Giuliano Ferrara, Rolling Stone 1/2016, 8 gennaio 2016
LA PECCAMINOSA INNOCENZA DI MARIA ELENA BOSCHI
La Boschi ovviamente non è un ministro, non è una persona, non è una donna. Non le sarebbe accaduto niente di così banalmente oltraggioso, in assenza del benché minimo indizio di malaffare, se non fosse un’immagine, prima di ogni altra cosa, e un simbolo, un riflesso di ubbie, sogni e paure del maschio e della femmina italiani, quel che si dice un’icona. Appena è comparsa in politica milioni di occhi hanno preso a seguirla con un’attenzione del tutto speciale, una cosa biblica: bella, bella virginale botticelliana, bella e sola, ma allora decisamente colpevole, e donna e mangiatrice di mela, femmina sospetta, sposa di fuori e amante di dentro, oltre tutto è capace, si fa largo tra i bisonti e i dinosauri del Parlamento, per forza dobbiamo ritenerla alle origini di ogni male possibile, come Eva.
Leviamoci di testa l’idea che in politica si facciano addizioni, divisioni, moltiplicazioni, sottrazioni, e che l’algoritmo machiavellico ci possa consentire un uso strumentale, verisimile, realista del fattore umano nel teatrino della vita pubblica. Siamo un Paese volubile e a sangue caldo, abbiamo avuto la massima stagione del melodramma eppure niente seria musica sinfonica, ci comportiamo di conseguenza con le figure del femminile, anche e specialmente se rivestano carattere politico, come fossero parte di una catena di comando cui ci sentiamo soggetti. La Boschi non è la prima bella donna sul proscenio nazionale, figuriamoci. Ma certo è la più giovane tra le belle, la meglio gratificata dalle circostanze, riforme a lei intestate eccetera, ed evoca come nessuna prima di lei il pettegolezzo, la malignità, il curioso ardore delle folle che la sua perfezione formale impensierisce e confonde. La Banca dell’Etruria, via, fa ridere come conflitto di interessi. Siamo abituati a ben altro. Che un qualunque papà del giro renziano, compreso il papà di Matteo, faccia vita professionale o di business e sia per ciò stesso genericamente sottoponibile alla gogna del sospetto, è appena ovvio. Lo si è detto: eravamo il Paese dei familismi, dei favoritismi a figli e cugini e nipoti, avevamo perfino il Cardinal nipote, e ora per un grottesco rovesciamento anagrafico teniamo d’occhio i papi, i genitori, e li chiamiamo in causa ogni minuto con sordide maniere di finto moralismo.
Ma l’avrete vista anche voi qualche volta in televisione, spero. Nella Boschi è insopportabile l’elemento saputo, che non è un imparaticcio da talk show, è proprio la lezione delle cose e del team in cui gioca, lezione perfettamente appresa, assimilata e risputata a favore di telecamera con originalità di tratto, per quanto possibile, ma sempre nell’ambito di una disciplina di ceto politico, di appartenenza a una leva di reggitori dello Stato, che fanno della modestia affettata, e dell’autorevolezza da consenso ottenuto, il loro strumento principale di persuasione. Dico insopportabile non perché io non la sopporti, me ne impipo, penso che alla fine è meglio una figura politica ordinata, che sappia di che cosa parli anche se non mostra né cuore né fuoco nella pancia, ed è incline pericolosamente a non sbagliare mai; meglio una così, specie se donna, di certe bambole piene di inutile calore, che si sdilinquiscono ai piedi di una mostruosa dimensione del politico come sfrenata passione militante; e non, alla Boschi, come composta passione professionale. Io appunto resto indifferente, e semmai simpatizzante. Ma i miei compatrioti italiani/e s’infastidiscono, non la sopportano anche quando la desiderano, si sentono tra le mani di un’amante-badante autorevole e perfino autoritaria, una che non gliele manda a dire, che vuole fare missione compiuta, che chi si crederà mai di essere.
Ci sarà un lieto fine festoso della piccola saga della Banca dell’Etruria, si presume. Ma il concertino di morbosità, malevolenze, dissimulazioni, automatismi galanti e cattivi pensieri che circonda Maria Elena Boschi è destinato a non finire. Si continuerà a rovistare tra le sue ambizioni, tra le cose private della sua vita, tra le faccende di famiglia, e sempre con un’accentuata e bollente curiosità. Noi nella parte di Faust, sempre pronti a salire al cielo in nome di una bella donna che si danna per il nostro piacere, Mefistofele nella parte dell’uomo di mondo che ci impone un patto col Diavolo in nome della bella vita, e lei, la Maria Elena, come un’innocente, candida e peccaminosa Margherita.