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 2016  gennaio 09 Sabato calendario

La demografia nell’Italia che non fa più figli


NATALIA DISTEFANO CORRIERE DELLA SERA 2/1 – 
Chi apre gli occhi alla vita, chi festeggia l’ingresso nel suo secondo secolo. Si chiama Marco Filippo il primo nato del 2016 a Roma: il bimbo, di origini peruviane, ha visto la luce alla mezzanotte esatta nell’ospedale Cristo Re, che bissa così il primato ottenuto lo scorso anno con il piccolo Tommaso. Il bimbo pesa 3,560 chili ed è figlio di una coppia di origini peruviane che da tempo vive in Italia.
Si chiama invece Fortunata Fosca, anche se tutti la chiamano Titti, la nonnina che ieri ha festeggiato i cento anni, essendo nata il 1° gennaio 1916. Maestra elementare per oltre trent’anni nella scuola di Rebibbia, ha avuto due figlie, due nipoti ed è bisnonna. Vive a Città Giardino, in zona Montesacro.

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CLARIDA SALVATORI, CORRIERE.IT 1/1 –
È un maschietto, ha origini peruviane il primo nato dell’anno a Roma e si chiama Marco Filippo. Il bimbo è venuto alla luce a mezzanotte e un secondo all’ospedale «Cristo Re», fra i felici «urrah!» di benvenuto dell’equipe medica che ha assistito al parto.
Il piccolo pesa 3 chili e 560 grammi ed è figlio di una coppia di peruviani che vivono da tempo in Italia e parlano benissimo l’italiano, spiegano dalla sala parto dell’ospedale. Marco Filippo fa parte di una famiglia numerosa: ha infatti altri tre fratelli.
Un altro maschio, il secondo nato del 2016 per una manciata di minuti, è venuto alla luce a mezzanotte e sette all’ospedale San Camillo: questa volta si tratta del figlio di una coppia di italiani. Romano anche un altro maschietto nato a mezzanotte e venti all’ospedale Villa San Pietro dove poi, nel corso della nottata e fino all’alba, sono nati altri nove bimbi. Un altro ancora è nato all’1,06 del mattino al Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina. Subito dopo di lui, ne sono venuti al mondo altri 4.
L’ospedale di via delle Calasanziane si è aggiudicato il primato del primo nato nella Capitale per il secondo anno consecutivo. Anche il primo gennaio del 2015 infatti poco dopo la mezzanotte era venuto al mondo il piccolo Tommaso, da mamma Adina Carmen e papà Livio: pesava 3 chili 140 grammi. Alla famiglia aveva portato i saluti della città l’allora vice sindaco, Luigi Nieri.

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ROBERTA CARLINI, PAGINA99 2/1 –
Meno 110.125. Bilancio italiano in rosso, e stavolta non si parla di economia. Da gennaio ad agosto del 2015, la popolazione italiana è diminuita. È la prima volta che accade da un secolo. I dati sono ancora provvisori, ma con tutta probabilità l’anno appena passato segna una svolta storica. La demografia italiana imbocca la strada discendente.
Pesa un aumento anomalo dei decessi, sulle cui cause il mondo scientifico e quello politico discutono: influenza killer, grande freddo e grande caldo, tagli alle cure, sono diversi i fattori che possono aver colpito gli anziani. Ma pesa anche, e in modo più strutturale, la fine dell’effetto-stranieri. Si riducono i nuovi ingressi, vanno via molti immigrati, anche le donne straniere fanno meno figli. Questi i dati del bilancio demografico dell’Istat, che contano mese per mese i residenti che spariscono e quelli che arrivano. I numeri di una decrescita poco felice.
L’onda lunga delle ristrettezze economiche. I tagli alla sanità e alla prevenzione. Il grande freddo e il grande caldo. L’influenza, e la nuova psicosi anti-vaccini. Fino allo smog, come ha detto Grillo facendo due più due sui titoli dei giornali. I sospetti killer del 2015, quelli che hanno portato nella prima metà dell’anno a un picco anomalo dei decessi su suolo italiano, potrebbero avere vari moventi: economici, climatici, medici, contabili. Ma mentre la discussione si infiammava, e non sempre con cognizione di causa, è rimasto nell’ombra un altro dato demografico dell’anno, che porta con sé una clamorosa inversione di rotta: per la prima volta da quasi un secolo cala il numero complessivo dei residenti sul suolo italiano.
Il declino è iniziato a gennaio 2015 ed è proseguito senza interruzioni. Salvo improbabili recuperi dell’ultim’ora, siamo di fronte al primo bilancio demografico in rosso dall’anno 1919. Dovuto a tre fattori: più morti, meno nascite e – soprattutto – meno stranieri. Proprio mentre sale, sul mercato della politica, la paura dell’invasione, gli invasori se ne vanno: e con loro il contributo positivo che hanno portato alla bilancia demografica italiana da 30 anni in qua.

L’aumento dei decessi
«Qui sta succedendo qualcosa». La demografia è una scienza lunga, che ha bisogno di tempo per incamerare, elaborare e digerire i numeri. Ma Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’università di Milano Bicocca, pensa che stavolta ci sia più di un indizio per suonare subito un campanello d’allarme. Nei primi otto mesi dell’anno che abbiamo appena salutato, ci sono stati 45.121 morti in più rispetto allo stesso periodo del 2014. Non sono pochi: in termini percentuali, l’aumento è superiore al 10%. Certo, il bilancio, benché triste, non è definitivo. Siamo per ora ai dati mensili che fornisce l’Istat, e mancano ancora i mesi da settembre a dicembre. Eppure l’incremento è netto, verificabile mese per mese, inesorabile. Speculare al declino delle nascite. Ma in tutti e due i casi, avvertono i demografi, c’è un effetto-popolazione: visto che ci sono molti meno giovani in circolazione e molti più anziani (con tantissimi “grandi anziani”, gli over 85), è ovvio che si nasce di meno e si muore di più.
«Possono esserci fluttuazioni da un anno all’altro, ma nell’ambito di una tendenza ormai storica, all’aumento dei decessi», avverte Sabrina Prati, demografa dell’Istat che segue i numeri della popolazione dalla culla alla tomba. Quello che è successo nel 2015 rientra in queste normali oscillazioni? «No, c’è qualcosa di anomalo», dice Blangiardo a pagina99. «Le modifiche della struttura della popolazione non spiegano che in minima parte la maggior frequenza di decessi», ha scritto sul quotidiano cattolico Avvenire: l’invecchiamento della popolazione giustificherebbe circa 16 mila decessi in più, da dove vengono tutti gli altri? Per dirlo con precisione, bisognerebbe aspettare i dati finali, le tavole di mortalità per età, le informazioni sulle cause dei decessi. Ma per adesso, afferma con preoccupazione Blangiardo, «vediamo con chiarezza un fenomeno di dimensioni e intensità forti, che non può essere casuale».
Il demografo si è messo sulle tracce dei killer del 2015: un indizio viene da Milano, dove i dati degli stessi mesi divisi per età segnalano un’impennata di decessi tra le persone con più di 65 anni, soprattutto tra le donne. I più colpiti sono stati gli anziani con più di 85 anni: i decessi sono quasi raddoppiati, sia tra gli uomini che tra le donne. Vecchi e grandi vecchi, i gruppi più fragili, più esposti agli eventi avversi. Tra i quali, c’è anche un ambulatorio meno aperto, un accertamento meno sollecito, una cura rinviata. «I tagli dei servizi pubblici condizionano le nostre vite. Ogni scelta pesa, stiamo attenti a quei morti».
Uno scenario greco per l’Italia, con un peggioramento della salute legato all’austerità (o ai disservizi) che arriva fino a cambiare le tavole di mortalità? Non possiamo dirlo ancora con certezza. Ma «ascoltiamo cosa ci dice questo evento straordinario, è un segnale importante che deve essere valutato sia dal mondo scientifico che da quello politico, dalla pubblica amministrazione e dai responsabili del welfare».

Vaccini e termometri
In attesa di prove scientifiche, c’è anche da guardare ad altri indizi, su quel che può essere successo. Dall’Istat Sabrina Prati è molto cauta nell’interpretazione di questi dati: in attesa del bilancio finale dell’anno, che potrebbe anche ridimensionare il fenomeno, confronta l’aumento dei decessi del 2015 con le riduzioni che si sono avute nei due anni precedenti (il 2013 segnò un calo di morti del 2%, il 2014 una riduzione molto più lieve, dello 0,4%). Se stavolta l’oscillazione sembra molto più netta, le cause potrebbero essere rintracciate anche in altri «eventi avversi»: le condizioni meteo, e l’influenza. Potrebbe esserci stato un effetto di recupero dall’anno precedente, e l’impatto di fattori climatici che aggrediscono e debilitano gli anziani. Il freddo ha fatto ammalare di più, favorendo la diffusione dell’influenza stagionale. E qui arriva un altro sospetto killer: il panico che si è diffuso nell’autunno del 2014 in seguito al ritiro del vaccino antinfluenzale Fluad, da parte della Novartis.
Quel vaccino era solo uno tra i vari disponibili, e i medici continuarono a invitare la popolazione a rischio a vaccinarsi. Ma senza riuscirci se non in parte. Anzi, i dati a consuntivo ci mostrano adesso che c’è stata, nell’inverno 2014-2015, una fuga dalla vaccinazione contro l’influenza. La copertura del vaccino nelle persone sopra i 65 anni è scesa dal 55,4 al 49%, dicono i dati del ministero della salute. E questo a fronte di un’influenza che, secondo il rapporto Influnet fatto sui dati epidemiologici che giungono al ministero della Salute, è da collocare al livello medio-alto nei confronti con gli anni precedenti, inferiore solo, per intensità, a quella del 2004-2005 e poi all’influenza dell’anno 2009-2010, l’anno dell’A/H1N1 (la “suina”). Quanto all’incidenza per età, i più colpiti sono stati ovviamente i piccolissimi (28 casi su 1000 bambini sotto i quattro anni), al secondo posto ci sono i bambini tra i 5 e i 14 anni, e al terzo, appunto, gli anziani, sopra i 65, con 4,1 casi ogni mille assistiti.
Per poter stabilire un nesso certo tra la riduzione dei vaccini antinfluenzali e l’aumento delle morti servirebbe conoscere le cause di morte. Ma uno studio pubblicato dalla rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia, relativo proprio alla stagione di cui stiamo parlando e alla zona di Milano, stima al 34% la riduzione del rischio di morte per influenza nella popolazione over 65 vaccinata, rispetto alle persone della stessa età non vaccinate.

