Paolo Panerai, MilanoFinanza, 9 gennaio 2016
Il panda è un orso, ma un orso buono. Quindi per più di un analista, l’orso cinese al massimo è una concausa, ma non principale, della caduta negli ultimi giorni dei mercati borsistici del globo
Il panda è un orso, ma un orso buono. Quindi per più di un analista, l’orso cinese al massimo è una concausa, ma non principale, della caduta negli ultimi giorni dei mercati borsistici del globo. È vero che i mercati hanno avuto la prima, violenta caduta dopo il -7% della borsa di Shanghai. Ma concordo con il Corriere della Sera di venerdì 8 che «la zavorra dei mercati non è la Cina», come è stato intitolato l’editoriale di prima pagina di Lucrezia Reichlin. Concordo perché la penso come Riccardo Paoncelli, esperto di cambi, che su Class Cnbc ha spiegato come i sussulti delle borse cinesi non sono dovuti a una crisi economica della Cina, ma piuttosto sono le scosse di assestamento della rivoluzione del sistema economico di quel Paese. Il cambiamento è stato avviato dal presidente Xi Jinping per passare da una crescita dovuta a investimenti in infrastrutture e all’export favorito da salari bassi a un’economia più occidentale basata su minore export ma più consumi interni, essendosi nel frattempo formata in questi anni di boom una classe media in condizione di vivere al livello occidentale. Certo, sul piano emozionale e speculativo la caduta del 7% in un solo giorno, così come era avvenuto alcuni mesi fa, ha dato fiato ai ribassisti, mentre l’ulteriore svalutazione della moneta cinese, il renminbi o in sigla rmb, è dovuta a più fattori, diversi dal mero desiderio di rendere più competitivi i prodotti cinesi: pesa in particolare il cambiamento epocale della politica monetaria americana, con il ritorno alla salita dei tassi e quindi dei rendimenti, che attraggono investitori da tutto il mondo e quindi anche dalla Cina con inevitabile fuoriuscita da capitali che si combina con l’azione anticorruzione condotta dal presidente Xi (oltre 150 mila dirigenti del partito arrestati) e spinge chi ha guadagnato illecitamente a cercare di portare le ricchezze all’estero. Ma chi teme che l’economia e la moneta cinese stiano crollando si sbaglia; Xi ha appena vinto la battaglia presso il Fondo monetario internazionale per far diventare l’rmb moneta di riserva, al pari del dollaro e dell’euro. Se ci fossero state le premesse per un crollo del renminbi certamente il governo cinese non avrebbe spinto perché proprio ora diventasse moneta di riserva. In realtà sull’rmb ci sono due cambi; quello offshore, cioè di mercato, e quello ufficiale. Da quando l’Fmi ha accettato di mettere la moneta cinese sullo stesso piano di dollaro ed euro, il cambio ufficiale segue pedestremente l’andamento del cambio offshore. Non potrebbe essere diversamente, perché le regole del Fondo sono rigide: se una moneta non ha il valore che il mercato le assegna, non potrebbe far parte delle riserve della più importante istituzione monetaria del mondo. Quindi c’è un orso cinese, come è evidente dalla volatilità verso il basso delle borse di Shanghai e di Shenzhen, ma è un orsetto, tutto sommato buono, come sono i panda. A pesare sulla principale borsa del mondo, Wall Street, sono in primo luogo due fattori: appunto il cambio di politica monetaria con il ritorno ai tassi crescenti sopra lo zero e la fine dell’inondazione di liquidità, che tutti gli investitori in titoli hanno sempre visto bene perché garantiva denaro quasi a costo zero; questo cambiamento si è innestato su un livello degli indici di Wall Street e del Nasdaq che erano al massimo dei massimi. Poiché l’investimento in borsa si basa sulle attese e sulle prospettive di ripresa dell’economia che negli Usa si sono già ampiamente realizzate, è inevitabile che la combinazione di questi fattori porti a un calo delle quotazioni americane. Ma perché allora nel calo sono state coinvolte anche le borse europee, dove la ripresa è