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 2015  dicembre 30 Mercoledì calendario

DOSSIER ZALONE PER IL FOGLIO DEI FOGLI


PAOLO MEREGHETTI, CORRIERE DELLA SERA 30/12 –
Se passano gli anni per Luca Medici, passano anche per il suo personaggio Checco Zalone (e per il suo cosceneggiatore, regista e complice Gennaro Nunziante). Cado dalle nuvole era del 2009 e il suo protagonista – «meravigliosamente mediocre» come lo definiva una battuta – è cresciuto in consapevolezza e ambizione. Così come sono cresciuti i bersagli da colpire: ieri erano i luoghi comuni del politically correct (e dello scontro Sud-Nord) oggi, in Quo Vado?, sono diventati i miti di una nazione che si ostina a non crescere: la cucina della mamma, la sicurezza della famiglia, la certezza del posto fisso.
Anzi il sogno tutto italiano di essere uno statale assunto a tempo indeterminato è la stella polare che guida ogni suo comportamento e che lo spinge a sopportare ogni tipo di angherie quando l’ufficio «caccia e pesca» di cui è responsabile viene eliminato con l’abolizione delle Province e la cattivissima dirigente centrale Sironi (Sonia Bergamasco, finalmente libera di mostrare il suo lato comico) lo deporta nelle destinazioni più improbabili per spingerlo alle dimissioni.
Tutto questo lo scopriamo dal racconto di Zalone che, all’inizio del film, viene catturato da una tribù africana: per aver salva la vita deve spiegare cosa l’ha spinto ad attraversare il loro territorio. E Checco inizia la storia della sua vita, da quando, bambino, era educato dal padre (Maurizio Micheli) alle delizie dell’assenteismo e alla maestra che lo interrogava su che cosa volesse fare da adulto rispondeva serafico: «Il posto fisso».
Potrebbe sembrare che l’assunzione nello Stato a tempo indeterminato sia ormai un mito rottamato dai tempi (anche se ricordo un sondaggio di non molto tempo fa che lo metteva ancora in cima ai desideri degli italiani) ma dopo una prima parte dove sogni e incubi del perfetto burocrate sono raccontati con divertita partecipazione (indimenticabile la lezione su corruzione, concussione et similia impartita all’amico cacciatore che vuole regalargli una quaglia), Zalone diventa il campione di una serie di comportamenti «all’italiana» che travalicano l’ambito del «posto fisso» per diventare i simboli di un malcostume più diffuso e radicato, legati al razzismo, all’indifferenza ecologica, alla libertà sessuale, al maschilismo quotidiano e che vengono ben sintetizzati nella canzone La prima repubblica, intonata mentre il senatore-simbolo di quella mentalità e di quei comportamenti, «l’angelo custode» Binetto (affidato a un simpatico Lino Banfi), arringa le folle per farsi rieleggere.
Una canzone che Zalone canta con una voce simil Celentano, omaggio evidente alla tradizione musicale del cantante milanese (sembra di sentire una specie di rivisitazione del Ragazzo della via Gluck ) ma che finisce per essere inevitabilmente anche una presa di distanza ironica da quelle proteste progressiv-populiste con cui Celentano è stato identificato e di cui ogni tanto si è fatto donchisciottesco paladino. Come a voler ribadire la voglia di Zalone di non fermarsi davanti a nessun santo o santuario.
È questa, mi sembra, la caratteristica più autentica dello Zalone 2015, la voglia di divertire superando la comicità più facile e corriva per cercare di allargare il proprio orizzonte di autore comico e satirico. Così Quo Vado? trasforma pian piano l’impiegato disposto a sopportare ogni angheria (il mobbing gli sembra un regalo fatto dai colleghi per evitare di lavorare) in un cittadino costretto a fare i conti con i propri limiti: succede con il trasferimento alle Svalbard, in una base artica italiana, dove l’amore per la «moderna» Vittoria (Eleonora Giovanardi) lo porta a rimettere in discussione certezze e convinzioni. Naturalmente il «vecchio» Zalone ogni tanto torna a far capolino, i vantaggi dello statale con tredicesima, ferie pagate, mutua (e a casa la mamma, interpretata da Ludovica Modugno) tornano a far valere le proprie ragioni. E la risata scoppia puntuale.
Quello che forse non ti aspetti è l’esito finale delle sue peregrinazioni, in nome di una ragionevolezza che mette d’accordo populismo e buonismo, ma che finisce per accentuare lo iato che ormai esiste tra il personaggio (compiuto e «maturo») e le storie con cui deve confrontarsi, queste sì ancora schematiche e «rozze». Ed è questo il nuovo passo che ci si aspetta dallo Zalone a venire, capace cioè di mettere a punto sceneggiature all’altezza delle sue ambizioni.