Invecchiati e fragili
Che siano stati i tagli alla sanità, o solo il meteo e l’influenza, la prima fotografia statistica del 2015 ci consegna l’immagine di una popolazione invecchiata e fragile. Esposta. La seconda immagine è ancora più nitida: per la prima volta scende la popolazione residente su suolo italiano. Anche in questo caso bisogna leggere i dati mensili, da gennaio ad agosto. Il saldo naturale, la differenza tra nati e morti, è costantemente negativo: ma questa non è una gran novità, visto che il calo delle nascite è ormai una tendenza di lungo periodo. Accentuata, negli ultimi tempi, dall’impatto della baby recession (siamo tra i Paesi europei quello che più ha risentito dell’impatto della crisi economica sulla fecondità) e, per lo meno da quel che si vede per il 2015, da un aumento più sensibile anche dei decessi.
«La vera novità – sottolinea Sabrina Prati – è che è scesa, piano piano, la compensazione operata dagli stranieri». Per anni l’arrivo degli immigrati, soprattutto con le ondate delle regolarizzazioni, aveva compensato il declino del saldo naturale. E questo è successo per due strade: l’iscrizione all’anagrafe dei nuovi residenti, gli stranieri appunto; e il fatto che le donne straniere facevano molti più figli delle italiane, facendo salire così il tasso medio di fecondità. Adesso tutte e due le vene che portavano nuovo sangue alla circolazione italiana si sono assottigliate. E così «si è esaurito il contributo di vivacità che gli stranieri hanno portato nella nostra dinamica demografica», dice Prati.
Sembra strano a sentirsi, in un momento nel quale il discorso pubblico è focalizzato sulla paura dell’invasione. Eppure i numeri dicono questo. In parte, il fenomeno è dovuto alla stessa composizione dell’immigrazione, descritta dall’Istat così: «Sono sempre più rappresentate le comunità straniere che si caratterizzano per un progetto migratorio in cui anche le donne lavorano e quindi hanno una fecondità più bassa», come ucraine, moldave, filippine, peruviane ed ecuadoriane. Senza contare la tendenza, che si è vista anche in paesi di immigrazione più antica della nostra, per la quale man mano le donne straniere che arrivano tendono a avvicinarsi, nei comportamenti riproduttivi, a quelle locali, insomma cominciano a fare anche loro meno figli. E poi ci sono le storie di quelli che partono.
Come Catalin Floria, 27 anni, idraulico di origine rumena. Il papà è un edile, lavora in piccoli cantieri e sa fare un po’ tutto. I figli si sono specializzati, e ne ha uno per ogni pezzo delle ristrutturazioni che fa: elettricità, acqua, rifiniture. Hanno affittato una casa grande un po’ fuori Roma, a Guidonia, e tutte le mattine col loro furgoncino entrano nella capitale per lavorare. Da tre mesi Catalin non c’è più, è andato dalle parti di Stoccarda . «Non è che non c’è lavoro in Italia, io ho sempre lavorato. Ma lì pagano meglio, e le case costano meno, e posso pensare di mettere su famiglia», ha detto Catalin prima di partire. C’è anche un altro fatto, che lo ha convinto al gran passo. «Me l’hanno detto altri parenti che sono lì: se resto senza lavoro per qualche tempo, lo Stato dà la disoccupazione, non devo avere paura di non potere più pagare l’affitto».
Non è stato il solo, a partire. Secondo l’Ismu solo nel 2014 se ne sono andati dall’Italia 300 mila stranieri residenti. Un insieme di cause che ha fatto sì che il saldo migratorio, che per anni è andato a controbilanciare quello naturale, si sia via via assottigliato. A gennaio e ad agosto del 2015 è addirittura diventato negativo. Dai 60.795.612 di inizio gennaio, ai 60.685.487 di fine agosto del 2015. Mancano gli ultimi mesi, ma le previsioni degli esperti dell’Istat sono univoche: si chiuderà in rosso. Cioè ci sarà una riduzione netta della popolazione residente in Italia. Non era mai successo dal primo dopoguerra: neanche durante la seconda guerra mondiale, né negli anni duri prima del miracolo economico, e poi finché l’esaurimento del boom demografico è stato compensato dai flussi migratori. Adesso ci siamo, l’Italia è ufficialmente in via di rimpicciolimento. E non è una decrescita felice.

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FRANCESCO BORGONOVO, LIBERO 4/1 – 
Secondo i dati Istat, alla fine del 2015 i decessi in Italia potrebbero aumentare dell’11 per cento rispetto all’anno precedente. Fino ad arrivare a 666mila morti, un livello che non si toccava dai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma c’è un dato ancora più inquietante, e riguarda le nascite. Nel 2014, «le nascite sono state meno di 503 mila, mentre già in quest’anno scenderanno abbondantemente sotto il mezzo milione. E una cifra così piccola di nascite non avrebbe dovuto verificarsi mai, neppure nel lontano 2065». Lo ha scritto, sul Foglio, un acuto osservatore della società italiana, e cioè lo statistico Roberto Volpi. Toscano, ha progettato il Centro Nazionale di documentazione e analisi dell’infanzia e dell’adolescenza. Di sinistra, anzi «renziano» per sua stessa ammissione, è noto per le sue analisi appuntite, molto poco «corrette».
Ha scritto qualche tempo fa un bellissimo saggio intitolato Il sesso spuntato (Lindau), in cui ha raccontato «il crepuscolo della riproduzione sessuale in Occidente» e in cui ha spiegato – cifre alla mano – perché non facciamo più figli. Più che il numero alto di decessi, dunque, è la cifra bassissima di nascite che dovrebbe spaventarci e farci riflettere.
«Nella popolazione italiana», spiega Volpi a Libero, «ci sono molte più persone di 70-79 anni che non di 0-9 anni. È l’unica popolazione in Europa, anzi nel mondo in cui questo si verifica. Ci sono addirittura città e Province con più persone fra gli 80 e gli 89 anni che fra gli 0 e i 9 anni». Questa, secondo Volpi, è una popolazione che «non può reggersi in piedi a lungo, perché il calo delle nascite è patologico». Insomma, siamo un Paese in cui non si nasce più. «Quest’anno avremo nascite sotto il mezzo milione: fra le 490 e le 495 mila. Significa 8 nascite ogni mille abitanti. Nell’Europa dei Ventisette si nasce molto di più: 10 nascite all’anno ogni mille abitanti. Sapete che vuol dire? L’Europa è l’area del mondo in cui si nasce meno, e tuttavia a noi, rispetto a quest’area, mancano 120 mila nascite».
In più, c’è il disavanzo fra le nascite e i decessi.
«Si muore di più perché si è accumulato un numero formidabile di ultravecchi. Continuando così, il disavanzo fra nascite e morti sarà di circa 150 mila unità, forse 170 mila. E in futuro potrebbe essere anche peggio».
Qual è motivo per cui gli italiani non fanno più figli?
«A questo proposito dobbiamo porci parecchie domande. Perché sempre più coppie oggi non vogliono figli? Nella storia dell’umanità non si è mai verificata una cosa del genere. E poi: perché aumenta l’infertilità delle coppie? Perché tra le coppie che possono e vogliono avere figli, una su due non ne vuole più di uno?».
Appunto: perché?
«Perché non si ritiene più che la realizzazione della vita umana passi attraverso i figli. La rivoluzione femminile ha innescato questo processo. La donna ha le chiavi della natalità. Ma oggi la donna sente il bisogno di una realizzazione che va al di là del fare figli. Oggi l’istruzione ai livelli più alti è sostanzialmente femminilizzata. Arrivano alla laurea, al dottorato, ai livelli più alti degli studi sempre più donne rispetto agli uomini. E questo è un fattore decisivo. Così come il lavoro femminile».
Pare che le donne siano molto penalizzate sul piano lavorativo, almeno questo sostengono varie organizzazioni che si battono per i diritti femminili.
«Non è così vero. Ci sono interi settori professionali che si stanno femminilizzando. L’istruzione, per esempio, è completamente femminile. Pensiamo poi alla sanità, al sociale, alla magistratura. Non ci sono quasi più maschi. Interi settori della vita sociale italiana si stanno femminilizzando e in quesi settori si entra tardi».
In sostanza, le donne – nel periodo in cui potrebbero avere figli con più facilità – sono impegnate a fare altro.
«Non c’è solo questo. C’è anche un altro elemento che pesa, ovvero la caduta valoriale del matrimonio».
Si spieghi.
«Un tempo, il matrimonio era una tappa che doveva essere attraversata da tutti, tanto che chi non si sposava era considerato un fallito, uno che non riusciva a realizzarsi. Per entrare nello stadio adulto bisognava passare dal matrimonio, un’istituzione che aveva un senso laico e pure religioso. Oggi invece il matrimonio ha perso grandissima parte del suo valore. Vige il modello del “basta l’amore, basta il sentimento” per poter stare assieme. Il paradosso è che oggi il matrimonio lo vogliono quelli che non possono contrarlo, come gli omosessuali. Che un tempo lo aborrivano».
Il matrimonio è così determinante per la questione figli?
«È decisivo. I figli si sono sempre fatti nel matrimonio, sostanzialmente. Perché il matrimonio assicura stabilità».
Ma tantissime coppie non sposate fanno figli.
«In realtà questo assunto è un po’ ingannevole. Molti figli che nascono da coppie non unite in matrimonio sono il frutto di progetti matrimoniali che verranno realizzati successivamente. Molte coppie di fatto hanno un figlio e poi si sposano. Lo dimostrano i numeri. Oggi in Italia l’età a cui si arriva al figlio è precedente all’età in cui ci si sposa. Prima era il contrario. Adesso si fanno figli intorno ai 31 anni e mezzo, mentre ci si sposa intorno ai 32 e mezzo. Il figlio in media si fa un anno prima del matrimonio. Si procrea e poi ci si sposa. Significa che il matrimonio rientra sempre nella questione figli».
Per quale motivo i matrimoni sono crollati?
«Perché il matrimonio non assegna vantaggi, ma solo un maggior carico di responsabilità, da cui si tende a fuggire. Un tempo il matrimonio era fondamentale soprattutto per lo status dei figli. Quelli che nascevano al di fuori del matrimonio erano considerati illegittimi, avevano molti meno diritti. Oggi, giustamente, i figli avuti nel matrimonio e quelli avuti fuori sono a tutti gli effetti uguali. Ma questo, paradossalmente, fa venire meno il vantaggio del matrimonio».
Ci sono anche questioni per così dire «culturali», se il matrimonio è in crisi profonda.
«Certo, c’è l’idea che non ha molto senso istituzionalizzaare un rapporto sentimentale che – si pensa – si regge soltanto sul sentimento. Il pensiero laico in questi anni ha messo appunto una filosofia in base alla quale un legame di tipo affettivo si regge da solo. Inoltre la situazione non matrimoniale richiede molte meno responsabilità».
Ne consegue che è in crisi anche la famiglia.
«È indiscutibile. La famiglia in Italia ha avuto anni di grandissimo successo, come forse non ne ha avuto da altre parti. Però ha retto meno all’impatto del divorzio, che è caduto sulla famiglia italiana in modo formidabile. La famiglia è sempre stata legata al matrimonio, per quasi tutta la storia italiana. Oggi invece ci sono tipologie di famiglie sempre diverse in cui il matrimonio non appare se non quando proprio non se ne può fare a meno. Sono tutte tipologie di famiglia che hanno un minor tasso di responsabilità».
Faccia un esempio.
«Non ci sono solo le famiglie che derivano da coppie di fatto. Ci sono anche quelle basate su coppie di fatto non conviventi. È una tipologia che sta emergendo con forza, in cui ciascuno dei due genitori vive in una sua realtà, e non c’è coabitazione o convivenza. In pratica, si vive una vita assieme senza stare assieme. Quello che emerge è un forte individualismo, che ha ibridato se non proprio soppiantato l’idea di famiglia. L’individualismo ha fortemente cambiato e trasformato la famiglia».
In teoria, però, nella società attuale si dovrebbe fare più sesso. Anche perché il sesso è ovunque.
«In verità, oggi si fa meno sesso di quanto ne facessero le generazioni passate. Non c’è paragone fra il sesso che faceva – fino alla fine degli anni Sessanta – una donna fra i 23 e i 25 anni e quello che fa una donna della stessa età oggi.Fino ai Sessanta, le donne di erano praticamente tutte sposate. Oggi si hanno sicuramente più partner, ma si fa meno sesso. Persino sulla precocità dei rapporti sessuali – che viene fatta passare come un fatto acquisito – ci sono dati molto contraddittori. Non è vero che oggi si fa sesso a quindici anni».
Insisto: sulla carta, le occasioni di avere rapporti sessuali sono molto maggiori oggi.
«Questa non è una società in cui i rapporti avvengono così facilmente. Sappiamo tutti che oggi ci sono ambienti in cui si possono avere facilmente incontri sessuali. Ma appena si comincia a pensare a rapporti di maggiore tenuta, si entra in difficoltà. Non a caso proliferano ovunque le agenzie matrimoniali. Perché è difficile avere rapporti – umani, non solo sessuali – che non siano estemporanei».
Aumentano le morti, diminuiscono terribilmente le nascite. Siamo destinati a scomparire?
«Io non sono così pessimista. I primi sette mesi di quest’anno mostrano che, rispetto all’anno precedente, il numero di matrimonio ha tenuto. E questo mi pare un indice più decisivo rispetto al numero delle nascite».
Insomma, c’è una speranza di ripresa, se non per il futuro.
«Sì, ma va coltivata. O si agisce da un punto di vista culturale o si arriverà davvero a dei punti limite. Anche perché, a un certo momento, persino le politiche nataliste non funzionano più. Da noi non hanno mai trovato un’applicazione organica, ma in Germania – per esempio – sì. E non funzionano più. I tedeschi hanno una natalità simile alla nostra anche attuando politiche di sostegno.Dare un assegno a chi fa figli non funziona, perché le persone preferiscono lavorare. Altri cinquant’anni così e la Germania sarà finita. È un problema culturale e dobbiamo deciderci ad affrontarlo seriamente».

