Marzio G. Mian, Sette 8/1/2016, 8 gennaio 2016
CHI VINCERÀ LA CACCIA AL TESORO NERO
DEL BIANCO ARTICO? –
Da quattro anni si sono riaccese le luci lassù sulla montagna; sono sei enormi occhi gialli, l’unica cosa colorata nel paesaggio in bianco, grigio e nero di questa landa nord orientale dell’Islanda, 500 abitanti sparsi su centomila chilometri quadrati. Potrebbero sembrare le fotocellule di un cantiere nell’opprimente foschia di un pomeriggio autunnale. La stazione radar sul monte Gunnolfsvikurfjall che domina i fiordi affacciati sull’Oceano Artico era stata abbandonata dalla Nato addirittura nel 1968, quando gli Stati Uniti avevano deciso di concentrare gran parte dell’intelligence tecnologica nei bunker della base di Thule, estremo Nord Ovest della Groenlandia: un gigantesco orecchio in grado di percepire ogni movimento e segnale nemico sull’intera regione polare. Così, in piena Guerra fredda, qui il lavoro sporco era affidato ai pattugliamenti dei sommergibili britannici e norvegesi. «Neanche Tom Clancy ha mai citato questa base radar nel suo straordinario Uragano Rosso», dice Siggeir Stefansson, manager della Isfelag, l’unica industria locale, duecento tonnellate di merluzzo e sgombro sfilettati ogni giorno. Tutti in Islanda conoscono il capolavoro di fantapolitica di Clancy, il quale ambientò sull’isola l’epicentro della Terza guerra mondiale tra blocco sovietico e Nato: una ricostruzione così verosimile che il romanzo è tutt’ora manuale obbligatorio sia a West Point che all’accademia russa Michail Vasil’evi. Eppure i sovietici, dopo aver occupato con un blitz la base aerea Nato di Keflavik, un’ora a sud di Reykjavik, utilizzano proprio i fiordi del Nord Est per nascondere alcuni sottomarini dotati di missili balistici; ed è collocata nella tundra affacciata su questa costa artica l’eroica sopravvivenza del tenente Edwards, che combatte utilizzando quella che Clancy definisce «l’arma più pericolosa mai concepita», la radio: il marine riesce a comunicare con i comandi atlantici e a innescare la controffensiva. La stazione in cima al Gunnolfsvikurfjall non compariva quindi nel libro del 1982 semplicemente perché già smantellata. «Un giorno si sono accese le luci sulla montagna, hanno scaricato materiali con gli elicotteri. Sembra ci sia una decina di uomini che vive stabilmente lassù», dice il manager del baccalà, «ma nessuno li ha mai visti davvero. Dicono anche che il radar funzioni come un’aspirapolvere in grado di succhiare ogni messaggio, email o movimento sospetto da qui a Murmansk, in Russia».
Operazione Lomonosov. Solo quando si rompe il ghiaccio – dice un proverbio degli Inuit – scopri davvero chi è tuo amico e chi tuo nemico. Il ghiaccio si scioglie e si rompe nell’Artico, l’area del pianeta che si riscalda di più. In tre anni se n’è andata una fetta di pack grande quanto la California. E difatti mentre scompaiono gli orsi polari, proliferano i nemici. Nell’agosto dello scorso anno due scienziati norvegesi sono stati depositati su un’isola di ghiaccio con 21 tonnellate di materiale a duecento chilometri dal Polo Nord: sono andati deliberatamente alla deriva per mesi, praticando carotaggi, filmando il processo di scioglimento, misurando la febbre dell’oceano. Sempre soli – unica visita, una volpe bianca. Poi un giorno d’ottobre hanno visto spuntare un mostro dall’acqua, si sono avvicinati, hanno fotografato, e la cosa è tornata sotto. Poi s’è scoperto che era l’Orenburg, sottomarino russo che trasporta un mini sottomarino nucleare attrezzato per le operazioni d’intelligence. L’Orenburg non era lì per caso, ma per controllare proprio i due scienziati, troppo vicini al tesoro, la formazione marina di Lomonosov, la nuova frontiera dell’umanità: sotto e intorno a quella catena montuosa polare giace un quarto del combustibile fossile della Terra. Chi ci metterà le mani farà saltare il banco del Grande gioco polare, innescato da una domanda che aleggia minacciosa sugli equilibri mondiali: di chi è l’Artico? Stiamo parlando di un valore di petrolio e gas stimato dall’Us Geological Survey in 18 trilioni di dollari, l’equivalente dell’intera economia americana. E se il ritmo di scioglimento dei ghiacci sopra Lomonosov è quello indicato dal Centro scientifico polare dell’Università di Washington, secondo cui è evaporato il 65 per cento di calotta in trent’anni («Una spirale di morte sicura», l’ha definita il professor Peter Wadhams), allora si spiega l’affollamento di spie che neanche nella Vienna degli anni Sessanta.