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MALCOM PAGANI, IL FATTO QUOTIDIANO 30/12 –
Meno padronale dell’Alberto Sordi precipitato in Angola con Bernard Blier per non perdere le cattive abitudini: “E se eravamo in tre, in tre te menavamo” Checco Zalone da Capurso, Bari, cerca in una tribù africana apparentemente ostile il lasciapassare per proseguire nell’Odissea di un posto fisso via via sempre più itinerante in cui il Continente nero recita solo da ultima tappa.
La riforma della Pubblica amministrazione è pronta. Il taglio delle Province cosa fatta. La mobilità un’imposizione. Il ministro Magno (Ninni Bruschetta) ha incaricato la spietata dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco, qui strappata a Sandro Penna e a Bernardo Bertolucci) di piegare al licenziamento con buonuscita una vasta pletora di nullafacenti.
Alle promesse di inquadramento di Bennato: “E se fai il bravo ti faremo avere / il posto fisso e la promozione”, Checco Zalone credeva fin da bambino e ora, terrorizzato dal matrimonio, abituato al sacro dogma della mazzetta, educato alla religione della Prima Repubblica e cresciuto alla scuola del Senatore Binetto (Lino Banfi, un gran recupero in veste di consigliere del giovane raccomandato senza più paracadute: “Checco ti mandano in Val di Susa o a Lampedusa? E tu mandali a fare in culo, scusa”) si trova al bivio della sua esistenza.
Incassare un assegno dallo Stato e cambiare vita o incatenarsi al badge da far timbrare al collega nell’ufficio provinciale Caccia e Pesca, abbandonare per sempre la Puglia e girare tra l’Aspromonte e le sperdute baite di montagna? Non cederà allo scivolo di governo e salirà sull’ottovolante per approdare al Polo Nord e trovare finalmente l’amore (Eleonora Giovanardi) tra orsi, cadmio e scioglimento dei ghiacci.
Avviato verso i 200 milioni di euro con il quarto film, nel quale non tutto è perfetto, ma quando si ride – e succede spesso – si ride veramente moltissimo, Zalone costruisce una favola che alla precisa osservazione dei vizi autoctoni, della furberia innalzata a sistema, delle maleducazioni compiaciute di casa nostra, la base della commedia all’italiana: “C’è una psicosi legalitaria in giro” e alla caratterizzazione divertente e divertita dei primati altrui (in Norvegia, dove Zalone prova a diventare civile, il suicidio è una regola e “vichinghi” barbarici girano nudi per casa, partono lenti al semaforo e infangano la cucina italiana facendo bollire la pasta per mezz’ora) aggiunge il tempo comico di un vero attore. Quando la sceneggiatura arranca – capita – e quando non c’è altro che lo sketch, Zalone tiene, anzi occupa la scena come sapevano fare soltanto i nostri interpreti di un tempo.
Escluso Verdone, Zalone ha divorato una generazione. Ha reso innocui Panariello e Pieraccioni, fatto dimenticare i cinepanettoni, reso inessenziali quasi tutti gli altri ospiti alla tavola dell’incasso di stagione. Si è seduto da padrone. Ha sedotto chi sul film di Natale in genere sputava.
Senza più complessi, liberati da un equivoco trentennale, ridono e applaudono nella proiezione riservata alla stampa al Cinema Adriano di Roma anche i critici più anziani. Tra macchine per i popcorn pronte a sfamare le torme che assaliranno il cinema nel pomeriggio e modelli a grandezza naturale di Star Wars, la vera fantascienza si chiamerà Zalone.
Quo vado (regia del fido Gennaro Nunziante, produzione di Pietro Valsecchi per Tao Due, distribuisce Medusa) lo vedranno proprio tutti. E vedranno i cascami di ieri (Al Bano e Romina, il jingle di 90° minuto, le madri felici di servire, i padri indolenti, le eterne fidanzate aggrappate all’anello dello scapolo) e le trovate di oggi (notevoli un Checco che prega davanti alla croce di una bandiera norvegese rovesciata dal vento, l’ironia su Mattarella, la suonata di clacson liberatoria dopo tanta compressione) alternarsi su un copione gentile (fin troppo?) che si fa leggere volentieri, ma diventa esilarante quando Zalone libera la cattiveria e fa, a tutti gli effetti, satira di gran livello. Con o senza pizzetto biondo, scambiando magari i colori dell’aurora boreale per quelli della bandiera nazionale.