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MICHELE BOCCI, CORRIERE DELLA SERA 23/12 –
Come durante la guerra, ma senza la guerra. Come se vivessimo sotto i bombardamenti. Uno studio interroga e preoccupa esperti in mezza Italia: nel 2015 il numero di morti nel nostro Paese è salito dell’11,3%. In un anno significherebbe 67mila decessi in più rispetto al 2014 (ad agosto sono già 45mila), per un incremento che davvero non si vedeva da decenni. I dati del bilancio demografico mensile dell’Istat raccontano qualcosa di abnorme, che già impegna i demografi e presto, quando saranno note le fasce di età e le cause, darà molto da lavorare anche agli esperti della sanità. Le schede appena pubblicate sul sito dell’Istituto di statistica arrivano fino all’agosto scorso e dicono che nei primi otto mesi sono stati registrati 445mila decessi, contro i 399mila nello stesso periodo dell’anno precedente. Si è passati cioè da una media di meno di 50mila al mese a una di oltre 55mila.«Il numero è impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre risalire agli anni tra il 1915 e il 1918», scrive sul sito di demografia Neodemos il professor Gian Carlo Blangiardo. «Certo, si tratta di dati provvisori, ma negli anni scorsi l’Istat ha sempre confermato alla fine dell’anno i numeri pubblicati mensilmente. Magari ci saranno correzioni, ma nell’ordine di alcune centinaia di casi. L’unità di grandezza che ci aspetta è quella», chiarisce il docente. Nel 2013 e nel 2014, tra l’altro, il numero dei morti era calato, ma sempre di poco: mai si erano raggiunte percentuali in doppia cifra.Che cosa sta succedendo? Non è ancora chiaro. Anche Agenas, l’agenzia sanitaria delle Regioni, ha deciso di avviare un approfondimento. «Stiamo lavorando per dare una spiegazione a questo fenomeno», dice il direttore Francesco Bevere. I ricercatori raccolgono i dati dei decessi negli ospedali, perché in quel modo è più semplice risalire alle cause. Sono già state contattate alcune Regioni, tra le quali l’Emilia Romagna e la Lombardia, che avrebbero confermato tassi di crescita dei decessi in corsia in linea con quelli registrati dall’Istat sulla popolazione generale. Per ora si può lavorare solo sui numeri mensili, ma anche quelli possono essere comunque utili. Intanto, gli incrementi maggiori si sono avuti a gennaio, febbraio e marzo (+6, +10 e +7mila morti rispetto all’anno precedente). Si tratta dei mesi più freddi, quelli in cui colpisce l’influenza. Come noto, l’anno scorso la vaccinazione è calata molto a causa di un allarme poi rivelatosi falso partito dall’Aifa riguardo ai vaccini. Difficile però che la malattia stagionale da sola abbia prodotto effetti di quelle dimensioni. La conta dell’Istituto superiore di sanità si è fermata a quota 8mila morti provocati dal problema con la vaccinazione. E la crescita dei decessi non si giustifica neanche con l’invecchiamento della popolazione, che secondo Blangiardo può essere responsabile di un incremento di circa 15mila morti l’anno. Un altro mese che ha segnato una differenza importante, circa 10mila casi, è luglio. Ma il caldo quest’anno non è stato particolarmente pesante. Insomma, il giallo delle morti in Italia non è risolto. E sullo sfondo c’è un timore, sollevato sempre su Neodemos. Che la crisi economica e i tagli al Welfare c’entrino qualcosa. Ci vorranno mesi di studio per capire se davvero tra le cause della “nuova guerra” ci sono anche queste.
Michele Bocci, la Repubblica 23/12/2015



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ANDREA ROSSI, LA STAMPA 8/1 –
L’avevamo immaginata così: una città multietnica, con tutte le contraddizioni che il melting pot porta con sé, con una presenza di cittadini immigrati in perenne ascesa e in progressivo radicamento, indispensabili - con la loro vitalità, i tassi di natalità più alti, le pulsioni dinamiche - per la tenuta socio-economica della città. In parte ci sbagliavamo: la regressione è cominciata tre anni fa, è costante e regolare. Gli stranieri stanno lasciando Torino dopo un decennio di esplosiva ascesa. Erano poco più di 41 mila nel 2011, 133 mila dieci anni più tardi, hanno toccato il culmine nel 2012 (142 mila) e poi hanno cominciato a scendere: due mila in meno ogni anno, regolari come un metronomo.
Il 31 dicembre del 2015 l’Anagrafe ne ha contati 136.262. E ha certificato che a Torino sono residenti 892.276 persone, oltre 6 mila in meno rispetto allo scorso anno. Il segno di quel che sta avvenendo è tutto qui: 6 mila e 400 torinesi in meno di cui 1.800 stranieri. Significa che l’emorragia di cittadini immigrati è doppia rispetto agli italiani, lo spopolamento della città segue percorsi non uniformi, riguarda principalmente chi è più fragile, ha meno reti di sostegno, protezioni, opportunità, strumenti.
Meno giovani, più anziani
C’è chi per superare le difficoltà incontrate negli ultimi anni è tornato in patria e chi, forse più spesso, ha cambiato Paese, lasciando l’Italia diretto là dove crede di potersi costruire un futuro meno precario. La dimostrazione è tutta nei numeri: dei 4 mila stranieri persi da Torino tra il 2013 e il 2015, 3.700 hanno tra trenta e trentanove anni. Sono transfughi da lavoro, arrivati negli anni scorsi a Torino in cerca di occupazione, con la determinazione di rimanere in Italia e poi invece costretti a cambiare aria. Il loro dileguarsi si porta appresso una conseguenza naturale: la riduzione dei nati e dei bambini. I giovani stranieri con meno di 14 anni erano 26.900 nel 2013 e sono 26.221 adesso. In compenso crescono - e non di poco - gli over 60: erano 5.845 nel 2013, sono diventati 6.335 nel 2014 e infine 6.996 alla fine dello scorso anno. Un balzo verticale: oltre mille in più nell’arco di due anni. È uno degli aspetti più evidenti: se finora la popolazione straniera contribuiva si sviluppava principalmente nelle fasce d’età basse - sotto i quarant’anni - ora è proprio lì che cede il passo, mentre aumenta sopra i sessant’anni. L’andamento era esattamente opposto rispetto alla popolazione di nazionalità italiana (che invecchia), ora è esattamente identico.
Le nazionalità
La comunità romena resta di gran lunga la più numerosa. Ma, a dimostrazione che si tratta per lo più di un’emorragia di natura economica, è anche la più erosa: ha perso quasi mille cittadini in un anno (da 54.775 a 53.819), quasi tutti tornati in patria. Se ne sono andati anche cinquecento marocchini e altrettanti peruviani e duecento albanesi. Gli unici in controtendenza sono i cinesi: erano 7.137, ora sono 7.327.

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A.ROS., LA STAMPA 8/1 –
La prospettiva che la popolazione straniera possa controbilanciare i processi di invecchiamento e la diminuzione della forza lavoro “autoctona” diventa sempre più incerta», dice Irene Pozo, vice direttore di Fieri, il Forum internazionale ed europeo per le ricerche sull’Immigrazione, che ha sede a Torino.

Dottoressa, è così in tutta Italia?
«Sembra di no. Non disponiamo ancora dei dati completi del 2015, ma restando al 2014 emergeva già una tendenza: il saldo tra iscritti e cancellati dai registri anagrafici è positivo in Italia, quasi nullo in Piemonte e leggermente negativo a Torino, confermando una scarsa attrattività di questa regione in generale e della provincia di Torino in particolare, rispetto al resto del Paese».
Che cosa fa chi lascia Torino? Torna nel paese d’origine?
«Tra le destinazioni indicate da chi si trasferisce all’estero, ai primi posti si collocano Romania, Francia, Perù, Stati Uniti e Germania. Sembrerebbe dunque che non si tratti solo di ritorni nel paese di origine, ma anche di emigrazione secondaria verso altri paesi, le cui economie offrono maggiori prospettive di impiego».
Oltre a chi si trasferisce in cerca di maggiori opportunità assistiamo anche a un calo degli arrivi?
«Se guardiamo ai flussi in entrata, cioè a chi arriva, gli ingressi per lavoro rappresentano ormai una parte esigua, mentre negli ultimi anni sono aumentati in maniera considerevole gli arrivi di richiedenti asilo. Del resto, dopo alcuni anni di crescita, si registra invece un calo nel numero dei cittadini stranieri in cerca di lavoro iscritti ai Centri per l’Impiego. In realtà, una diminuzione dello stock di disoccupati registrati si osserva anche per gli italiani, ma nel caso degli stranieri è più accentuata».
La situazione di chi resta, almeno, migliora?
«Tra i segnali positivi di integrazione c’è sicuramente l’aumento delle acquisizioni di cittadinanza. Nel 2014 sono diventati italiani 3.324 stranieri contro i 1.522 del 2012. Si tratta principalmente di marocchini, romeni, peruviani, albanesi ed egiziani. Tuttavia, se questo dato conferma un radicamento sul territorio, il raddoppio tra il 2012 e il 2014 suggerisce il possibile acquisto della cittadinanza italiana come strategia anticrisi, con l’obiettivo di preservare la presenza legale sul territorio di fronte al rischio di perdere il permesso di soggiorno a causa della mancanza di lavoro».
[a. ros.]