appena agli inizi? Sarebbe facile rispondere (ed è una parte della verità) che con la globalizzazione non c’è area che possa rimanere esente dagli effetti delle borse delle due principali potenze economiche del mondo. Il fatto è che ci sono anche altri elementi, i quali del resto hanno influito anche sull’andamento negativo di Wall Street: in primo luogo l’evoluzione, pericolosissima, dei conflitti nell’area mediorientale e l’incredibile ribasso del prezzo del petrolio, assai più che il terrorismo Isis in Europa e negli Usa. Da molti anni si assiste a conflitti o a guerre, ma sempre caratterizzate dallo sviluppo in un’area circoscritta e per lo più fra Paesi non decisivi. Quindi con effetti limitati o nulli sui mercati finanziari. Questa volta il pericolo è di una guerra importante, devastante se dovesse succedere, mentre le esercitazioni nucleari in Corea del Nord non fanno che alimentare l’inquietudine, visto che al pericolo di guerra in Medio Oriente contribuisce non poco l’accordo, teoricamente antinucleare, raggiunto dagli Usa con l’Iran. Da che mondo è mondo, le guerre sono sempre (o quasi) esplose per ragioni di religione o di territorio e quindi di potere: la possibile guerra in Medio Oriente fra due schieramenti capeggiati dall’Arabia Saudita (per la parte dei musulmani sunniti) e dall’Iran (per i musulmani sciiti) ha tutte le motivazioni tradizionali, appunto la religione, il territorio e il primato nella regione. L’aver rimesso in campo l’Iran da parte degli Stati Uniti con l’accordo sulla proliferazione nucleare ha determinato la reazione dell’Arabia Saudita, tradizionale alleato e finora Paese di riferimento nella regione per gli americani. Al punto, come è già stato scritto su queste colonne, da spingere l’Arabia Saudita a rifiutare di entrare fra i membri temporanei nel Consiglio di sicurezza dell’Onu su proposta degli Usa: come dire che la monarchia assoluta saudita ha voluto tenersi le mani libere, essendo evidente che da dentro il Consiglio di sicurezza dell’Onu sarebbe stato praticamente impossibile compiere azioni di forza come quella di giustiziare un imam sciita (compiuta pochi giorni fa) o addirittura organizzare una guerra. Le conseguenze di quell’esecuzione di un imam forte oppositore del re saudita non sono state soltanto l’assalto all’ambasciata dell’Arabia Saudita a Teheran, ma scontri in vari Paesi fra le due famiglie musulmane acerrime nemiche per ragioni religiose e nella sospensione dei pellegrinaggi alla Mecca degli sciiti, visto che è in territorio dell’Arabia Saudita. Se il presidente Barack Obama e il ministro degli Esteri John Kerry pensavano con l’accordo di Ginevra di aver creato le premesse di una maggior distensione nella regione, si sono profondamente sbagliati. Stanno per perdere l’alleanza storica con l’Arabia Saudita, hanno già dovuto registrare le forti proteste di Israele e di fatto potrebbero vedere sfumare una soluzione già impostata del grave problema della Siria, fonte di motivazione per l’Isis, che si è proclamato Califfato e quindi Stato, proprio dopo aver conquistato territori della Siria e dell’Iraq. Insomma, un disastro, almeno all’attuale livello di evoluzione della situazione in Medio Oriente. Senza contare gli altri fronti aperti dalla politica estera americana con il tentativo di inglobare nella Nato l’Ucraina e la conseguente guerra delle sanzioni alla Russia che ha dato slancio al presidente Vladimir Putin per un ruolo attivo in Siria, mentre i Paesi europei sono stati colpiti nel mezzo della crisi economica dalla caduta delle esportazioni in Russia. La speranza degli Usa, nella loro visione distorta, era di convincere l’Arabia Saudita a interrompere i finanziamenti al Califfato con la constatazione che l’estremismo prima o poi avrebbe finito per colpire anche gli stessi Paesi a guida sunnita. Illusione peggiore non poteva esserci. E ora ad aggravare le tensioni c’è anche la caduta del prezzo del petrolio, che