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FABIO FERZETTI, IL MESSAGGERO 30/12 –
Dal paesino pugliese al Polo Nord. Dal calduccio del posto fisso al gelo del pack artico. Dall’italica autoindulgenza all’ipercorrettezza scandinava. Dagli incontri ravvicinati con i prosciutti e i sottolio conservati dai colleghi nei loro confortevoli uffici (pubblici), a quelli con le foche e gli orsi della stazione di ricerca in Norvegia, dove l’inamovibile impiegato di una Provincia pugliese, ufficio caccia & pesca, viene catapultato dalla perfida funzionaria Sonia Bergamasco (una meraviglia: sembra la Franca Valeri degli anni d’oro con una marcia sexy a sorpresa in più) per cercare di farlo dimettere come vuole la nuova direttiva...
Secondo una teoria molto diffusa nel cinema non solo americano, ogni sceneggiatura segue più o meno fedelmente lo schema del “viaggio dell’eroe”. All’inizio l’eroe vive in un mondo ordinario dominato da un equilibrio (o squilibrio) immutabile. Poi riceve la “chiamata”, un evento che lo fa uscire dal bozzolo e tentare l’avventura. Avventura che sulle prime rifiuta, per poi accettarla grazie all’incontro con un mèntore, affrontando prove (luoghi, personaggi, ambienti) sempre più difficili in nome di una Grande Ricompensa.
TEMPI DA URLO
Ma cosa succede se l’eroe/antieroe ha la faccia di gomma e i tempi da urlo di Checco Zalone, il miglior comico del cinema italiano perché quello con l’orecchio più sensibile, oltre che l’unico capace di fare un vero gioco di squadra (premio a chi trova una faccia sbagliata, anche tra le ultime comparse in fondo all’inquadratura)?
Succede che in 86 minuti secchi, misura aurea, Luca Medici/Checco Zalone e Gennaro Nunziante (che la forza continui a essere con voi) smontano e rimontano mille volte, come al pit stop, tutti i trucchi e i vizi, le bassezze e le ipocrisie, i timori e i pregiudizi, le abitudini e le omertà di cui si nutre la nostra pavida, pigra, arretrata natura italica. Fino a farci ridere a crepapelle e insieme vergognare di noi stessi come non capitava da un pezzo. Per giunta limitando al massimo quei colpi bassi e sempre troppo facili che sono le battute su emorroidi e genitali (degli orsi, in questo caso).
TRASFORMISMO
Che conceda una licenza di caccia in cambio di una quaglia («Non è corruzione né concussione, solo educazione»), o che scambi la dirigente del Ministero per la segretaria solo perché è una donna, Checco è un tale concentrato di storture nostrane da non rendersene nemmeno più conto. Salvo trasformarsi per qualche tempo, dopo aver deciso di restare in Norvegia per amore della bella scienziata Eleonora Giovanardi, in un improbabile vichingo dal pizzetto biondo (anche se è dura resistere a Al Bano e Romina durante l’inverno boreale...). Con sconcerto dei genitori in visita (Ludovica Modugno e Maurizio Micheli, un po’ sottoutilizzati), che non capiscono come più che il familismo amorale la vera “arma più forte” di quel finto immobilista sia un trasformismo alla Zelig (quello di Woody Allen). Tanto da adattarsi benissimo anche quando finisce in Calabria, da vero erede dei nostri grandi commedianti di una volta (Sordi in testa), pronti a tutto per sopravvivere.
Anche se la stagione delle vere commedie non tornerà. Forse perché la realtà è ormai così caricaturale da esigere rappresentazioni “al cubo”. Nessuno possiede più un grammo di innocenza, sono tutti troppo (cinicamente) consapevoli della propria immagine per costruire un racconto comico e realistico insieme come quelli della coppia Sordi-Sonego, vero modello di Quo Vado. Di qui il trionfo di una comicità farsesca in cui le tappe del racconto sono solo palcoscenici offerti al mattatore e i comprimari, peraltro efficacissimi (il senatore Lino Banfi, il ministro Ninni Bruschetta), sono pure maschere (i Genitori, la Fidanzata, il Collega, etc.).
Ma se lo schema del racconto non è certo una novità, la cura dell’invenzione, e dell’esecuzione, sono davvero fuori dal comune. È questo a fare la differenza (malgrado il lieve calo “buonista” in sottofinale), oltre alla bravura oggi inarrivabile di Checco Zalone. E poi, chi altro oserebbe far rimare “fuck” con ”Margherita Hack”?