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MARIA TERESA MARTINENGO, LA STAMPA 8/1 –
«La gente ritorna in Romania o emigra verso i Paesi nordici, dove vivono amici, parenti. Emigrano famiglie e singoli, moltissime badanti rientrano». È padre Lucian Rosu, parroco della chiesa ortodossa Santa Croce, in via Accademia Albertina, a raccontare come la comunità romena sta reagendo alla crisi. Una crisi che colpisce tutti allo stesso modo. «Ma i romeni - dice Rosu - non lasciano volentieri l’Italia, il radicamento qui è forte. Ci sono donne che restano qui con i figli mentre il marito lavora in Inghilterra, in Irlanda, in Norvegia, dove ci sarebbe spazio per l’intero nucleo, perché qui ci sono la scuola, gli amici, un ambiente vicino alla nostra cultura. Capita ciò che capitava in passato, quando la famiglia restava in Romania».
Partenze
Il sacerdote che da anni è uno dei riferimenti per la comunità ortodossa riflette: «Mancano le opportunità lavorative e allora, quando non si riesce a pagare l’affitto, non si può più affrontare la vita quotidiana, con sofferenza, le persone si spostano. Molte sono costrette a farlo, anche se i figli sono nati qui e hanno legami forti». La decisione matura dopo molti tentativi. «Penso a una famiglia molto unita, che tiene all’educazione dei figli, uno alle elementari, l’altro alle medie: il padre è un saldatore bravo, la madre faceva la badante. Lui è andato in cassa integrazione, poi ha trovato ancora lavoro durante la costruzione dell’Expo, ma dopo è rimasto disoccupato. Hanno scelto di tornare in Romania, anche se con molto dolore. La loro vita ormai era qui».
Chi rientra non lo fa perché là avrà condizioni favorevoli. «Se troverà lavoro avrà uno stipendio più basso, ma chi è emigrato quasi sempre ha comprato casa o se l’è costruita. E almeno non deve pagare l’affitto. Chi emigra, in genere, ha uno scopo e senso del risparmio».
Identikit
Nel migliaio di romeni che ha lasciato Torino nel 2015 c’è un po’ di tutto. «Badanti - spiega il sacerdote - perché molti torinesi non riescono più a permettersi un aiuto, artigiani che fanno i lavori e non vengono pagati. Poi, tanti operai edili e i metalmeccanici licenziati da piccole e medie aziende. La sola categoria che non ha problemi è quella delle infermiere». Padre Lucian incontra i suoi connazionali in chiesa, ma anche attraverso l’associazione San Lorenzo dei Romeni e il Centro di aiuto alla vita Santa Filotea. «Al Centro diamo assistenza alle madri in difficoltà fino all’anno del bambino, San Lorenzo è in contatto con tantissime famiglie che precipitano in poco tempo nella fascia grigia della povertà. Per fortuna, mentre cresce la crisi, cresce anche la solidarietà. Abbiamo fatto una raccolta di alimenti in parrocchia prima di Natale, per integrare la collaborazione che abbiamo con il Banco Alimentare, la gente ha risposto molto bene. La solidarietà è l’unico modo per non darla vinta alla crisi».
Maria Teresa Martinengo

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ELVIRA SERRA, CORRIERE DELLA SERA 9/1 –
C i siamo assuefatti all’idea. Ci diciamo che è colpa della crisi, della carriera, della mancanza di servizi, della conciliazione impossibile tra casa e lavoro. Tutto giusto. Ma è davvero tutto? Il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen tempo fa disse che in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, la rivoluzione di genere partita dalla maggiore istruzione femminile infine si è bloccata: la società non si è adattata alle madri lavoratrici né dentro le famiglie, né dentro il mercato del lavoro, e uno dei risultati è, appunto, una bassissima fecondità permanente.
Partiamo da questo. L’Istat ha calcolato che in Italia il Tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna, è 1,37, viziato dalle nascite nelle coppie con almeno uno dei partner straniero. Nel 2014 sono nati in totale 502.596 bambini; quelli da genitori entrambi italiani erano 398.540. Il tasso di fecondità scende, dunque, a 1,29 figli. Non è il più basso della nostra storia. Nel 1995 abbiamo toccato quota 1,19. E se torniamo indietro di un altro decennio, nel 1986, il tasso era di 1,37, come adesso. Questo ci dice due cose: le trentenni e le quarantenni adesso sono a loro volta figlie della denatalità nelle generazioni precedenti; oggi, in proporzione, ci sono meno donne in età riproduttiva rispetto a venti, trenta, 40 anni fa.
La società non si è adattata
La riduzione delle nascite è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi industrializzati. L’Italia, però, riesce a fare peggio degli altri. Nel numero 33 del 2015 del Working Paper Series Families and Societies , Maria-Letizia Tanturri dell’Università di Padova insieme con altre quattro ricercatrici internazionali faceva notare che in Italia una donna su cinque, tra le 40-44enni, non ha figli: ci batte la Svizzera. È lei, ma non soltanto lei, a dire che «la nostra società è organizzata con delle rigidità che non rispondono più alla situazione reale». Facciamo degli esempi. «Gli asili sono pochi e costosi e hanno orari talvolta inconciliabili con quelli delle donne normali. Non penso alle manager, ma alle commesse, alle mamme che fanno i turni e non hanno nonni sui quali contare, perché distanti, perché lavorano ancora o perché troppo anziani e malati. Come possono organizzarsi?». Dopo un figlio, non se ne fa un altro.
Una scuola di un’altra epoca
Superato lo scoglio dell’asilo, si entra nel girone infernale della scuola dell’obbligo. Tanturri: «Una volta i bambini giocavano in cortile e qualcuno, genericamente, li guardava. Oggi svolgono molte attività extrascolastiche: chi li accompagna?». La collega Letizia Mencarini, dell’Università Bocconi, è molto più esplicita: «In questo ultimo ventennio, nel quale si poteva fare molto per investire sulla genitorialità, i servizi sono stati riformulati. Le scuole chiudono il 9 giugno e riaprono a metà settembre: come può una famiglia normale stare tre mesi in vacanza? Pensiamo poi ai colloqui e alle altre iniziative che presuppongono la presenza di un genitore: se lavorano entrambi, come si fa?». È facile parlare di permessi parentali, è difficile farli prendere ai padri. Insiste Tanturri: «Il salto da fare è cominciare a parlare di entrambi i genitori, che davanti al datore di lavoro hanno lo stesso diritto e dovere di occuparsi dei figli».
Precarietà sentimentale
Diamo per scontato che sia il mercato del lavoro troppo fluido a condizionare la scelta di non avere figli. Non attribuiamo un peso adeguato alla precarietà della coppia. «La sessualità non ha più da un pezzo, e per fortuna, un fine riproduttivo», interviene Chiara Simonelli, docente di Psicologia e psicopatologia dello sviluppo sessuale alla Sapienza di Roma. «E anche se l’orologio biologico a un certo punto si fa sentire, le donne sono molto esigenti, soprattutto per avviare un progetto importante e definitivo come quello di un figlio». È cambiato il modo di stare insieme, aggiunge la sociologa della famiglia Carla Facchini, della Bicocca di Milano: «Aumentano le “non coppie”, formate da chi ancora vive in famiglia a causa della precarietà professionale, o che, quando esce, lo fanno per inseguire un progetto di vita individuale, mentre un tempo l’”adultità” era vissuta come una conquista di coppia».
Nuova identità femminile
Non conta poco, nel calo delle nascite, la ridefinizione dell’identità femminile. Intanto, comincia a dichiararsi chi non vuole avere figli: Euribor ha calcolato che si tratta del 2% delle donne e del 4% degli uomini tra i 18 e i 40 anni. La psicologa Elena Rosci, autrice del saggio La maternità può attendere (Mondadori), racconta: «Raramente, oggi, una donna tra i venti e i 35 anni dice di avere avuto un figlio perché le è capitato. La maternità è oggetto di una profonda riflessione e il desiderio è ondivago, talvolta non così imperioso da essere portato a termine, ma oggetto di valutazioni di opportunità temporali, sentimentali, lavorative, abitative, psicologiche». Il modello della donna Anni 50, dedita a marito e famiglia, non fa più parte dell’educazione delle bambine. «Realizzazione e cura di sé a un certo punto si divaricano, le istanze di realizzazione professionale sono molto forti, si posticipa la maternità finché non ci si ritrova a constatare che le cose sono andate in un altro modo». La ginecologa milanese Stefania Piloni nei suoi colloqui osserva come si stia perdendo la scala biologica degli eventi: «Anche quando la coppia c’è, la stabilità economica pure, si tende a posticipare. Quando ho davanti una donna di 36 anni, fidanzata da sei, senza problemi finanziari e le chiedo se non sia il momento di pensare a un figlio, mi sento rispondere: “Ma io sono ancora giovane!”». Il tempo, però, non smette di passare, i tassi di infertilità toccano il 25% delle coppie e le liste di attesa per la procreazione assistita passano dai sei mesi all’anno.
Idealizzazione della maternità
Eppure non è un caso che in un Paese familista come il nostro nascano sempre meno bambini. Mettere al mondo un figlio è una cosa estremamente seria: aspettiamo di avere tutte le precondizioni secondo noi indispensabili per garantire al nascituro un futuro sereno e nell’attesa perdiamo il treno. «C’è un iperinvestimento sui figli, ne segue una serie di paure: di non essere buoni genitori, di non poter provvedere all’università, di non riuscire ad assicurare il futuro che vorremmo», conclude Carla Facchini. Ma fa notare una cosa: «Guardiamo gli immigrati. È difficile sostenere che vivano in condizioni migliori delle nostre; che abbiano case più confortevoli; che possano contare su una rete di parenti. Il punto è che per loro diventare genitori è un fatto culturale: i figli rappresentano il riscatto. In Italia oggi le persone si riscattano solo da se stesse, attraverso le esperienze della propria vita».
@elvira_serra

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EL.SER., CORRIERE DELLA SERA 9/1 –  
Come possiamo invertire la tendenza?
«In tre modi. Ma prima va chiarita una cosa», risponde il demografo Massimo Livi Bacci.
Prego.
«Questo non è un fenomeno soltanto italiano, ma di quasi tutto il mondo europeo: la Germania come l’Italia, la Russia come l’Italia, la Spagna come l’Italia. E aggiungo parecchi Paesi del Sudest asiatico, dalla Cina alla Corea alla Thailandia. Riguarda i Paesi avanzati, con alcune eccezioni, come la Francia».
E allora qual è la soluzione?
«Anzitutto bisogna ridare autonomia ai giovani. Ormai raggiungono la piena autonomia molto tardi e per conseguenza rinviano molte delle decisioni familiari riproduttive. Finiscono gli studi tardi, entrano nel mercato del lavoro tardi, escono dalla famiglia tardi, rimandano la scelta di fare un figlio fino a trovarsi a ridosso di un’età in cui riuscirci è molto faticoso se non quasi impossibile».
Qual è la seconda strada?
«È indispensabile dare più lavoro alle donne. Quarant’anni fa, nei Paesi nei quali le donne erano impegnate prevalentemente in lavori domestici e i tassi di occupazione erano bassi, la natalità era più elevata. Al contrario, nei Paesi dove i tassi di occupazione erano alti, la natalità era più bassa. Oggi avviene l’inverso: dove c’è un’occupazione femminile alta si fanno più figli e dove c’è un’occupazione bassa se ne fanno meno. Una famiglia ha bisogno di più fonti di reddito, non può più puntare su un solo procacciatore di risorse. Predomina questo ragionamento: faccio le scelte riproduttive se ho una sicurezza economica. Tutte quelle politiche di conciliazione tra lavoro domestico e di mercato sono essenziali per rendere meno costoso l’allevamento dei figli per la donna».
Qual è il terzo punto della sua strategia pro natalità?
«Ridurre l’asimmetria nei ruoli uomo-donna. Assistiamo alla ripresa della natalità là dove gli uomini svolgono più compiti in famiglia. Minore asimmetria significa minore “costo” di allevamento dei figli per le madri, con possibili effetti sulle scelte riproduttive, così come avviene in conseguenza delle buone politiche di conciliazione casa-lavoro».
El. Ser.