«Secondo i nostri servizi», dice a Sette Anton Vasiliev, ambasciatore russo a Reykjavik, «nell’Artico l’attività d’intelligence è oggi molto più intensa e tecnologicamente avanzata che in Medio Oriente, nonostante l’escalation militare in Siria e Iraq». Mentre l’attenzione dei media è concentrata nei deserti, sul pack le potenze artiche (e non solo, vedi Cina) stanno combattendo a colpi di foto satellitari, droni di ricognizione, centri d’ascolto, aerei spia e sottomarini stealth. La Nato ha già registrato un centinaio di voli spia russi nella regione artica rispetto ai 22 del 2014 (ma circa le stesse cifre sono quelle denunciate da Mosca contro gli sconfinamenti dei caccia e aerei spia atlantici). E gli Stati Uniti, secondo Foreign Policy, dalla base di Thule danno ordini a 140 satelliti che circolano sull’Artico ogni trenta minuti, 20 mila passaggi nel 2014, e sviluppano una nuova generazione di sensori robotizzati in grado di monitorare movimenti anche sotto la calotta polare.
Dottrina Obama. Il recente viaggio di Barack Obama in Alaska, il primo di un presidente americano oltre il Circolo polare, ha voluto comunicare l’impegno della Casa Bianca sul fronte della lotta al riscaldamento globale; soprattutto è stato il segnale di un radicale cambiamento di rotta degli Stati Uniti sullo scacchiere artico. Lo ha detto in ottobre senza mezzi termini la delegazione statunitense all’Arctic Circle, la conferenza che da tre anni riunisce a Reykjavik tutti i player, scienziati e diplomatici, ambientalisti e militari, inuit e gnomi della finanza – un evento confezionato per condividere una governance trasparente intorno alla più fragile e contesa regione del Pianeta, ma diventato importante palcoscenico per le grandi potenze e backstage per “esperti” di dossier sensibili. «Siamo una nazione artica», ha detto Ben Ziff, inviato del dipartimento di Stato, «e siamo determinati a contrastare ogni emergenza, ambientale, commerciale e militare». Alla platea viene annunciato che complessivamente sono 4 mila gli scienziati americani che lavorano nell’Artico, ma, a margine, gli analisti fanno sapere che nei passati 14 mesi a tutte le 16 agenzie di intelligence è stato dato il mandato di lavorare full time sull’Artico e di riferire a un apposito nucleo strategico. La decisione sarebbe stata presa nel settembre 2014, quando il Pentagono ha scoperto la presenza di cinque navi da guerra cinesi nel mare di Bering, al largo delle Aleutian Islands. Oltre all’accesso alle immense risorse e alla contesa giuridico-scientifica sulle mire polari di Russia, Stati Uniti, Canada, Norvegia e Danimarca (via Groenlandia), la scomparsa dei ghiacci per periodi ogni anno sempre più ampi apre nuove vie d’acqua artiche che accorciano della metà il tragitto delle navi mercantili e i bulk-portacontainer dall’Asia all’Occidente rispetto alle rotte tradizionali via Suez, e qui la Cina intende governare i traffici anche a costo di mostrare i muscoli, perché, se il 90 per cento del commercio mondiale avviene via mare, quasi il 50 per cento del Pil cinese deriva dal trasporto di merci attraverso gli oceani. Passando dalla calotta il risparmio per Pechino in tempo, carburante ed emissioni equivale a 120 miliardi di euro l’anno.
Arcipelago Putin. «Oggi possiamo vedere ciò che dieci anni fa era inimmaginabile, soprattutto grazie ai droni subacquei», dice una fonte della delegazione americana, che mostra mappe digitali con rotte aeree, bacini petroliferi, progetti per porti e aeroporti. Un file a sé è quello “russo”. Che evidenzia l’escalation militare avviata da Vladimir Putin sui territori artici che erano strategici già ai tempi di Ivan il Terribile. Il piano è di riaprire dieci basi sovietiche lungo i seimila chilometri che vanno da Murmask allo stretto di Bering, 14 nuovi aeroporti militari, un cantiere per la costruzione di quattro nuovi sottomarini nucleari. «Dobbiamo attrezzarci, essere all’altezza della partita, cominciando dai rompighiaccio che sono l’unico mezzo per essere padroni del campo», ha scritto il senatore conservatore John McCain sul Wall Street Journal: «Noi ne abbiamo due contro i 41 dei russi, di cui sette nucleari, e la Cina ne sta costruendo otto...». Operazione restauro, mani di antiruggine sui vecchi arnesi della Guerra fredda anche per il Canada, che ha riattivato la base di ascolto chiamata Cfs Alert, a Ellesmere Island, 500 miglia marittime dal Polo. «Era ormai un relitto», dice Rob Huelbert, professore di affari artici all’Università di Calgary. «Ora è un bastione per l’intelligence Nato, ospita oltre cento ufficiali canadesi che condividono in tempo reale i dati con Washington».