Fabio Ferzetti

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GIUSEPPE DE BELLIS, IL GIORNALE 30/12 –
Ogni due anni, arriva la domanda: ma com’è Checco Zalone davvero? È il periodo che passa tra i suoi film e la domanda si ripete perché c’è una conoscenza che dura da 23 anni, dai tempi del liceo fatto insieme. Eppure la risposta non è mai la stessa. O meglio: si compone di due parti. Una è identica, ricorrente, continua: Checco è vero. Lui e Luca Medici, il suo nome depurato da quello d’arte, sono autenticamente la stessa persona. Non c’è sovrastruttura se non quella del ruolo che interpreta. Chi lo conosce se ne accorge (...)(...) nelle interviste che concede per promuovere i suoi film: se Luca non fosse Checco a Fabio Fazio avrebbe risposto esattamente come Checco ha risposto. E l’imitazione di Massimo Gramellini la farebbe uguale anche se non fosse in diretta tv. Le faceva simili quando non era una star. La parte variabile della risposta, invece, riguarda la sua capacità di stupire. Di non essere uguale a se stesso, mai. È sorprendente, è aggiornato, è completo. Nasce tutto dalla forza di non cedere al successo. Un film ogni due anni significa non sovraesporsi, significa l’attenzione di voler trovare qualcosa che lo convinca prima di lavorarci su. Checco prende forza da ciò che vede, da ciò che sente, da ciò che c’è. La parte diversa della risposta è diversa proprio perché è Checco a esserlo. Il che per paradosso lo ricollega alla parte ricorrente della risposta: è vero. È autentico. È puro. Dunque diverso. L’hanno definito anticonvenzionale e proprio perché lo è, sentendosi catalogare così si farebbe una risata. I tre successi pazzeschi al cinema, il record del film più visto della storia di questo Paese non hanno cambiato la sua natura autoironica. Vive il circo che accompagna l’uscita di Quo Vado? con il disincanto naturale dell’artista e con la sorpresa di chi non credeva che tutto ciò sarebbe stato possibile. Oggi è esaltato dal momento e preoccupato di non soddisfare le aspettative di chi vorrebbe un altro record. Unico anche in questo. Speciale. Lui pensa al prodotto: al film. Da chi è un tecnico o dal pubblico vorrebbe avere un giudizio. Ha sempre chiesto: ti è piaciuto? E lo fa con l’onestà di chi vuol essere giudicato per il contenuto prima che per il contenitore. Non c’è nessuno oggi in grado di far ridere come lui. Prende spunto dalla vita e la interpreta. L’ha detto sin dal primo film: sviluppo attorno a un argomento sensibile la sua parte grottesca. L’omosessualità, il terrorismo, la crisi. Oggi è il lavoro. C’è qualcun altro che riesce a raccontare questi temi con leggerezza? Si può far ridere con un film sul posto fisso? Lo fa Checco. Con la stessa idea di fondo di una delle battute di Cado dalle nubi: «Vi faccio ascoltare una canzone. L’ho scritta l’altro giorno, dopo aver ascoltato un pezzo di Gianni Morandi, Uno su mille ce la fa. Mi sono chiesto: ma agli altri 999 stronzi nessuno ci deve dedicare una canzone? Ce l’ha fatta Checco». Zalone s’immerge in quello che racconta. È per questo che dice che fino a dieci anni fa «il posto fisso era il suo sogno». L’ironia sul potere è direttamente proporzionale al potere stesso: Berlusconi, Vendola, la Fornero, ora Renzi. Ride di chi in quel momento comanda. La musica è l’aggiunta, probabilmente la parte senza la quale non ci potrebbe neanche essere il resto. Spesso in questi anni molte cose sono nate da una canzone. Perché Luca è un musicista, prima di ogni altra cosa. Ciò a cui non potrebbe rinunciare. Far ridere è la sua seconda arte. Ciò a cui non potremmo rinunciare noi.