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ANDREA ROSSI, LA STAMPA 9/1 –
Andrea Rossi

È cominciato tutto nel 2012. Mentre Torino toccava il massimo storico di cittadini stranieri residenti (142.191), il mercato del lavoro cominciava a sbarrare loro la strada. E l’effetto contrario si è innescato immediatamente: dall’anno successivo le assunzioni hanno cominciato a scendere e, con esse, la popolazione immigrata residente in città. Il lavoro si è rarefatto e tanti stranieri hanno pensato bene di andarselo a cercare altrove.
I dati del Coordinamento dei centri per l’impiego della Città metropolitana (l’ex provincia) tracciano una tendenza evidente: gli avviamenti al lavoro nel periodo 2008-2014 - dall’inizio della grande crisi ai primi scampoli, poi consolidati, di ripresa - hanno viaggiato a strappi: una forte riduzione nel 2009, quando fu evidente che si era entrati in una fase di recessione; due anni di ripresa (2011 e 2012) e infine nuovamente una contrazione rapida e costante, in totale 15 mila contratti in fumo.
E dunque: 80 mila ingressi nel mercato del lavoro, tra Torino e provincia, nel 2008, 67 mila nel 2009, 70 mila nel 2010, 77 mila nel 2011, 72 mila nel 2012, 67 mila nel 2013 e infine 64 mila nel 2014. In parallelo la popolazione straniera che vive in città è passata dai 142 mila residenti del 2012 ai 140 mila del 2013 ai 138 mila del 2014 per chiudere il 2015 poco sopra 136 mila.
I più colpiti
Il legame tra carenza di occupazione e spopolamento è evidente. La discesa riguarda tutte le principali nazionalità, a cominciare da marocchini (meno 9,7%), peruviani (meno 6,7%) e nigeriani (meno 22%), ma i Centri per l’impiego mettono in evidenza anche la situazione delle donne moldave, le cui assunzioni si sono ridotte del 9,4%. Anche i lavoratori romeni - la più grande comunità straniera a Torino, con i suoi 54 mila cittadini, e quella che ha vissuto l’emorragia più consistente - hanno visto ridursi le assunzioni del 4,5% dopo che nel 2013 il crollo era stato verticale, meno 8%.
In controtendenza
E che dire dei cinesi? Sono la dimostrazione plastica del legame indissolubile tra opportunità lavorative e permanenza in città. Sono l’unica comunità straniera che non conosce crisi, sia quando c’è di mezzo le demografia sia quando si tratta di occupazione: crescono di numero (da 6.786 nel 2012 a 7.327 a fine 2015, sempre in ascesa) e gli occupati vanno di pari passo, più 6,3% le assunzioni, addirittura più 11% considerando solo le donne.
C’è un altro elemento a sostegno dell’ipotesi di fondo: la battuta d’arresto più vistosa riguarda i contratti a tempo indeterminato che diminuiscono di oltre il 6%, mentre quelli a termine solo dell’1,7%. Meno lavoro stabile è un incentivo per le persone a fare le valigie.
Per quanto riguarda i settori economici, invece, la crisi resiste soprattutto nelle costruzioni - là dove c’è una forte incidenza di manodopera romena -, che perdono il 17,4%, e nei servizi alle imprese (trasporto, magazzino, noleggio) con un calo che sfiora il 18%. In flessione, anche se in misura molto meno rilevante, pure manifattura e commercio.

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ADNKRONOS.COM 29/12/2016
La popolazione italiana, al 31 dicembre 2014, conta 60.795.612 residenti. Cifra in lieve crescita - appena 13 mila in più rispetto all’inizio dell’anno - ma solo grazie agli stranieri: è infatti il saldo migratorio a portare in positivo la dinamica demografica. Nel nostro Paese si vive più a lungo, si muore meno, ma si fanno sempre meno figli. E dopo la fuga dalle città dei primi anni duemila, si inverte la tendenza e si torna a vivere nei centri più grandi. Questa la fotografia scattata dall’Istat nell’Annuario statistico italiano 2015.

In particolare sono 29.501.590 i maschi e 31.294.022 le femmine. Dal punto di vista geografico, il maggiore incremento della popolazione residente si è registrato al Centro (+0,2%), Sud e Isole risultano invece in calo. Ma è il Nord-ovest l’area geografica con il maggior numero di residenti (16.138.643, pari al 26,5% del totale).

Al primo gennaio 2015 sono 5.014.437 gli stranieri residenti in Italia, l’8,2% del totale della popolazione, con un incremento di 92.352 unità sull’anno precedente (+1,9%). Il Nord-ovest è la ripartizione in cui risiede il maggior numero di stranieri (34,4%); complessivamente il Nord ne ospita il 59,4% e la proporzione fra cittadini stranieri e italiani arriva a 11 su 100, contro i circa 4 ogni 100 del Mezzogiorno.

Nel 2014 i decessi in Italia sono stati 598.364, in calo rispetto all’anno precedente (600.744); più consistente è la riduzione delle nascite (da 514.308 nel 2013 passano a 502.596 nel 2014); di conseguenza il saldo naturale (-95.768) si riduce ulteriormente rispetto all’anno precedente (-86.436). Le iscrizioni anagrafiche sono dunque le principali poste dell’incremento della popolazione: il saldo con l’estero, sebbene ancora in diminuzione, si mantiene positivo e pari a 141.303 unità.

Grazie alla costante riduzione dei rischi di morte a tutte le età, prosegue nel 2014 l’incremento della speranza di vita alla nascita: per gli uomini da 79,8 del 2013 a 80,2 anni e per le donne da 84,6 a 84,9. All’interno dell’Unione europea solo Svezia e Spagna hanno una situazione migliore per gli uomini (80,2 anni), mentre per le donne la speranza di vita è più alta esclusivamente in Spagna (86,1), Francia (85,6) e Cipro (85,0) (dati 2013).

Al 31 dicembre 2014 l’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni) raggiunge il valore di 157,7% da 154,1% dell’anno precedente. Sul territorio, è la Liguria la regione con l’indice di vecchiaia più alto (242,7 anziani ogni 100 giovani) mentre quella con il valore più basso è la Campania (113,4%). Nell’Ue a 28 paesi l’Italia si conferma al secondo posto, preceduta dalla Germania che ha circa 160 anziani ogni 100 giovani.

L’Istat registra inoltre una riduzione nel numero dei comuni italiani, che sono tornati ai livelli di 40 anni fa. Al 30 gennaio 2015 sette comuni su 10 hanno una popolazione pari o inferiore a 5 mila abitanti. Questa frammentazione amministrativa è comunque in via di riduzione per effetto della politica di contenimento della spesa pubblica che sta incidendo sul numero dei comuni, scesi a 8.047 unità, un livello inferiore a quello rilevato dal censimento del 1971. Il processo di fusione dei comuni sta interessando al momento soprattutto le regioni del Nord.

Anche la distribuzione della popolazione fra comuni capoluogo e comuni compresi nelle cinture urbane sta nuovamente cambiando. Dopo la fuga dalle grandi città dei primi anni duemila, che ha fatto crescere in misura significativa i residenti dei comuni della prima e seconda cintura, fra il 2011 e il 2014 la direzione si è invertita e, pur con alcune piccole eccezioni, gli spostamenti dalla prima e dalla seconda corona sono ora diretti verso il centro capoluogo.

LAVORO, +0,4% OCCUPATI 2014 MA -0,7 PUNTI PER UNDER 35 - Ha toccato quota 22 milioni 279 mila unità l’occupazione italiana nel 2014: 88mila in più su base annua (+0,4%) che ha fatto segnare al tasso di occupazione, tra i 15 e i 64 anni, una crescita di 0,2 punti percentuali (al 55,7%) ancora, però, "ampiamente al di sotto" di quello medio registrato nella Ue (64,8%). E se è aumentato di 3,5 punti percentuali il tasso di occupazione per gli occupati over 50 è proseguita anche nel 2014 la discesa di quello dei giovani e dei giovanissimi che ha registrato un calo di 0,7 punti percentuali sul 2013.

CRISI, SI FERMA CALO CONSUMI: SPESA MEDIA MENSILE FAMIGLIE 2.488 EURO - Nel 2014 la spesa media mensile per famiglia, pari a 2.488,50 euro, è sostanzialmente stabile rispetto al 2013. Scende invece la percentuale di famiglie che hanno limitato la quantità o la qualità dei prodotti alimentari (da 62,4 a 58,7%), soprattutto nel Nord-ovest (da 58,3% a 52,2%) mentre gli acquisti alimentari presso hard discount si mantengono sui livelli dell’anno precedente a livello nazionale (intorno al 13%), ma aumentano nel Sud e Isole (rispettivamente da 10,4 a 12,2% e da 15,4 a 20,7%).

SCUOLA, DIMINUISCONO ISCRITTI NONOSTANTE AUMENTO STUDENTI STRANIERI- Gli studenti iscritti nell’anno scolastico 2013/2014 nei vari corsi scolastici sono 8.920.228, 23.473 in meno rispetto al precedente anno. La diminuzione degli iscritti nei percorsi scolastici, rileva l’Istat, è principalmente dovuta al calo demografico delle nuove generazioni, non sufficientemente compensato dalla crescente presenza nelle nostre scuole di alunni con cittadinanza non italiana (i quali presentano tassi di partecipazione più bassi di quelli dei ragazzi italiani).

CRIMINALITA’, IN AUMENTO FURTI NELLE CASE TRUFFE E FRODI INFORMATICHE - Sono aumentati i furti nelle abitazioni. Come pure truffe e frodi informatiche. In particolare, truffe e frodi informatiche registrano un deciso aumento (+20,4%); di minore entità la crescita di estorsioni (+6,3%), rapine (+2,6%) e furti (+2,2%) anche se fra questi ultimi quelli in abitazione segnano un +48,6%. tra il 2010 e il 2013.

SANITA’, ITALIANI SI SENTONO IN SALUTE, RICOVERI PIU’ BREVI - Italiani più in salute e ricoveri più brevi. Prosegue, dunque, il processo di deospedalizzazione che ha determinato una progressiva e significativa diminuzione dei ricoveri nel tempo: negli ultimi cinque anni le dimissioni ospedaliere hanno fatto registrare una riduzione media annua del 4,5% e un calo complessivo del 16,7% rispetto al 2009.

ALIMENTAZIONE, PRANZO A CASA PER SETTE ITALIANI SU DIECI - Niente panino al volo: in Italia fatica a prendere piede l’abitudine al pasto veloce fuori casa. Secondo l’Annuario statistico dell’Istat, diffuso oggi, anche nel 2015 il pranzo è il pasto principale e in oltre sette casi su dieci viene consumato fra le mura domestiche.

SPETTACOLO, CINEMA IN RIPRESA E TEATRO PREFERITO DALLE DONNE - Crescono i consumi di spettacolo tra gli italiani, con il cinema in ripresa, il teatro preferito dalle donne e la tv che resta in cima alle preferenze, soprattutto dei giovanissimi e dei più anziani. E’ la fotografia scattata dall’Annuario Istat secondo il quale "nel 2015 il 64,6% della popolazione di sei anni e oltre ha fruito di almeno" uno spettacolo o un intrattenimento. Dato che nel 2014 si attestava al 62,7%.

MUSEI, CRESCONO VISITATORI NEL 2014 E 2015 - Crescono i visitatori nei musei e nei siti archeologici italiani nel 2014 e nel 2015. Lo riferiscono i dati dell’Annuario Istat che parlano di un aumento della partecipazione culturale, in particolare delle visite a musei, mostre, siti archeologici e monument

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LAVORAREALLESTERO.IT 4/1 – 
Se ne vanno molti laureati
Si è già parlato a lungo dell’aumento del numero di italiani che lasciano il nostro paese. Argomento complesso e serio che non può essere ridotto, come fanno in molti, nel presentare l’estero come un eldorado. La nuova emigrazione ha caratteristiche molto strutturate e che mettono in luce una dinamica più profonda. Cerchiamo di capire meglio il fenomeno riportando anche alcuni dati apparsi su un recente articolo pubblicato su Il Sole 24 ORE. Il dato che emerge, più drammaticamente di altri, è l’aumento di diplomati e laureati che se ne vanno dal nostro paese. Drammatico non perché l’espatrio di chi non ha un titolo di studio non ponga domande serie, ma perché evidenzia un impoverimento (per il nostro paese) di quella “economia della conoscenza” che non può essere trascurata se si vuole davvero uscire dalla crisi. Lo studio si riferisce al 2012 e parla di 9000 laureati che se ne sono andati. E, dato non meno significante, diminuisce anche l’immigrazione dall’estero di un bel 9,1%.

Diminuiscono i rientri
In termini statistici si parla di “saldo” anche se, riferito a persone, questo termine può suonare brutto. Ma di questo si tratta: aumentano le persone che se ne vanno e diminuiscono quelle che rientrano. Nel 2012, anno a cui si riferisce lo studio, i residenti con un’età non inferiore ai 25 anni sono diminuiti di oltre 32000 persone. E se non è trascurabile il numero di laureati che ha varcato patri confini, anche quello relativo ai diplomati deve far riflettere: – 12000 diplomati e – 11000 con licenza media.

