista incarna un certo spirito americano, quello che esalta la volontà individuale, l’abilità di conoscere la natura e di farne parte. Dall’altro, il film descrive il primo capitolo della cavalcata capitalista verso il West, usato come forziere di risorse da sfruttare: prima la caccia indiscriminata per il commercio dei pellami, poi la corsa all’oro, poi le trivellazioni per il petrolio. Tutto a scapito dell’ambiente e delle popolazioni indigene».
Con Scorsese ha messo in scena diversi personaggi storici o simbolici della cultura statunitense. È stato diverso avere un regista messicano come Alejandro G. Iñárritu?
«Adesso che mi ci fa riflettere vedo una somiglianza di fondo tra i due. Martin è un newyorkese che da sempre tenta di entrare a Hollywood con storie diverse, è l’eterno outsider. Mentre Iñárritu è uno straniero. Entrambi hanno un punto di vista non convenzionale. Forse è questo che li accomuna e che mi attira di loro».
Alcuni membri della squadra hanno abbandonato il set per la difficoltà delle riprese. Lei come le ha affrontate?
«L’idea di questo film girava da anni, si diceva che solo dei pazzi l’avrebbero accettata. Un mucchio di uomini pelosi che per mesi vivono in baite di legno, nel profondo Nord, cercando di non impazzire... Sapevamo che non saremmo andati a girare in uno studio con tutti i comfort e che, prima o poi, ci sarebbero state bufere di neve. Quando arriva la tempesta c’è solo una cosa da fare: ballare al ritmo di quella musica».
Ha mai pensato di rinunciare?
«Quando nel film vedrà la mia espressione mentre addento un fegato crudo di bisonte, capirà. Mi sono chiesto decine di volte se volessi continuare a rischiare l’ipotermia, o a girare le scene più difficili che mi siano mai capitate. Entrare e uscire da fiumi gelati e dormire dentro la carcassa di un animale non rientrano tra le mie occupazioni preferite».
Avete inseguito il freddo e la neve dal Canada all’Argentina, e girato solo due ore al giorno, per usare il tipo di luce naturale desiderato dal regista...
«La tecnica è stata importante per ottenere l’effetto voluto, ma doveva rimanere sullo sfondo. Alejandro voleva che sembrasse un misto di neorealismo, documentario e film epico. Voleva che si avesse l’impressione di entrare dentro l’azione, e stare a due centimetri dalla testa dei protagonisti. I registi che ammiro mettono in primo piano le persone, non il virtuosismo o gli effetti speciali».
Girano voci di stranezze sul set, tipo che avete chiamato stregoni a fare cerimonie propiziatorie.
«Abbiamo chiesto a sacerdoti nativi d’America di fare una cerimonia all’inizio e una alla fine delle riprese. Hanno benedetto il film e la terra. Non ho vissuto quelle esperienze come un tentativo di scacciare una maledizione, anche perché non sono superstizioso».
Ha dovuto sottoporsi a una preparazione fisica specifica?
«Ho fatto molto training di sopravvivenza, imparando più di quanto avrei voluto su moschetti e trappole, e leggendo non so quanti diari di cacciatori di pelli. Poi arriva il giorno che devi tuffarti per davvero in quel contesto e ti accorgi della forza della natura. È stata molto dura, per tutti».
È noto il suo impegno a favore dell’ambiente, al di là di questo film. Da dove è nato questo suo interesse?
«Sono cresciuto a Los Angeles, poco verde e tanto smog. Nei weekend mi portavano al cinema a vedere film sull’Amazzonia e sulle specie da proteggere. Ogni volta che la foresta tropicale appariva davanti ai miei occhi pensavo: “Dio, questo esiste veramente?”. Anni dopo ci sono andato e ho fatto anche delle immersioni subacquee, le più incredibili della mia vita».