Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 8/1/2016, 8 gennaio 2016
IL PASTICCIO CINESE CHE MINACCIA IL RESTO DEL MONDO
A Shanghai ieri la seduta di Borsa è durata soltanto 29 minuti, prima che scattasse il blocco delle contrattazioni per eccesso di ribasso. In meno di mezzora la Cina ha di nuovo spaventato il mondo, a Milano Piazza Affari ha chiuso in rosso dell’1,14 per cento, gli altri listini europei non sono andati meglio, la peggiore la Germania, -2,30 per cento. Che cosa sta succedendo e quanto può durare?
LE ORIGINI. La Cina sta crescendo meno del previsto, non raggiungerà l’obiettivo di un aumento del Pil del 7 per cento all’anno. Secondo molti osservatori le statistiche sono gonfiate e i numeri veri molto più bassi. Il governo di Pechino dovrebbe guidare l’evoluzione del modello di sviluppo: non più solo esportazioni basate sul lavoro a basso costo, ma costruzione di una classe media che aumenta il proprio tenore di vita e consumi. Solo così si può evitare che l’inevitabile frenata faccia esplodere le tensioni sociali di un Paese con forti disuguaglianze all’interno. Gli investitori si chiedono quindi se la leadership autoritaria di Pechino riesca a gestire un processo che richiede riforme e aperture al mercato difficili da conciliare con lo stretto controllo che il Partito comunista mantiene sul Paese.
L‘INNESCO. L’11 agosto la Banca centrale cinese (People Bank of China, PBoC) annuncia un aggiustamento una tantum del tasso di cambio dello yuan che però viene (giustamente) interpretato dai mercati come una liberalizzazione del tasso di cambio. Fino a quel momento, lo yuan era autorizzato a una variazione del 2 per cento intorno a un cambio fissato dalla PBoC che lo teneva a stabilmente sopravvalutato rispetto al cambio che avrebbe fissato il mercato. La Banca centrale stabilisce quindi che l’obiettivo di cambio verrà fissato più vicino a quello di mercato, il nuovo obiettivo equivale a una svalutazione. In teoria è una buona notizia, visto che da anni i grandi Paesi, a cominciare dagli Usa, denunciavano le rigidità del mercato cinese, a cominciare dalle scelte politiche sulla moneta. Per evitare che l’aggiustamento sia troppo rapido, la PBoC inizia a comprare yuan usando le sue riserve, 87 miliardi di dollari bruciati a novembre, 108 a dicembre (dato che ieri ha preoccupato parecchio i mercati ).
IL CONTAGIO. Introdurre flessibilità soltanto in un angolo del sistema finanziario destabilizza tutto il resto: se il regime cinese decide di sostenere le esportazioni lasciando cadere lo yuan, forse le cose vanno peggio del previsto, hanno pensato molti investitori. E sono destinate a peggiorare ancora, visto che uno yuan debole rende più difficile sviluppare una crescita fondata sui consumi interni (dove una moneta pesante aiuta, soprattutto per comprare energia e materie prime dall’estero). I timori sulle prospettive future si sono tradotti in una fuga dalle azioni della Borsa di Shanghai (che praticamente è isolata dalle altre Piazze internazionali) rendendo più evidente che il livello dei prezzi era drogato. Sia dalle rigidità del mercato, sia dagli acquisti fatti da soggetti riconducibili al governo, sia dagli annunci di grandi piani portatori di crescita ora meno credibili.
LA REAZIONE SBAGLIATA. Il governo ad agosto cerca di evitare il crollo con misure che si stanno rivelando sempre più parte del problema che della soluzione. Introduce, tra l’altro, il divieto di vendere pacchetti azionari superiori al 5 per cento. Appena il limite si avvicina alla scadenza, prevista per l’8 gennaio, iniziano di nuovo i crolli, alimentati anche dai dati sulla crescita e dal continuo indebolimento dello Yuan. Il governo di Pechino ha introdotto anche un meccanismo di blocco automatico per 15 minuti delle contrattazioni in Borsa ogni volta che l’indice principale perde più del 5 per cento (circuit breaker). Ma questo meccanismo ha peggiorato la situazione, aumentando la pressione a vendere. Appena si riaprono le contrattazioni, la perdita si aggrava invece di ridursi. Ieri Shanghai è arrivata a perdere il 7 per cento in apertura, le contrattazioni sono state chiuse dopo soli 29 minuti. Nel pomeriggio le autorità cinesi hanno cancellato il blocco automatico, avendo capito che stava aggravando il panico.
IL CONTAGIO. Gli investitori sono sempre più preoccupati: non tanto per la frenata della Cina o per lo yuan, ma perché sta emergendo tutta la difficoltà per la leadership di Pechino di tenere insieme riforme di mercato e dirigismo nell’economia. Il petrolio continua a scendere, ai minimi da 12 anni, ieri a 32 dollari al barile. Segno che sui mercati prevale l’idea che il caos cinese contribuirà a rallentare l’economia mondiale (e dunque la domanda di energia).