Marco Del Corona, La Lettura 10/1/2016, 10 gennaio 2016
I BAMBINI DI MO YAN SONO TANTO BUONI (BOLLITI, BRASATI O SALTATI IN PADELLA)
I bambini di Jiuguo sono buoni. Come sono buoni a Jiuguo non lo sono da nessuna parte al mondo. Bolliti, brasati, saltati in padella. Serviti seduti su un vassoio, con un’espressione radiosa sul volto, perfettamente dorati. Saporitissimi, secondo ricette messe a punto dalla locale Accademia di cucina, dove i piccoli sono raccolti (previa vendita da parte dei genitori), ben nutriti, quindi delicatamente macellati senza che scompaia loro il sorriso, merito di sofisticate tecniche. Nulla da temere: «I bambini che sgozziamo e cuciniamo non sono esseri umani. Sono bestioline di forma umana che vengono prodotte sulla base di un regolare contratto sottoscritto tra le due parti al fine di soddisfare le esigenze particolari dello sviluppo economico e della prosperità di Jiuguo».
È Mo Yan che ci introduce alle cruente bizzarrie de Il paese dell’alcol (questo, letteralmente, significa jiuguo in mandarino), un romanzo che in Cina ha avuto doppia vita: scritto fra la fine dell’89 e il ’92, pubblicato nel ’93 e nuovamente, in una versione rivista, nel 2000. Il premio Nobel 2012 per la Letteratura lo fa mettendo il lettore alle costole dell’ispettore della Procura suprema Ding Gou’er, a sua volta spedito alle costole di chi, in una fittizia città celebre per la produzione di liquori, si delizierebbe banchettando a carne di bimbi. Funzionari corrotti, dirigenti cannibali.
Non sarà facile, per Ding. Che comincia l’indagine da una miniera e casca male. Subito invitato a cena — un’offerta che non può rifiutare — finisce sbronzo contro i suoi migliori propositi, assistendo agli svolazzamenti della sua coscienza, liberata a colpi di brindisi dal corpo. Da quel momento, e siamo agli inizi del libro, l’indagine si fa complicata. Sulla sua strada camioniste seduttrici, irosi veterani della rivoluzione, bestie fantastiche, un dedalo di miti e di falsi indizi che non portano da nessuna parte.
Al lettore è riservato un trattamento non meno impegnativo, peraltro ripagato da pagine struggenti (la caccia ai nidi di rondine nella caverna), da una scrittura esuberante, dove si succedono metafore ingegnose: la bottiglia «a terra di traverso, come un bel giovane colpito da una pallottola in battaglia» o i piedi che inseguono le «scarpe puzzolenti» e «sembrano due paguri bernardo in cerca della propria conchiglia». Il romanzo, infatti, si muove su quattro piani distinti, a capitoli alterni: la narrazione delle grottesche gesta di Ding; le lettere di uno scrittore dilettante di Jiuguo a un personaggio che si chiama Mo Yan; le risposte del personaggio Mo Yan allo scrittore dilettante; i racconti dello scrittore dilettante che cerca di farsi pubblicare da una rivista letteraria. Il disegno dell’intera storia emerge dalla combinazione dei quattro livelli e il lettore viene invitato a fare la sua parte, a immaginarsi la verità, se la verità può mai avere domicilio nel «paese dell’alcol».
Mo Yan pratica spesso un’estetica della crudeltà. E con profitto. Lo sanno i lettori di Sorgo rosso, dell’insostenibile (a tratti) Il supplizio del legno di sandalo, di Le canzoni dell’aglio. Estetica della crudeltà che vira verso il paradossale e l’umorismo macabro. Sono registri espressivi capaci di intercettare lo spirito dei tempi e del luogo, la Cina, se la fine di Ding, che muore annegato in una fogna, verrà riecheggiata nel 2005 da Yu Hua nel suo capolavoro Brothers, con la morte del padre di uno dei protagonisti che affoga in una latrina. Nel caso di Il paese dell’alcol, poi, è lo stesso autore a richiamare forse un antecedente nobile, Lu Xun (1881-1936), gigante del Novecento letterario: i «bambini da macello» che Mo Yan immagina sembrano quasi una estrema mutazione del rimedio che nel racconto Medicina un padre tenta per il figlio tubercolotico, quei «panini inzuppati nel sangue umano» che in Cina ormai evocano subito chi specula sul sacrificio altrui.
L’impianto e i temi suggeriscono che anche Il paese dell’alcol sia una grande allegoria. Scrivendolo a poco più di dieci anni dall’avvio delle riforme economiche di Deng Xiaoping (1978) e del suo «arricchirsi è glorioso», Mo Yan — così cauto e ortodosso nelle sue dichiarazioni pubbliche — qui attacca la corruzione, le stravaganze, l’amorale voracità, l’ubriacatura per la ricchezza scatenate dalla liberalizzazione. Irride l’appellarsi ipocrita e strumentale al «popolo» e ai capisaldi ideologici della Cina comunista. E i genitori che vendono all’Accademia di cucina i loro figli denunciano una Cina che vende se stessa e si cannibalizza.
Certo: le pagine anticipano profeticamente la cronaca, vedi la feroce campagna anticorruzione dell’attuale leader Xi Jinping, scatenata nel 2013. Ma non è della Cina che parla Mo Yan, non soltanto della Cina. Ovviamente parla di noi. Perché anche a noi piacciono tanto i bambini.
@marcodelcorona