Antonio D’Orrico, Sette 8/1/2016, 8 gennaio 2016
I ROMANZI SONO UN VIZIO PER BENESTANTI
Per quelli che lo hanno sempre amato (la «sterminata famiglia dei suoi lettori») la morte di Gianni Brera continua ad apparire «come un lutto iniquo e in nessun modo risarcibile (e risarcito)». Così scrive Franco Contorbia, professore di Letteratura all’Università di Genova, presentando Storia di Gianni Brera 1919-1992, il quaderno della Fondazione Mondadori che raccoglie gli interventi della giornata dedicata al grande giornalista il 7 novembre 2012 a Milano.
Fu una strana giornata con un’atmosfera affettuosa, commossa (ancora, a vent’anni dalla morte del protagonista) e che vedeva riuniti sia professori che studiano Brera sia i suoi amici e colleghi giornalisti. Non capita spesso, in Italia, che giornalisti e professori si ritrovino assieme.
stessa spiaggia stesso mare. Luigi Surdich, collega di Contorbia a Genova, riaprì nell’occasione la questione di Brera romanziere, la vocazione che lo scrittore sacrificò all’«infame giornalismo da corsa». I suoi tre romanzi (Il corpo della ragassa, Naso Bugiardo e Il mio vescovo e le animalesse), fece notare Surdich, furono scritti tutti nello stesso luogo e nello stesso mese (agosto) a Monterosso, ovviamente in anni diversi. Una unità di tempo, luogo e azione che conferma che per Brera il giornalismo fu la scrittura-lavoro e il romanzo la scrittura-gioco. Brera lo spiegò così: «Il giornalismo e la povertà hanno strangolato lo scrittore che forse mi abitava, con altri inquilini. Scrivere d’invenzione è un piacere che rasenta il vizio, un pover’uomo che metta al mondo figli non se lo può permettere». Forse queste parole di Brera stabiliscono per sempre la differenza tra il giornalismo e la letteratura.
grandi firme. Quel giorno a Milano c’era anche Giulio Signori. Morì qualche mese dopo. Signori è stato una delle più grandi firme del giornalismo italiano e un grande amico di Brera. Era forse l’unico che conosceva tutti i personaggi della commedia umana breriana (la definizione più giusta che si possa dare alla sua opera omnia). Signori conosceva tutti quelli che Brera citava nei suoi articoli e che faceva diventare personaggi del suo racconto. Quel giorno a Milano, Signori parlò di Albino, il fratello di Brera, che diventò un sarto famoso per riscattare il padre, sconosciuto sarto di paese. Albino fece al fratello Gianni un cappotto di cammello che faceva colpo per la sua perfezione (ho avuto modo di ammirarlo da vicino). Un cappotto di cachemire bello come quelli leggendari di Brando in Ulti
mo tango a Parigi e di Delon in La prima notte di quiete.
Poi Signori parlò della vedova Zambianchi che aveva l’osteria alle porte di San Zenone (il paese natale di Brera). Luogo di abbuffate di rane e bevute dello squisito Barbacarlo, il vino di Lino Maga.
Mancia. Nel quaderno sono riprodotte pagine delle agende di Brera. C’è quella da Madrid del 10 luglio 1982 (vigilia della finale vinta da Paolo Rossi & co.). Brera scrive: «Pessima colaz. con Navarro 2800 + mancia». Il Navarro è il soprannome che Brera aveva dato negli articoli a Mario Sconcerti. Mi fa tenerezza che lo chiamasse così anche nel suo diario.+