Mete principali
Non ci sono particolari sorprese per quanto riguarda ciò che lo studio evidenzia rispetto alle mete preferite dagli expat italiani. In testa, per quanto riguarda chi possiede un diploma di laurea troviamo la Germania, seguita dalla Gran Bretagna, poi dalla Svizzera e, infine, dalla Francia. Meta preferita per i laureati che si avventurano al di fuori dell’Europa ancora gli USA e il Brasile. E dietro i numeri forse ci sono spiegazioni e riflessioni che sarebbe interessante fare.

Meno immigrati in Italia
Al di là delle pericolose (e spesso strumentali) derive xenofobe di una parte della nostra classe politica e di alcuni italiani, è bene sapere che quando si parla di flussi migratori si parla pur sempre di qualcosa che indica la vitalità di un paese; oltre che di un elemento demografico molto importante. Ebbene nel 2012 il numero di stranieri che sono arrivati in Italia è passato a 321000 persone contro le 354000 del 2011. E, dato nel dato, questo calo è dovuto anche dalla contrazione del numero di italiani che rientrano dall’estero, diminuito di oltre 2000 unità in un anno.

Numeri che raccontano più delle parole
A far riflettere dovrebbe soprattutto essere il numero di stranieri che se ne sono andati dal nostro paese: percentuale che in un solo anno è cresciuta di quasi il 18%; stessa percentuale quella relativa agli stranieri che si sono proprio cancellati dalle liste dei residenti. Insomma, come ci ricorda sempre l’articolo citato, il saldo migratorio è del -19,4%, una percentuale mai così bassa dal 2007.

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ROBERTO VOLPI, IL FOGLIO 8/1 –
Pontedera è la città dell’intramontabile Vespa – questo lo sanno tutti. E’ anche la città dei senegalesi – e questo invece si sa un po’ meno. A oggi conta quasi 30 mila abitanti, 4.500 circa dei quali stranieri, tra cui 1.373 senegalesi. Se si pensa che in Italia sono in tutto 94 mila, con un po’ di calcoli si vede subito che a Pontedera i senegalesi sono 29 volte quelli che dovrebbero essere se si distribuissero sul territorio nazionale in modo proporzionale rispetto alla popolazione. I senegalesi, che da quando è iniziato il loro insediamento sono impantanati nella vendita di fazzoletti, calzini, ombrelli, braccialetti di vari materiali e altre cianfrusaglie di qualità che lascio immaginare in tutti i luoghi dove si addensa o passa un po’ di gente hanno avuto successo a Pontedera per il fatto che la città della Piaggio sta tra Pisa e Firenze, ed è attraversata da una linea ferroviaria che collega le due città con un treno ogni venti minuti. Non so se è stato il successo dei primi insediati, a fare dei senegalesi di Pontedera una comunità dedita a una attività che sta tra la questua e il commercio minuto, minutissimo. L’ipotesi non è da escludersi. In fondo è il successo dei precursori che porta all’emulazione e all’allargamento e al consolidamento del successo da parte di chi viene dopo. Com’è stato per i cinesi in quel di Prato: oltre 16 mila in una città di 190 mila abitanti. Qui l’insediamento è ben più manifatturiero, fabbrichette su fabbrichette sempre al centro dell’attenzione pubblica e della magistratura per ritmi di lavoro e condizioni ambientali peggio che spartane, con inevitabile corollario di incidenti e inchieste. Ma anche negozi su negozi, ritrovi su ritrovi, che hanno per così dire colonizzato interi quartieri del centro città. Ed è quanto mai significativo che la vera Chinatown italiana sia fiorita in una città di provincia di meno di 200 mila abitanti, e non in una delle grandi metropoli: non a Milano, meno ancora a Roma. Significativo e rappresentativo di un “modello diffusivo” dell’immigrazione sul suolo italiano che ha caratteristiche peculiari tali da consentirci, al di là delle troppe discussioni circa l’italica inadeguatezza e più ancora ritrosia all’accoglienza, di praticare nei fatti una politica di integrazione soft, nel senso di poco stringente e meno ancora obbligata, eppure a suo modo efficace e capace di ottundere gli elementi di pericolosità sociale (non solo per quanto riguarda minacce di tipo terroristiche) legati, in Europa e nel mondo, ai troppo forti e quasi esclusivi insediamenti di immigrati.
Vediamo un po’ meglio, allora, in che consiste questo modello, e perché in certo senso ci rassicura circa le ondate migratorie dei vent’anni trascorsi (ché, questo davvero sono state se ci troviamo oggi con oltre 5 milioni di stranieri regolarmente residenti, e svariate centinaia di migliaia che non lo sono o non lo sono ancora e una proporzione di immigrati anche soltanto regolari – l’8,2 per cento della popolazione – superiore a quella di quasi tutti quei paesi dell’Europa del nord che pure non fanno che menar vanto delle loro capacità di accoglienza).
Siamo l’Italia dei mille campanili. E non sempre questo è un male. Nel caso dell’immigrazione, ad esempio, è senz’altro un bene. L’immigrazione non si è concentrata, da noi, nelle grandi città, nelle metropoli, e al loro interno, in periferie estranianti più o meno degradate che costituiscono mondi a sé, lontani e avulsi dai centri urbani, dal loro fervore, dalle loro opportunità. Nelle dieci più grandi città italiane si concentra il 14,4 per cento della popolazione e il 20,4 per cento degli stranieri residenti in Italia: c’è un divario, come non poteva non esserci, ma nessuna concentrazione abnorme o decisiva, dal momento che i 4/5 degli stranieri non risiedono nelle nostre dieci più grandi città – che sono poi anche tutte quelle che superano i 300 mila abitanti. Il modello diffusivo si conferma ancor più se si prendono le 26 città italiane che nel 2015 superavano i 150 mila abitanti, che comprendono poco meno del 20 per cento degli abitanti e il 27,5 per cento degli stranieri residenti: il divario si conferma, ma al contempo si attenua. Insomma l’immigrazione prende la via delle città grandi e medio-grandi, ma con moderazione, le sceglie ma senza dimenticare tutte le altre. E tra le città grandi e mediograndi a loro volta non c’è un vero campione, non c’è una città che sbaraglia la concorrenza. Il record della popolazione straniera residente spetta, col il 18,6 per cento degli abitanti, a Milano: seconda città italiana dopo Roma e capitale finanziariaindustriale, molti sostengono anche morale, del paese. Vero, ma a due passi da Milano Brescia vanta lo stesso primato, e fa quasi altrettanto la vicina Bergamo. Attorno al 18 per cento si aggirano pure gli stranieri residenti nella già citata Prato e a Reggio Emilia, mentre sfiorano il 16 per cento a Vicenza e Padova, in Veneto, e a Modena e Parma, in Emilia. Da non sottovalutare è anche il fatto che tutte queste città di provincia superano, quanto a proporzione di stranieri residenti nella popolazione, le rispettive capitali di regione – Venezia, Bologna e Firenze, pur se queste ultime due superano a loro volta la soglia del 15 per cento. E’ anche questo un segno di un modello diffusivo dei flussi migratori che si stabilizzano sul nostro territorio seguendo, semmai, un’unica vera discriminante: ch’è ancora e sempre quella nordsud. Al nord e al centro la proporzione degli stranieri nella popolazione è praticamente la stessa, rispettivamente il 10,7 e il 10,6 per cento. Proporzione che precipita al sud al 3,8 per cento e al 3,2 per cento nelle isole: un terzo e neppure la densità di insediamento che si riscontra al centronord. E, a proposito di segni, qui c’è invece, indirettamente ma assai corposamente, il segno delle difficoltà in cui si dibatte non la sola economia del Mezzogiorno ma la sua stessa complessiva situazione sociale e culturale, che si riflette sulle possibilità di accoglienza e integrazione di flussi migratori che, se pure approdano in quelle regioni, non vi si fermano preferendo, quasi al gran completo, risalire l’Italia in cerca di miglior fortuna.
Una migliore fortuna che, certo, non è sempre a portata di mano, ma che neppure è preclusa a quanti vengono a cercarla proprio nel nostro paese. Anzi. E se Milano è la prima città l’Emilia-Romagna è la prima regione, con la Lombardia a ruota, per proporzione di stranieri residenti, seguite da Veneto, Toscana e Lazio praticamente sulla stessa linea. Una classifica che, completata dal Piemonte, parla da sola su quanto le opportunità/possibilità di lavoro orientino le direttrici dei flussi migratori e le loro decisioni di stanzialità. Ma meglio sarebbe volgere questi tempi al passato, giacché i fenomeni in discussione sono gli effetti di una stratificazione ormai ventennale mentre le correnti migratorie sono oggi in grande sommovimento e, almeno sul momento, sembrano prediligere altre rotte, più a nord dell’Europa, all’Italia e agli altri paesi mediterranei. Tant’è che nel 2012 il saldo positivo dei movimenti migratori da e verso l’estero dell’Italia è stato di 244 mila, sceso a 182 mila nel 2013 e a 141 mila nel 2014. Né sembra che il calo del saldo migratorio accenni a fermarsi pur in questo 2015 tanto vistosamente segnato dall’esodo di intere popolazioni dalle regioni e dagli scenari di guerra mediorientali. Ma in questo quadro, e per questi motivi, è da sottolineare che mentre diminuiscono gli ingressi nel nostro paese per motivi di lavoro la grande novità è rappresentata dalla notevole crescita degli ingressi per asilo e protezione umanitaria, che sono più che raddoppiati in termini assoluti (+28.727 ingressi) mentre, in termini relativi, sono passati a rappresentare dal 7,5 nel 2013 al 19,3 per cento di tutti gli ingressi nel 2014.
Nonostante la crisi economica abbia colpito più duramente la popolazione straniera, ancora alla fine del 2013, anno clou della crisi, il tasso di occupazione di questa popolazione continuava a essere superiore a quello della popolazione italiana, tanto che, pur non arrivando allora a rappresentare l’8 per cento della popolazione italiana, costituiva però l’11,2 per cento della sua forza lavoro. Certo, questa è anche una conseguenza della più giovanile struttura per età della popolazione straniera rispetto a quella italiana, che si manifesta in modo particolare nella fascia d’età di 25-45 anni, ma copre tutto l’arco dell’età lavorativa di 20-64 anni. E tuttavia si deve pur sempre annotare come, diversamente dall’Italia, il tasso di occupazione degli stranieri sia più basso di quello delle rispettive popolazioni autoctone in quasi tutti, se non proprio in tutti, i paesi europei di più lunga storia di immigrazione: dalla Svezia alla Germania, dalla Francia al Belgio ai Paesi Bassi. Occorrerà vedere come la progressiva uscita dalla crisi, e la correlata ripresa dell’occupazione, per quanto non del tutto soddisfacente, si è riflessa sulla popolazione straniera residente nei nostri confini, ma non appare del tutto convincente la spiegazione del superiore tasso di occupazione degli stranieri rispetto a quello degli italiani fondato esclusivamente sulla considerazione della più giovanile struttura per età dei primi rispetto ai secondi (che porta, peraltro, gli stranieri ad avere anche un tasso di disoccupazione, e non solo di occupazione, superiore). Manca infatti in questa spiegazione la considerazione della capacità dell’economia italiana di offrire, proprio in consonanza con il modello di immigrazione diffusa, un maggior numero di ambiti, pieghe e anfratti, economicamente e produttivamente parlando, entro i quali la popolazione straniera può trovare spazi anche autonomi di lavoro, impresa, attività. Il tutto accresciuto dal fatto che la popolazione italiana di età sempre più avanzata in costante aumento (sono ormai quasi due milioni le persone di 85 e più anni) richiama in Italia una immigrazione di stampo soprattutto femminile che arriva dai paesi dell’est Europa ma ormai anche da nazioni come le Filippine o il Perù, in fortissima crescita.
E, a proposito di crescita, si sta ormai andando, anche in Italia, verso la crescita impetuosa degli stranieri residenti di seconda generazione. E tra questi, di quanti acquisiscono la cittadinanza italiana. Nel 2014 in ben 130 mila hanno acquisito la cittadinanza italiana, quasi tutti cittadini non comunitari regolarmente residenti nel nostro paese. Un dato del quale si coglie meglio l’ordine di grandezza se si considera che quasi eguaglia il saldo migratorio con l’estero di 141 mila unità registrato nello stesso anno.
Negli ultimi quattro anni è rapidamente cresciuto il numero di cittadini non comunitari che diventano italiani, passati da meno di 50 mila nel 2011 a oltre 120 mila nel 2014 (+143 per cento). Le acquisizioni di cittadinanza nel 2014 hanno riguardato principalmente i marocchini (29.025) e gli albanesi (21.148), e dunque l’immigrazione da paesi musulmani. Ma a questo riguardo il fenomeno che più ci deve interessare è la crescita, proporzionalmente enorme per non dire abnorme, di quanti acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori o perché, essendo nati in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età scelgono la cittadinanza italiana: da circa 10 mila nel 2011 sono passati a 48 mila nel 2014, con un aumento di quasi il 500 per cento. Tra quanti hanno acquisito la cittadinanza italiana nel 2014, il 40 per cento è costituito da persone di meno di 20 anni. Il boom degli stranieri residenti, giovani in particolare, di seconda generazione con cittadinanza italiana è dunque in atto. Di questi residenti, come sappiamo bene, si parla molto specialmente in Francia, Inghilterra, Belgio e in altri paesi come esempio di integrazione mancata. E’ tutt’altro che infrequente scoprire che è nelle loro file che si annidano cellule terroristiche e frange violente antisistema colpevoli di attentati sanguinosi e sommosse. Fanno parlare spesso di sé, e quasi sempre per imprese negative. Sono fonte di grande preoccupazione e di altrettanto impegno in termini sia di politiche sociali che di servizi di intelligence e di ordine pubblico. Rappresentano la controprova, la rappresentazione plastica, come suol dirsi, dei tanti errori commessi dall’occidente nelle politiche di accoglienza e integrazione. A loro si guarda come a forse il più grande punto interrogativo che pesa sul futuro dell’Europa. Il “modello di immigrazione diffusa” seguito o per meglio dire determinatosi nell’Italia dei mille campanili, e altresì dei mille mestieri, delle pratiche artigianali e commerciali a un tempo peculiari e di successo, quel modello che in certo senso ha “disperso”, e tuttora disperde in mille contrade i cittadini immigrati, è senz’altro quello che consente all’Italia di correre i minori rischi sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblico, offrendosi altresì a una più alta possibilità di controllo sociale: non soltanto da parte delle forze dell’ordine, ma proprio di tipo ambientale, visto e considerato che mancano quasi del tutto in Italia le enclave di grandi dimensioni di stranieri con cittadinanza acquisita o in via di acquisizione quasi precluse alle popolazioni autoctone. Ciò non vuol dire, è pleonastico aggiungere, che l’Italia abbia in sé un grado di sicurezza intrinseco tale da farci sentire tranquilli, ma soltanto che in una eventuale scala di rischio essa, che pure è ormai tra i paesi a più alta densità di cittadini stranieri, occupa una posizione di retroguardia piuttosto che il contrario.
Tra i fattori che comprimono questo rischio, costringendolo entro limiti ragionevoli, ce n’è uno poco sconosciuto anche in quanto imprevedibile. Sul Report del 28 ottobre 2014, che riportava i risultati della prima ricerca svolta in Italia su “Soddisfazione, fiducia e discriminazione tra i cittadini stranieri”, l’Istat scriveva espressamente che “alla domanda ‘attualmente, quanto ti ritieni soddisfatto della tua vita nel complesso?’, il punteggio medio indicato dai cittadini stranieri di 14 anni e più è pari a 7,7, su una scala da 0 a 10, mentre quello degli italiani è più contenuto e non va oltre 6,9”. Il risultato non cambia nelle nostre tre più grandi città (Roma, Milano, Napoli, anche se è più basso a Napoli), mentre meno di 3 stranieri su 100 si attribuiscono un grado di soddisfazione di non più di 4, e dunque molto basso, e ciò implica che le zone/aree di vero disagio socioeconomico e culturale tra gli stranieri sono comunque limitate e ristrette e non riguardano le metropoli più delle altre grandi e piccole città. Nonostante ciò si ha l’impressione che soltanto su queste aree, o almeno a grande maggioranza su queste aree, si appuntino i riflettori delle indagini di costume, degli allarmi sociali e delle indignazioni periodiche di mass media e opinione pubblica. Sfruttamento intensivo nell’agricoltura del sud, coinvolgimento nei traffici di droga al nord, criminalità nelle città: è in questi ambiti che più si sente parlare di stranieri, al punto che spesso scatta un’identificazione: africani e cittadini dell’Europa dell’est che risiedono entro i nostri confini questo fanno: o si lasciano sfruttare bestialmente o bestialmente si comportano. Ma un grado di soddisfazione per la propria vita così alto degli stranieri residenti in Italia, che si manifesta oltretutto anche riguardo al lavoro, implica un quadro delle condizioni della loro esistenza quotidiana che non è quello che noi italiani descriviamo e che le organizzazioni umanitarie e la stessa chiesa cattolica contribuiscono ad accreditare. E’ indubbio che sui punteggi del grado di soddisfazione pesano le diverse aspettative, assai più grandi e dunque più facili alla delusione da parte degli italiani. Ma su questa alta considerazione dei cittadini stranieri per la loro vita in Italia influiscono soprattutto buoni proprio in quanto molteplici livelli di accoglienza e integrazione, buone proprio in quanto molteplici possibilità di lavoro e realizzazione consentiti dal modello diffusivo di immigrazione realizzatosi in Italia. Pur nelle evidenti sacche di sofferenza e disagio che permangono e che non si possono ricondurre a casuale marginalità, tutto considerato proprio questo modello consente di guardare ai cittadini stranieri in Italia, anche a quelli di seconda generazione con la nostra cittadinanza, che tante preoccupazioni destano nel mondo, con una ragionevole, pur se doverosamente giudiziosa e attenta, dose di fiducia.
di Roberto Volpi, Il Foglio 8/1/2016


