Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  gennaio 12 Martedì calendario

PAPI, CARDINALI E I FAGIOLINI DELLA SIGNORA AMELIA

Alle 6 e 50 già si sa come andrà il mondo. È pronto il calendario dei vertici internazionali, le borse orientali hanno emesso i loro vagiti e alle agenzie è arrivato il mattinale dell’ennesimo blitz anticamorra. Ma sopra ogni altra cosa si conosce il menu della signora Amelia, la mia vicina di casa, da cui mi divide un muro di cartongesso penetrato come burro dalle sue parole, che odo distinte e persino amplificate. Oggi pollo. Lo ha comunicato al telefono, a qualche parente annoiato, con l’impudicizia di chi ha sempre le idee troppo chiare. Fra poco più di un’ora l’inquilina del secondo piano suonerà alla sua porta. Poi si avvieranno insieme – carrelli sincronizzati – verso il lusso periferico della seconda colazione al bar; quindi al mercato, come regine in borghese, faranno leva sull’avambraccio del fruttarolo finché questi, vinto da un interrogatorio estenuante, non confesserà che sì, i fagiolini oggi non sono freschi freschi. Infine il rientro ondulato, appagato, in mezzo al discreto frastuono di poco discrete risate.
Non sono ancora le 9 quando la vita sociale della signora Amelia ha disintegrato, ai punti, quella del sottoscritto.
Dai pittoreschi anfratti del centro fino alle asettiche architetture delle sue estremità, Roma è dominata dagli ottantenni. Interi quartieri finiti in mano agli anziani per usucapione morale. La vita, qui, pare esprimere il suo senso compiuto solo quando si avvicina – sfacciata – alla morte; c’è un darsi da fare, tra i canuti padroni della città, che irretisce la frivola effervescenza di noi giovani e meno giovani indecisi a tutto. Ospiti, per sempre ospiti, di un’esistenza che non ci riguarda.
I vecchi di Roma sono papi, cardinali, preti. Sono vecchi gli osti e gli stornellatori, i pizzicaroli coi pomodori secchi in vetrina, i meccanici, i gestori di sale d’essai, dei ferramenta, gli amministratori di condominio, molti automobilisti, gli attori, gli attori in disgrazia, gli attori famosi.
Vecchi sono gli ortolani e vecchi i loro clienti. Sono vecchi gli opinionisti, gli esperti di calcio delle tivvù locali microfonati sul cardigan all’altezza del terzo bottone, i palazzinari e i capi del comitato contro gli sfratti con la barba di cinque giorni. Vecchi sono quelli che fanno i caffè nei bar con le sedie rosse dell’Algida, vecchi quelli che correggono il caffè, i possessori di centesimi, i pagatori al dettaglio che non si fidano dei resti, che non si fidano di tutto il resto, quelli che non si fidano mai. Se il conto è 5 euro e 71, aprono il borsello e approntano una recita fingendo di smarrirsi nel caleidoscopio delle monete ramate. Mosso a pietà, il cassiere si offre di contarle al posto loro, ma sempre nelle loro mani, in quelle mani malpensanti aperte a metà. Guarda un po’, giusto 5 euro e 71: i maledetti lo sapevano da prima, si erano preparati il malloppo a casa, certi di spendere esattamente quella cifra dopo aver studiato per due giorni i dépliant del supermercato.
Vecchie a Roma sono le case dei vecchi. Grandi, brutte, pulite, impenetrabili e riscaldatissime. Una buona fetta del global warming viene da lì, da termosifoni che pompano a manetta nelle ore più impensate.
Sui pullman di Roma gli ottantenni romani si siedono tutti davanti, anche a costo di stare stipati e compressi. Non è vero che stanno lì perché gli fa male il viaggio: stanno lì perché devono controllare tutto. Una vigilanza, atavica e perpetua, su ogni singola circostanza del mondo.
Negli uffici postali c’è sempre quello che se ne esce incazzato, sbattendo la porta, ostentando il tranello della burocrazia in cui è incappato e sfumando tra le madonne la mimica di un grave torto subito. La fila, la gente, l’altro, il confronto col mondo: tutto diviene pretesto per ingrandire la croce che si devono portare addosso. Io in questi casi tifo per i funzionari, anche i più maleducati. Tifo per loro, senza se e senza ma.
I vecchi romani ti chiedono come va con quella. Tu fai capire così così e loro sogghignano che la sanno lunga. “‘Na botta e via”, bofonchia uno, in mezzo all’approvazione sguaiata dei suoi coetanei. E tanto per non farsi mancare nulla accompagna la gemma filosofica col gesto della mano.
Il vecchio romano urla, sovrasta, ingombra. E non ne ha alcuna vergogna. La discendenza diretta da Giulio Cesare lo autorizza a piazzarsi al centro del marciapiede, fregandosene dei dribbling a cui costringe i passanti, e a stare tre decibel sopra chiunque. La cacca della nipote, la cicoria fuori stagione, il rosso a De Rossi. Tutto acquista pari dignità nel burlesco e lamentoso dolby surround della conversazione. La conversazione obbligatoria. Perché non basta salutarli, no. C’è un diritto di dogana che prevede una sosta di almeno tre minuti sul primo luogo comune disponibile. “Aò, prima eri un regazzino e mo’ guarda quanto sei cresciuto”. Grazie al cazzo. Però pure noi, che pena. Usiamo i vecchi per prenderci il complimento gratuito, scansafatiche, ai nostri prodigiosi progressi ormonali, promettendoci in silenzio che mai e poi mai diventeremo come loro. E invece. Invece, come i vecchi, ripetiamo sempre le stesse cose. Con l’aggiunta di un altro grande, orrendo, imperdonabile difetto: ripetiamo sempre le stesse cose.