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 2016  gennaio 08 Venerdì calendario

BARACK POWER

C’è il presidente degli Stati Uniti, e poi c’è la persona a cui è capitato di diventarlo. Bill Clinton è stato alla Casa Bianca per 8 anni, ma ci ha sempre affascinato di più la persona Bill Clinton: un ammaliatore magnetico che il comico Chris Rock una volta ha definito “un tipo tosto, come il presidente di una casa discografica”. Aveva un carisma così grande che neanche lui riusciva a imbrigliare. Non resisteva alla tentazione di conquistare chiunque, che fossero 500 potenti a una cena o una donna dietro le transenne.
Barack Obama – sia la persona sia il presidente – ricorda invece Roger Federer, un combattente spietato che attacca in continuazione, ma con una serenità disarmante. Lui stesso, durante la nostra conversazione alla Casa Bianca, ha riconosciuto di essere in grado di mantenere la concentrazione su un obiettivo mentre tutt’intorno c’è il caos. Quella è la sua qualità duratura e questo è stato l’anno simbolo della sua carriera.
Vive nel più famoso museo d’America e lo usa al meglio. Sei lì ad aspettarlo in un’antica sala da tè, circondato da ritratti di first lady e mappe di campi di battaglia. Poi una decina di guardie del corpo spuntano da porte che neanche avevi notato. L’energia cambia all’improvviso. Ed ecco, c’è Obama – un gran sorriso, una grande stretta di mano, qualche battuta per mettere tutti a proprio agio. Pochi attimi dopo avermi salutato, mi stava sfottendo per le scarpe che indossavo e perché non scrivevo più. «È proprio brutto andare sul sito di Grantland e non trovare più la tua firma», mi ha detto. «Dai, non è più la stessa cosa».
È un trucco da maschio alpha: sconcertare l’interlocutore, lusingarlo e prenderlo in giro nel contempo. In pochi minuti, non dovendo affrontare telecamere né microfoni, ha preso il controllo dell’intervista con risposte misurate e senza pose teatrali. E ha funzionato. Voglio dire, come fai a interrompere l’uomo più potente del mondo?Sembrava di vedere Federer saltare sul secondo servizio di Djokovic alla finale degli US Open: un trucchetto per rompere il ritmo dell’avversario, un modo in apparenza innocuo di guadagnare vantaggio, come solo i grandi combattenti sanno fare.
In questi giorni Obama comincia il suo ultimo anno di mandato. È un’era, ormai. Che cosa ha imparato sulla leadership? Qual è il suo rammarico più grande? Glielo chiedo nel momento in cui sembra che affronti con più decisione i temi più controversi: i matrimoni gay, l’health care, Charleston, l’accordo con l’Iran...
Se potesse tornare al 2008, che cosa si direbbe?
«“Avrai un bel da fare”. Vivevamo un periodo di sconvolgimenti nell’economia e di rivolte in Medio Oriente mai visti prima: ci sarebbe stata di sicuro un’enorme quantità di problemi. Forse mi raccomanderei anche di comunicare meglio sin dall’inizio. Dopo una grande campagna elettorale che aveva scatenato la fantasia del Paese, nei primi due anni ha prevalso una certa arroganza».
In che senso?
«Nel senso che conterebbe avere una linea, non “venderla”. Ma ho imparato che non puoi separare una buona politica dal bisogno di portarti dietro gli americani, di spiegare perché fai quel che fai. Specie nell’era della comunicazione. Ecco, invece ci siamo adattati a logiche degli Anni 40 e 50; così, anche se abbiamo deciso bene – dopotutto, l’economia è cresciuta per 5 anni e mezzo di fila e il tasso di disoccupazione è stato dimezzato al 5,1% –, dal punto di vista politico abbiamo sofferto più del necessario».
C’è stato un momento in cui le è venuto da dire: “Non pensavo che sarebbe stato così duro”?
«No. Durante la campagna ho capito di avere un bel carattere: non mi esalto troppo, non mi deprimo troppo, mantengo sempre la concentrazione».
Un po’ come Gregg Popovich, l’allenatore dei San Antonio Spurs. Ma lui s’arrabbia con i giornalisti a bordo campo.