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MARCO ALFIERI, RIVISTASTUDIO.COM 3/6/2015
Si divide il Partito democratico tra renziani e la minoranza interna della vecchia «ditta», si divide il redivivo centrodestra se debba essere o no Matteo Salvini a raccogliere il testimone da Silvio Berlusconi, si dividono i leader politici nell’analisi del voto di domenica (come sempre hanno vinto tutti) e si divide l’opinione pubblica sulla lista degli impresentabili di Rosy Bindi.

Senza titolo1In realtà l’unica vera divisione che dovrebbe preoccupare il premier Renzi, tanto più dopo le ultime amministrative, è quella tra giovani e vecchi. Certo è una guerra atipica, scivolosa. Si consuma ogni giorno sottotraccia, fa quasi mai rumore ma è una guerra (fredda) a tutti gli effetti. Il conflitto è tabù perché attraversa ogni famiglia mettendo contro genitori e figli, si è sempre preferito occultarlo dietro il welfare informale dei nonni e di mamma e papà, edulcorandolo con espressioni rassicuranti come “patto generazionale”. Per tanti anni il materasso di fortuna ha attutito il dissidio latente, ma ora il sistema sta esplodendo. Matteo Renzi per primo sa bene che solo la capacità di affrontare e risolvere questa vera e propria guerra di classe anagrafica darà la misura e il senso della sua stagione a Palazzo Chigi. Poche storie. Si è fatta per questo la rottamazione, no?

Una volta, tanti anni fa, Mario Monti disse che i giovani in Italia dovrebbero fare la rivoluzione. Quell’espressione fece scalpore sulla bocca di un paludatissimo prof bocconiano quintessenza dell’establishment (al tempo Monti era commissario europeo e l’avventura politica di là da venire) ma ebbe il merito, forse inavvertitamente, di anticipare una delle grandi emergenze dei nostri giorni, la nuova lotta di classe che è tutta generazionale, l’anagrafe al posto del Sol dell’Avvenire, tipica di ogni società bloccata dove la rendita (pensioni, affitti, risparmio gestito) supera i redditi da lavoro. Dove il debito pubblico ipoteca il futuro di tutti, dove non c’è più da un pezzo la crescita Senza titolo2economica e quella attuale “da zero virgola” è frutto di una congiunzione astrale quasi irripetibile (il Quantitative easing di Mario Draghi, il calo del prezzo del petrolio, i tassi di interesse al minimo e la ripresa dell’industria automobilistica), dove la disoccupazione giovanile falcia le generazioni più istruite della storia (tra il 2000 e il 2012, la percentuale di laureati nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni è cresciuta dall’11% al 22%), dove l’incremento della spesa previdenziale è speculare al calo della spesa per l’istruzione e dove la fascia di età che ha registrato il maggior cumulo di ricchezza nell’ultimo ventennio è, guardacaso, quella degli anziani over 65.

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Eppure in Italia sembra più utile dividersi sugli impresentabili e calcolare quanti voti hanno preso, e chi di loro è stato eletto.


Mario Monti in quello scorcio di fine secolo si riferiva principalmente alla zavorra del debito pubblico centrando un tema che la crisi, dieci anni dopo, avrebbe fatto esplodere: in assenza di crescita sostenuta del reddito, la distribuzione delle risorse sarebbe stata sempre più a svantaggio dei giovani. Per questo ogni volta che si affrontano i nodi del mercato del lavoro e del sistema previdenziale in Italia riaffiora senza volerlo il conflitto generazionale. Matematico. Guardiamo queste altre due tabelle che si fermano sostanzialmente al periodo pre crisi (dopo la situazione è persino peggiorata). Un confronto del reddito per fascia d’età nell’arco di un ventennio e il reddito relativo dei 30enni rispetto a quello medio. Le fonti sono Istat e Bankitalia.

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Spesso i grafici rivelano più di mille parole cose interessanti e descrivono in questo caso un campo da gioco dove si vedono chiaramente vincitori e vinti. Come detto prima, nell’arco dell’ultimo ventennio il reddito equivalente degli individui anziani è passato, in termini relativi, dal 95 al 114% della media generale. Anche la posizione dei cosiddetti baby boomers (55-64 anni) socializzatisi con le proteste del ‘68, è molto migliorata (+18 punti). Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente si è abbassato bruscamente: 15 punti percentuali per la classe di età 19-35 anni e 12 per quella 35-44 anni.

In sostanza quel che 30-40 anni fa facevano i nostri genitori alla nostra età, oggi è difficilmente replicabile se non da una piccola minoranza di under 40. È crollato il potere di acquisto, la continuità occupazionale si è rarefatta, l’ascensore sociale si è inceppato, le garanzie del welfare sbriciolate, la capacità di risparmio e di progettare la propria vita in un orizzonte mediamente ampio volatilizzata. Per la prima volta dal Secondo Dopoguerra la generazione dei figli (e dei nipoti) sta peggio di quella di nonni e genitori.

Questo dualismo anagrafico negli anni si è via via acuito, perché i giovani non sono una forza organizzata e particolarmente coesa, non portano voti compatti al mercato della politica, non fanno lobbying ma solo rumore di fondo. In più in Italia mancano i rottamatori in stile Renzi nei vari settori della società. Anzi, i 30-40enni migliori si sono fatti cooptare dal sistema avvolgente dei baby boomers e tant’è. Così ogni scelta di politica economica recente ha scaricato i costi sulle generazioni future, penalizzandole.
I giovani non sono una forza organizzata e particolarmente coesa, non portano voti compatti al mercato della politica

È stato così nel 1995 con la riforma Dini quando, piegandosi ai diktat sindacali, il governo dell’epoca salvò dal nuovo sistema buona parte dei lavoratori in attività (tutti quelli che avevano almeno 18 anni di servizio), ai quali fu garantito di andare in pensione col vecchio e vantaggioso metodo retributivo. È stato così con la flessibilità scaricata su una parte sola del mondo del lavoro, quella più giovane, produttiva e peggio pagata. Trascurata dai sindacati (ormai enti a protezione di vecchie tessere e pensionati) e utilizzata dalle aziende per risparmiare sul costo del lavoro e recuperare un po’ di efficienza perduta. È stato così con le politiche di sfoltimento di molte imprese che stanno incentivando esodi e prepensionamenti “ipotecando” i contributi dei lavoratori più giovani che mai potranno sognare quegli scivoli (e quelle pensioni).