se è servito a indebolire l’economia russa ora si ritorce anche contro l’Arabia Saudita che pure, con la presidenza dell’Opec, ha determinato la decisione dei Paesi produttori aderenti di non tagliare le estrazioni appunto per riequilibrare offerta e domanda e quindi recuperare prezzi più adeguati. Il risultato è che per la prima volta nella sua storia l’Arabia Saudita vede ridursi di oltre 150 miliardi di dollari all’anno le proprie riserve che avevano quasi raggiunto i mille miliardi, costringendo la monarchia assoluta, per non ridurre spese e investimenti e quindi per evitare la reazione dei sudditi, a emettere il primo prestito di titoli di debito pubblico, scatenando peraltro la concorrenza fra le grandi banche d’affari, tutte desiderose di collocare la prima emissione del Paese più ricco di petrolio al mondo. Dopo i sanguinosi attentati a Parigi, l’azione degli Stati Uniti contro l’Isis è stata sicuramente più determinata, pur evitando di mandare soldati americani a combattere sul campo in coerenza con la promessa di Obama di evitare al popolo americano lo spettacolo del ritorno in patria di bare dai vari fronti. Ma la complessità delle relazioni e delle alleanze nella regione, a cominciare da quella con la stessa Arabia Saudita finanziatrice dei sunniti dell’Isis, impedisce evidentemente agli Usa di avere un atteggiamento inequivoco in tutta l’area. In uno speciale di Piazzapulita, su La7, il suo conduttore, Corrado Formigli, ha mandato in onda il giorno dopo Befana uno straordinario reportage di guerra da lui stesso realizzato nelle città recentemente riconquistate dall’esercito regolare iracheno, strappandole al Califfato dopo un anno di occupazione. Formigli ha fatto rispondere i comandanti delle pattuglie dell’esercito iracheno a una domanda inquietante: come mai i droni americani non hanno mai distrutto la strada fondamentale per l’avanzamento dell’Isis? Operazione che appariva semplicissima. Uno dei due comandanti intervistati ha fatto chiaramente capire che la scelta americana appare incomprensibile; l’altro ha riferito che la giustificazione dello Stato maggiore americano è che quella via era fondamentale anche per la fuga dei civili. Formigli ha ascoltato incredulo. Lasciando agibile quell’arteria fondamentale per il passaggio dei convogli di cisterne che trasportano il petrolio estratto dai pozzi iracheni finiti sotto il il suo controllo, l’Isis ha potuto aggiungere ai finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri Stati sunniti un grande flusso di entrate, con il quale ha potuto rafforzare i suoi armamenti e quindi annientare centinaia di migliaia di persone di credo diverso dal loro. Il servizio di Formigli e degli altri inviati e inviate di Piazzapulita è straordinario per le immagini e le testimonianze che sono state raccolte e che fanno capire come in quella regione oggi tutto sia opaco; tutto sia equivoco; tutto il bene e il male siano senza confini definiti. Ecco, i mercati cadono per tutte le ragioni descritte in precedenza, certo anche per l’orso panda cinese, ma il male profondo viene da una situazione in cui il doppio gioco prevale, facendo intuire che se non accadrà qualcosa di straordinario una grave guerra appare difficilmente evitabile, specialmente se si tiene conto che ulteriore incertezza deriva da un 2016 elettorale per la presidenza negli Usa. Non che in attesa della definizione delle candidature il presidente Obama non possa operare, ma certo la sua poca attitudine a gestire efficacemente la politica estera fa nascere la preoccupazione che, proprio in scadenza, possa commettere ulteriori scelte sbagliate. Il che spiega che la caduta dei mercati ha in primo luogo un imputato: la mancanza di una guida politica ferma e saggia. Solo scelte politiche e strategiche efficaci possono consentire di cancellare il pericolo e quindi il disastro di una guerra vera. Ma chi potrà e saprà fare queste scelte? (riproduzione riservata)