(ride) «Anch’io. O magari come Aaron Rodgers, il quarterback dei Green Bay Packers: sotto blitz, non si lascia distrarre e continua a guardare in fondo al campo. Quindi no, non c’è mai stato quel momento, neanche quando non sapevamo se c’era un’altra Grande Depressione, se saremmo riusciti a salvare l’industria automobilistica e stabilizzare le finanze. Lì ho compreso quanto potere decentrato ci sia nel sistema. Comandi tu, sai cosa fare ma: “Ok, non devo convincere solo il mio partito e l’altro, ma anche la Federal Reserve o un’agenzia indipendente, a cui non posso dire come comportarsi”. Parte del lavoro consiste nel costruire coalizioni in perenne mutazione».
È fuori a cena con sua moglie e squilla il telefono: a quante persone “deve” rispondere?
«Malia e Sasha, forse mia suocera. Poi Susan Rice, il consigliere per la Sicurezza nazionale, e Denis McDonough, il capo di gabinetto. Ma la Casa Bianca è piena di gente con responsabilità enormi. Costruire una squadra lì dentro è come il team building nello sport: non basta avere gli atleti migliori se poi passano la vita a prendersi a testate e a pretendere la palla».
Dopo la rielezione, aspettavamo il “vero” Obama: perché ci sono voluti altri due anni?
«Più a lungo faccio questo lavoro, più sono certo delle decisioni che prendo e più sono preparato alle reazioni. Ormai so cosa può accadere e lo anticipo meglio. Altro punto: eravamo certi che le decisioni prese per stabilizzare il sistema finanziario, riformare Wall Street, alzare le tasse sui grandi patrimoni e passare la riforma sanitaria avrebbero pagato, ma non potevamo festeggiare quei successi, visto che la gente soffriva. Poi, nel 2014, gli americani hanno deciso che l’economia migliorava e potevano sentirsi meglio».
Questo le dà energia.
«Oggi posso perorare una causa senza i caveat che hanno ostacolato la mia capacità di comunicare. Ho maggiore scioltezza, perché ho passato momenti duri. Non si tratta di celare la paura: non ne ho. Certo non oggi, dopo che abbiamo vinto le scommesse di anni fa. Ma influisce anche il destino».
In che senso?
«Nel 2013, dopo la rielezione, volevamo la riforma dell’immigrazione. Poi, la sparatoria alla scuola di Sandy Hook: 27 morti, 20 erano bambini. Abbiamo cambiato obiettivo: “Instilliamo un po’ di buon senso nell’acquisto di armi”. Per tutto il 2013 e il 2014, altri eventi simili – dalle rivelazioni di Edward Snowden a Ebola, dagli incidenti di Ferguson all’Isis – uno dopo l’altro. Nessuno era irrisolvibile ma si ammassavano uno sull’altro e l’inerzia politica ci si è rivoltata contro. Ma abbiamo pilotato bene la nave».
Quando è esplosa Ferguson, il 9 agosto 2014, mi aspettavo che scendesse in campo “la persona” Obama. Ma lei ha voluto essere il presidente. Invece quest’anno, dopo Charleston e Selma...
«La sfida rappresentata da Ferguson, sparatorie della polizia, razza e sistema giudiziario, sta nel fatto che per ottenere un cambiamento devi costruire il consenso. Esprimere oltraggio senza agire è controproduttivo. Oltretutto sono il capo del procuratore generale degli Stati Uniti: se gli trasmetto un’opinione forte, condiziono la futura applicazione della legge e la gente sarà meno disposta ad ascoltarmi. A Charleston invece tutto era chiaro».
Ha avuto bisogno di tempo, alla Casa Bianca, per riconoscere certi particolari momenti?
«Sì. Talvolta è questione di feeling... La questione razziale è la faglia discriminante della società e ha sempre alterato le nostre politiche. Nel caso di Trayvon Martin, la mia risposta da padre è stata apprezzata da molti; in quello di Ferguson, serviva tempo per creare una task force di polizia. Dovessi rifarlo, troverei qualcosa da dire che cristallizzi la situazione. Ma da presidente impari che se le tue performance non sempre sono impeccabili, devi togliertelo dalla testa e andare avanti perché un altro problema è in arrivo».
Per esempio?
«In palestra mi guardo qualche partita storica. Nel caso dei Chicago Bulls, a volte Michael Jordan giocava male: poi riusciva a svuotare la mente e a tornare fresco. Magari faceva tre tempi schifosi e nel quarto esplodeva. O sbagliava un tiro libero decisivo ma un attimo dopo rubava palla e segnava il canestro vincente. Ecco, a me tocca sapere come essere in ogni momento, prendere le migliori decisioni possibili: un bel po’ le ho azzeccate, altre volte non erano come volevo».
Quando ha vinto le elezioni, nel 2008, nasceva Twitter. Che sfida ha rappresentato?