È stato così con i ripetuti blocchi del turnover nella Pubblica amministrazione che hanno frenato l’ingresso di forze giovani e più competenti nella macchina ingolfata dello stato, tutelando solamente i diritti degli insider. È stato così con il «progressivo aumento dei contributi alla gestione separata Inps di professionisti e freelance, utilizzato dai vari governi come una sorta di bancomat ogni volta che c’era da coprire qualche nuova posta di bilancio», come ha ben scritto Dario Di Vico. «È successo ai tempi di Prodi con l’abolizione del cosiddetto scalone, con Berlusconi quando bisognava compensare gli sgravi all’apprendistato» e si ripeterà probabilmente con Renzi quando l’innalzamento dei contributi fino al 33%, previsto dal governo Monti, servirà a finanziare il varo dell’Aspi, una sensatissima misura di flexsecurity di cui però le partite Iva non potranno giovare.

Ed è stato così il mese scorso con la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco delle indicizzazioni delle pensioni tre volte superiori al minimo. Sul tema scabroso di quanto una decisione del genere danneggi ulteriormente le giovani generazioni il pezzo definitivo lo ha scritto Mario Sechi.

Senza titolo7Quando poi nel 2008 è arrivata la crisi e c’è stato da tirare la cinghia, il costo dell’austerità è ricaduto un’altra volta sui giovani, l’anello debole della catena, chiamati a fare gli scudi umani di insider e pensionati. Per tutte queste cose la lotta di classe anagrafica è la vera faglia che divide un paese per molti versi meraviglioso, ipotecandone il futuro. Dire di voler rottamare i sindacati e valorizzare il lavoro autonomo come fa il governo Renzi salvo continuare sulla vecchia strada, è solo la coda di una cultura politica che non ha il coraggio di scalfire due vecchi, decisivi tabù: la demografia e le pensioni.

Sulla demografia è presto detto, rimandandovi per le conseguenze economiche e sui conti pubblici a un bel pezzo di Francesco Cancellato. Nel 1971 i bambini italiani sotto i cinque anni erano quasi 5,5 milioni, oggi sono 3,3 milioni. Allo stesso modo, gli anziani con più di 65 erano 6,1 milioni, oggi sono più di 12 milioni. Una tendenza che nella crisi si è ulteriormente acuita: il tasso di natalità si è infatti ridotto del 7,4% tra il 2008 e il 2012 e del 4,3% nel 2013, nonostante l’apporto degli stranieri, che oggi contribuiscono per il 12% al totale dei bambini nati in Italia (nel 2008 erano il 4%). Risultato? Siamo il paese più vecchio d’Europa.

Sulle pensioni in questi mesi si è scritto molto anche se confusamente e con troppa demagogia. Come funziona il sistema italiano, che è a ripartizione e non dispone di alcun “tesoretto” accantonato, lo spiega bene questo video del professor Riccardo Puglisi. In sostanza le pensioni non sono un conto corrente in cui si deposita una cifra mentre si lavora, per riaverla, con gli interessi, quando si smette di lavorare. Le pensioni sono, appunto, un patto generazionale. Mio padre versa i propri contributi per pagare la pensione di mio nonno, io li verso per quella di mio papà, mio figlio per la mia (almeno in teoria).

Pensate adesso alla scena tipica di questi anni: un ragazzo/a giovane, mediamente istruito/a, che lavora per pochi soldi a singhiozzo facendo spesso il doppio e il triplo per compensare la produttività sotto i tacchi di molti 55-60enni che guadagnano infinitamente di più, sono praticamente intoccabili, spesso senza competenze per stare al passo delle nuove tecnologie ma si lamentano di tutto e tutti. Certamente non è solo questa la fotografia del mercato del lavoro italiano ma sono sicuro che tutti voi, guardandovi intorno, potreste ritrovare un pezzo della vostra esperienza professionale.

Domanda facile facile: perché mai i troppo pochi che lavorano oggi – se sono giovani lo fanno a tempo determinato con frequentissime interruzioni della regolarità dei versamenti contributivi – devono pagare coi loro contributi gli assegni previdenziali a chi col vecchio sistema continuerà ad avere pensioni pari anche al 90% dello stipendio dell’ultimo mese lavorativo, mentre chi paga oggi andrà in pensione a età molto più avanzate di loro con un assegno che potrebbe non coprire, dipende da come andrà il Pil italiano nel frattempo, che il 40 o il 50% di quanto guadagnava finché ha lavorato?

Perché mai tutti questi giovani, sapendo che tra 30-40 anni difficilmente qualcuno pagherà loro una pensione, almeno per come l’hanno intesa genitori e nonni, dovrebbero accettare supinamente, o sentirsi moralmente legati, a un patto generazionale così palesemente iniquo? Qualche mese fa Enrico Marro sul Corriere ha scritto una cosa interessante: «Quando nel 1969 fu introdotto il sistema di calcolo «retributivo», nessuno metteva in discussione che la pensione fosse un «salario differito», che cioè il sistema dovesse garantire a chi smetteva di lavorare un assegno di importo vicino a quello delle ultime retribuzioni. In una società in crescita, con un prodotto interno lordo che dal 1961 al 1973 era aumentato in media annua del 5% e il tasso di fecondità era di due figli e mezzo per donna, la pensione come continuazione del salario era ritenuta una conquista sociale e un frutto dovuto del Welfare».
Perché mai i giovani dovrebbero accettare un patto generazionale così palesemente iniquo?

Questo sistema entrò gradualmente in crisi col rallentamento dell’economia e l’invecchiamento della popolazione, finché nel 1995 la riforma Dini non solo tagliò la dinamica della spesa ma, introducendo il calcolo «contributivo», cambiò il concetto stesso di pensione. Che da «salario differito» divenne la «restituzione di quanto versato durante tutta la vita lavorativa», opportunamente rivalutato. Così fu stabilito per tutti coloro che cominciavano a lavorare dal 1996. Tutti gli altri, ossia la stragrande maggioranza, fu garantito di andare in pensione col vecchio e vantaggioso metodo retributivo. Potenza del sindacato, lo abbiamo ricordato prima.
Solo per i lavoratori giovani, quelli in attività da meno di 18 anni, si introdusse il sistema «misto pro rata», cioè la pensione calcolata col retributivo per i versamenti fino al 31 dicembre 1995 e col contributivo per i versamenti successivi. Pro-rata che la riforma Fornero ha esteso a tutti dal 2012, cioè 17 anni dopo la Dini, quando ormai era troppo tardi perché la gran parte dei lavoratori salvati nel ‘95 era già andata in pensione. Capito?

Giusto per dare qualche numero: i 15,7 milioni di pensionati nel 2013 a carico dell’Inps, che incassano 21 milioni di trattamenti perché in diversi casi si sommano (pensioni di anzianità, vecchiaia, superstiti), sono per 14,1 milioni del settore privato, il resto ex lavoratori pubblici. Dei pensionati “privati”, 12,7 milioni incassano un assegno maturato col sistema “retributivo”, cioè precedente alla riforma Dini citata. In sostanza, riassume sempre Marro: «I giovani oggi pagano le pensioni secondo il criterio del «salario differito» mentre loro riceveranno «quanto hanno versato in tutta una vita lavorativa» diventata nel frattempo precaria perché lavoro e pensione sono le due facce di una stessa medaglia, soprattutto nel contributivo».

Più si è precari meno si versa e meno si avrà di pensione. È un circolo vizioso, semplice. Il risultato, aggravato da sentenze come quella recente della Consulta, è un’enorme ingiustizia tra le generazioni. Ingiustizia tra coloro che beneficiano del “retributivo” invocando la sacra intangibilità dei diritti acquisiti e il contratto sociale da non violare retroattivamente, e i giovani che non capiscono perché debbano continuare a finanziare un sistema bacato che, nel frattempo, riduce di molto i loro stipendi netti.

La solidarietà intergenerazionale, che è alla base della previdenza pubblica, entra in crisi perché appare alle nuove generazioni a senso unico e, mai affrontata, anzi sempre negata, si trasforma in lotta di classe anagrafica. Ma non per i nostri giornaloni e la grancassa dei media, che si muovono con quel sussiego tra il moralista e il paternalista, tipico di chi sembra volerti dare una pacca sulle spalle dicendoti: «È bello vedere che voi giovani di trent’anni siete in grado di fare cose impensabili, tipo allacciarvi le scarpe e avere un lavoro…» (Quit The Doner).

Lo ha detto Enrico Mentana qualche tempo fa in un’intervista, a ragione. «Il giornalismo in Italia è una cosa fatta da sessantenni per sessantenni…». Una frase che contiene già la risposta. Si scrivono articolesse pensose sul futuro dei giovani ma poi l’ideologia dei diritti acquisiti fa premio su tutti.
Ah, dimenticavo un particolare importante. L’altro giorno una bella inchiesta del Sole 24Ore calcolava in 46 miliardi di euro l’anno il costo del sistema retributivo in termini di spesa pubblica mentre se sommiamo pensioni e trattamenti assistenziali e sociali erogati dall’Inps, il deficit a carico dei contribuente (in termini di differenza tra contributi raccolti e trattamenti pensionistici) è di 83,6 miliardi l’anno, come ricordava Alberto Brambilla. Quanto si può andare avanti così?

Per combattere la lotta di classe anagrafica bisognerebbe avere il coraggio di riscrivere il patto generazionale partendo da questi due tabù alla base degli sfracelli odierni: demografia e pensioni. Senza populismi, senza colpi di spugna ma guardando in faccia la realtà. Ci provò un paio di anni fa l’allora ministro del Lavoro Enrico Giovannini, parlando della disparità di diritti tra generazioni sui trattamenti pensionistici. «Qualcuno deve dire: “Qualcuno ha ricevuto troppo, sospendiamo la Costituzione, i diritti acquisiti non valgono più e rifacciamo la ridistribuzione”. Capite però l’enormità di cui sto parlando…?». Apriti cielo. Fu letteralmente ostracizzato e ammutolito.

Eppure non ci sono alternative se non si vuol bruciare un’intera generazione che vorrebbe stare al passo con quel che avviene all’estero. Celebrata mediaticamente ma nei fatti continuamente falciata. Questa è la divisione che dovrebbe preoccupare di più il governo e farlo correre ai ripari: la lotta di classe anagrafica. In realtà il premier sta rottamando mediaticamente la concertazione ma continua in qualche modo a parlare a quei mondi di riferimento: non tocca i pensionati che sono il blocco (ex) berlusconiano che probabilmente punta ad ereditare, crea di fatto tre diversi mercati del lavoro (insider, neo assunti e dipendenti pubblici) e penalizza le partite Iva del terziario avanzato (in teoria il bacino culturalmente più affine, che ha sognato la rottamazione), lasciandole fuori dall’ampliamento delle tutele del Jobs Act (perché non dipendenti) e dalla platea del bonus 80 euro.

Quel che si continua a non capire è che i giovani non sognano più di farsi irregimentare dalla culla alla bara come una volta. Nessuna ideologia neowelfarista o miraggio di posti fissi, solo non vogliono più giocare questa partita truccata. Vogliono avere le mani libere per organizzarsi e farsi una vita a dispetto dell’Inps e della retorica dei diritti acquisiti. Semplicemente, non si può continuare a tassare impunemente il futuro.