Il simbolo della tensione che surriscalda quel che rimane dei ghiacci polari si chiama Marijata, nave spia norvegese costruita per raccogliere dati elettronici e appena varata nei cantieri dell’Us Naval Weapons Station a Hampton Road in Virginia, a un paio di chilometri da Camp Peary, la base di addestramento della Cia per operazioni coperte. Sarà la sentinella Nato nel mare di Barents, simbolo oggi come ai tempi di Breznev della contrapposizione Est-Ovest. «Marijata mapperà ogni attività militare e civile per definire cosa è normale e cosa rappresenta una minaccia per la Norvegia e la Nato», dice il generale dei servizi di Oslo Kjell Grandhagen. Pare che la nave-spia sia in grado di captare le frequenze del sistema radar russo – informazioni cruciali in caso di guerra. Fino a un paio di anni fa, nella regione l’aria era assai diversa, gli accordi di cooperazione tra Kirkenes (Norvegia) e Murmansk (Russia), erano un riferimento internazionale per le relazioni transfrontaliere nelle aree di crisi; Rune Rafaelsen era chiamato il “Simon Perez” norvegese e viaggiava nei Balcani e in Medio Oriente a testimoniare l’esperienza artica. Nel nome del dialogo era stato fondato a Kirkenes un autorevole giornale online in norvegese, inglese e russo, il Barents Observer, finanziato anche dal ministero degli Esteri. Ma negli ultimi mesi sono aumentate le proteste e le pressioni russe per certi articoli, soprattutto a firma del direttore, Thomas Nilsen, esperto di strategia petrolifera e militare. Nilsen è stato licenziato senza spiegazioni, ma poi una fonte governativa citata dalla televisione di Stato norvegese Nrk ha fatto sapere che la sua testa è stata chiesta direttamente dall’Fsb, l’agenzia di sicurezza di Mosca come condizione per non rompere gli accordi di Barents.
Sul tetto che scotta. Gioco di scacchi e giochi di guerra sulla calotta del mondo, diventata il Klondike del Ventunesimo secolo. In Finlandia sanno, meglio di chiunque altro, leggere nel pensiero dell’Orso: «Noi capiamo quando i cosacchi puntano al bottino», ha detto il ministro degli Esteri Timo Soini. «Con il passaggio a Nord Est che si apre come un’autostrada, per la Russia è un’occasione da non perdere per dominare l’Artico, stanno armando la costa siberiana come fosse già un fronte di guerra». Dopo la Crimea, e prima di prendere l’iniziativa in Siria, Putin ha virato verso il profondo Nord. La base ex sovietica di Alakurtti, a ridosso del confine finlandese è stata riaperta e attrezzata con settemila uomini, tremila dei quali esperti radiotelegrafisti. Da agosto i caccia russi hanno violato sedici volte gli spazi aerei finlandesi. «L’Artico è, incondizionatamante, parte integrante della Federazione russa; è così da secoli, difenderemo i nostri interessi in qualsiasi modo», ha detto Putin nel 2013. Ciò che ha fatto montare in Finlandia il dibattito su una possibile adesione alla Nato e in Norvegia la corsa a intensificare la sicurezza sono state le manovre russe dello scorso marzo: in 24 ore il Cremlino ha mobilitato 38 mila uomini delle forze speciali nel mare di Kara, 50 tra navi da guerra e sottomarini, 110 aerei. «Entro la fine del 2016», ha detto il ministro della Difesa Sergei Shoigu, «saremo preparati per ricevere qualsiasi minaccia da Est e da Nord». La partita che conta resta quella classica, Mosca-Washington. E il primato americano nei sommergibili, 72 contro i 60 dei russi, comincia a rivelarsi una magra consolazione. Nel novembre 2014, la Russia ha iniziato la costruzione di una base per droni a 500 chilometri dai confini con l’Alaska, garantendosi il futuro controllo dell’Artico a bassa quota, mentre il Pentagono è letteralmente “terrorizzato” – come ha specificato il comandante Tom Spahn a Proceedings, una rivista della Marina Usa – per la sofisticata tecnologia di sottomarini di ultima generazione come lo Yasen, «capaci di alterare il paesaggio geopolitico mondiale». S’intuisce come, con quel viaggio tra gli eschimesi, Obama abbia voluto dare inizio al contropiede.