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 2016  gennaio 08 Venerdì calendario

NON BASTA PIU’ IL PASSO TIMIDO

Battere il mercato chiudendo arbitrariamente la Borsa non è mai una dimostrazione di forza, di responsabilità e neppure di coraggio. Perché quando i mercati decidono che è l’ora di vendere sul serio, cioè di correggere con decisione valutazioni irragionevoli rispetto ai profitti aziendali e al quadro economico, finanziario e geopolitico sottostante, non c’è divieto di short selling, limiti alle vendite o chiusura totale dei listini in grado non solo di riportare la calma sui mercati, ma soprattutto di impedire agli investitori di ricominciare a vendere ancora di più appena possibile. Questo è quanto ieri il mercato ha ricordato non solo a Pechino, ma anche ai governi e alle istituzioni monetarie internazionali: non sono i divieti a battere il mercato, ma il coraggio di attivare con decisione e tempestività ogni misura di sostegno possibile. Investimenti pubblici da parte dei governi, forti stimoli monetari ordinari e straordinari da parte delle banche centrali.
In America tutto questo è cosa nota. In Europa, l’Eurozona lo ha capito a proprie spese durante la crisi finanziaria del 2008-2014: solo chi stampa moneta ha la possibilità, e soprattutto il dovere, di rispondere con la forza della Sovranità monetaria alle crisi congiunturali e finanziarie. La Cina sembra in mezzo al guado: i mezzi interventi sui tassi, i “finti” Quantitative easing e soprattutto le misure repressive da socialismo reale non tengono più all’urto del mercato. Per chi investe e per chi produce dall’estero, non è solo il rallentamento economico cinese a far paura: è l’assenza di indipendenza delle authority, l’opacità dei processi decisionali del governo, la mancata crescita dei redditi e il passo delle riforme che spaventano. Ed è soprattutto la crisi del sistema bancario e finanziario cinese, a cui il governo di Pechino non è in grado di dare risposta, a creare il nervosismo degli investitori e i presupposti per la fuga dei capitali.
Continua pagina 3 Alessandro Plateroti

Continua da pagina 1 Contrastare l’emergenza depauperando le riserve valutarie, come è stato fatto finora in Cina, non porta risultati: la Banca centrale cinese ha speso solo nel 2015 oltre 500 miliardi di dollari per sostenere lo yuan, ma la valuta cinese, come la Borsa, resta ancora nel tunnel. Come restano nel tunnel le banche, che dopo aver decuplicato i prestiti a imprese e famiglie (e finanziato a leva la corsa della Borsa) si trovano ora oberate da prestiti in sofferenza per 1.200 miliardi di yuan, pari a circa 200 miliardi di dollari secondo le stime ufficiali: le stime di mercato parlano di cifre tre volte superiori. Che cosa aspetta Pechino ad affrontare l’emergenza delle banche? Come può pensare di ottenere in Europa lo status di economia di mercato se poi continua a gestire economia e finanza come un affare privato? È su questo terreno che si sta consumando oggi la crisi cinese. Ed è proprio l’incertezza e l’opacità dimostrata dalle autorità ad alzare il nervosismo sugli altri mercati: azioni, valute, titoli di Stato.
Con la politica del braccio di ferro con il mercato, la Cina rischia non solo scivoloni grotteschi - come la decisione presa ieri di chiudere la Borsa dopo 30 minuti di contrattazioni - ma anche di innescare processi finanziariamente e socialmente esplosivi. Ma soprattutto, non è così che si ferma il “deleverage” degli hedge funds e dei grandi operatori istituzionali globali, notoriamente poco inclini a tollerare inerzia e minacce: con loro, ogni intervento dirigista alza inevitabilmente il prezzo della sconfitta. La correzione diventa così panic selling, e la fuga dal rischio travolge anche i rifugi ritenuti più sicuri: più dei crolli azionari, sono stati ieri i balzi dei tassi americani e tedeschi a lasciare il segno. L’intensità dei ribassi e la sfiducia dei mercati ha spinto fuori campo non solo la Fed, ma persino la Bce: con i prezzi dei Bund in discesa, la caduta dei BTp, dei Bonos e degli altri “periferici” è stata tra le più rilevanti degli ultimi anni, con punte di rialzo dei rendimenti nell’ordine del 6-8 per cento. Ed è così che la tempesta cinese si è traformata rapidamente in uragano: se si aggiungono il petrolio ai minimi storici e le ansie da terrorismo e da minacce atomiche, è facile capire perché l’oro sia stato l’unico bene rifugio ad aver chiuso in rialzo il giovedì nero dei mercati. In tempi come questi, i trader hanno una sola parola d’ordine: “cash is king”, il contante regna. Questo atteggiamento è tipico dei momenti in cui il mercato passa da una fase di correzione a una caduta più profonda, dolorosa e generalizzata.
La confusione è insomma alta sotto il cielo. Gli Stati Uniti, come sempre in questi casi, pensano prima alla difesa degli interessi nazionali e poi alle esigenze globali. La Fed ha piena autonomia dalla Casa Bianca e può decidere l’espansione del proprio bilancio con piena indipendenza, così come ha potuto salvare le proprie banche stampando meneta. E l’Europa? L’Unione, senza dubbio, resta in piedi grazie a Draghi, ma le tensioni nel board della Bce sulle manovre monetarie sono tornate ad alzarsi. Davanti al caos e all’incertezza che provengono dalla Cina, sarebbe forse ora per l’Europa di rivedere le regole, i vincoli e i doveri che sono alla base dell’Unione. Non solo per la Bce, ma soprattutto per dare un futuro agli Stati e ai mercati che ne fanno parte.