«Per tutti, la velocità, essere sempre connessi e on the job, dover rispondere in tempo reale; per me, essere sulla palla e rispondere con rapidità a qualsiasi cosa senza lasciarmi divorare. Oggi stiamo costituendo un digital team della Casa Bianca: avrei dovuto vararlo prima, dopo i primi 4 anni, anche solo guardando le mie figlie. Con uno smartphone sono affascinanti, ninja che fanno cose incomprensibili in un secondo. Ma persino io noto una differenza, un mini generation gap fra Malia, che ha 17 anni, e Sasha che ne ha 14. Quindi non si tratta solo di cambiare il modo in cui si lavora alla Casa Bianca, ma anche: come comunicare a elettorati frantumati, che non guardano la televisione allo stesso modo e nemmeno seguono le notizie allo stesso modo?».
Controllo della vendita di armi: l’hanno bloccata...
«Finché non ci sarà un movimento politico in cui la gente dirà “Adesso basta”, continueremo ad assistere a queste tragedie. Gli americani non sono più violenti dei cittadini di altri Paesi, ma hanno più armi mortali a disposizione».
Sarà il tema dominante dell’ottavo anno di presidenza?
«Lo spero. Abbiamo questa bizzarra cultura del lutto: 48, 72 ore di copertura a tappeto, poi basta, di colpo si volta pagina. Ma farò il possibile perché l’attenzione non venga a mancare».
La “teoria del complotto” che l’ha più divertita?
«Quella secondo cui le esercitazioni militari in Texas erano l’inizio della legge marziale, che mi serviva per usurpare la Costituzione e rimanere al potere. Chiunque pensi che la passerei liscia se dicessi a Michelle che andrò avanti a fare il presidente, non conosce mia moglie...».
Ha davvero una driving range virtuale alla Casa Bianca?
«Si ma non è roba di lusso. Riesco solo a picchiare un po’ di palline wiffle, quelle leggere, bucate».
Nessun ospite della Casa Bianca ha chiesto un appuntamento a sua figlia maggiore?
«No. Ma qualcuno l’ha guardata in un modo strano».
Ha detto al Servizio Segreto di sbatterlo fuori?
«No, di tenerlo d’occhio».
Sua moglie domani potrebbe presentare un talk show da qualche miliardo di dollari...
(una risata) «Se l’idea le piacesse e guadagnasse un sacco di soldi... niente di male».
Qual è il programma tv che le piace e di cui un po’ si vergogna? Non mi risponda Game of Thrones, quello non vale.
«Forse Big Break, su Golf Channel. Uno show un po’ stupido, da sfigati, ma mi rilassa... e sì, Game of Thrones (Il Trono di Spade, ndr) mi piace molto».
Quale personaggio della serie è Donald Trump?
«Oh, credo che nessuno raggiunga il suo livello».
Quale stile di leadership meglio si adatta alla sua visione dell’America di domani? Quello per esempio del vicepresidente Joe Biden o di Hillary Clinton?
(ride) «Dai Bill, smettila».
Dovevo pur farle una domanda cui non avrebbe potuto rispondere! Quante sigarette ha fumato alla Casa Bianca?
«Durante gli ultimi cinque anni, zero: avevo promesso che, passata la riforma sanitaria, non avrei mai più fumato una sigaretta».
Quale privilegio della presidenza le mancherà di più?
«L’Air Force One, un meraviglioso aereo con un meraviglioso equipaggio. O forse Marine One: non avere il tuo elicottero che ti aspetta, quello sì che sarà duro!» (ride)
Le avranno detto: “Vedrai quando le tue figlie diventeranno delle teenager!”. Come è andata?
«Sono ragazze sveglie, divertenti, hanno preso dalla mamma, e lei ha fatto un gran lavoro. Oggi ti vogliono bene, ma in realtà non hanno tempo da perdere con te. Devi fartene una ragione, sapere che se le inviti al cinema, ti diranno: “No grazie, papà. Stasera dormo da un’amica”. Fra i 6 e i 12 anni vedono solo te. Poi... hanno altro da fare. Ma è bello vedere come diventano più in gamba di te».
È pronto a fare l’ex presidente degli Stati Uniti?
«Sì. Non quanto Michelle, ma sì, certo».
Quindi Michelle è in cima alla piramide decisionale?
«Certo! Ci sono vari livelli, molto chiari: Michelle, poi Malia e Sasha che continuano a lottare per il secondo posto. Io vengo prima dei cani».