Giuseppe De Bellis

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CINZIA ROMANI, IL GIORNALE 30/12 –
Alza l’asticella, Checco Zalone. Non solo perché il suo quarto film Quo vado?, diretto da Gennaro Nunziante, sbarcherà in 1.300 sale dal 1º gennaio e in certi circuiti sono esaurite le prevendite per le proiezioni di mezzanotte e mezza e delle due e mezza Capodanno con Checco, insomma, è già un successo -, ma anche perché il comico barese classe 1977 stavolta guarda alla grande commedia all’italiana dei Sessanta. Un’eco di Risi&Monicelli, dunque, ma senza cinismo e con un finale che rischia di apparire buonista. Dopo gli incassi record di Cado dalle nubi (14 milioni nel 2009), Che bella giornata (43 milioni nel 2011) e gli oltre 52 milioni di Sole a catinelle, nel 2013 il più alto incasso della storia per un film italiano, Luca Medici (vero nome dell’attore) è in ansia per il suo film più politico. Prendendo in giro gli italiani che hanno il mito del posto fisso, infatti, l’artista fotografa quel che ha intorno. E scatta clic poco teneri dalla Val di Susa a Lampedusa, dalla Calabria al Polo Nord il suo Checco, che lavora all’ufficio Caccia e Pesca della Provincia, tra caffettini e fagiolini capati in ufficio, ha un’eterna fidanzata e vive a casa dei genitori. Finché arriva la riforma della Pubblica amministrazione e l’adorato posto fisso periclita: la spietata dirigente Sironi (una brava Sonia Bergamasco che fa il verso a Franca Valeri), pur di costringerlo a mollare la scrivania, lo trasferirà ovunque, lontano da casa...Caro Checco Zalone, ha fatto un salto di qualità?«In termini di budget, sicuramente. Questo è un film complicato, con molte ricostruzioni, girato tra il Polo Nord e l’Africa. L’idea di ritrarre la Puglia con le sue masserie ci angustiava, così abbiamo cercato la Norvegia. Ci abbiamo messo passione e amore. Senza voler citare Sonego, o Monicelli, che erano di un altro livello, comunque io tendo verso quel cinema lì».Nel film, per la prima volta va all’estero, addirittura al Polo Nord...«Senza gli splendidi ragazzi della base artica del CNR, ricercatori bravissimi che lavorano per pochi euro, non avremmo potuto girare! Io, poi, sono arrivato senza parrucchiere, con un truccatore solo: una situazione disperante. Un applauso ai precari del CNR, la parte migliore dell’Italia!».È padre di Gaia, 3 anni, avuta dalla sua compagna Mariangela Eboli: com’è stato lavorare con i vari bambini che si vedono qui?«Eppure, le 3 B del cinema, cioè bambini, barche e bestie, sarebbero da evitare... Qua invece ci sono tutt’e tre! Sul set erano tutti vivaci e il bambino biondo che fa il norvegese non ha alcuna rigidità nordica. So che qualche grande regista picchiava i bambini per farli lavorare... Scherzo! Dedico questo film a mia figlia, che m’ha detto: Mi porti a vedere il film di Checco Zalone?. Non sapeva che ero io!».L’inserimento di Romina e Al Bano, nel film, rimanda all’immobilismo dell’Italia?«Ma è la sequenza che preferisco! Ho girato un anno fa e rivedere questi due che stavano insieme, ma non si toccavano, mi ha dato un po’ di sana emozione. Per gli sceneggiatori, dovevo incontrare Al Bano al bagno d’un ristorante. Poi, per problemi produttivi, non ho più fatto pipì con Al Bano».Il posto fisso non esiste più, ma resta il mito degli italiani?«È un mito che non si sradica nemmeno con le cannonate. Io non ho mai avuto il posto fisso, che quando ero ragazzino era l’obiettivo di mia madre e di tutta la famiglia. Fino a dieci anni fa, era il massimo che ti poteva accadere nella vita, almeno a Capurso, dove vivevo. Ho fatto anche il concorso da vice-ispettore di Polizia, ma fui scartato: ancora li ringrazio».Da superstar del botteghino, com’è cambiata la sua vita?«Vivere da Checco Zalone è bellissimo, lo auguro a tutti. Il problema è quando non sarà più così: mi fermano per strada, mi fanno le foto... Ora sono in ansia, perché dopo l’incasso spropositato del film precedente, fare meglio non è possibile: 8 milioni di biglietti, l’ultima volta. Ma se stavolta ne faccio anche 4, sarò soddisfatto».La Prima Repubblica non si scorda mai è una canzone del film che esalta il posto fisso: l’Italia non cambierà mai?«Faccio il comico e canto alla Celentano, che purtroppo non ho avuto ancora l’onore di conoscere, soltanto per ridere un po’. Comunque, la mia canzone è terza in classifica, dopo Stevie Wonder e Justin Bieber. Dino Risi, a ogni modo, avrebbe fatto finire il film con me che rientro in ufficio, mi prendo la quaglia che mi portano in dono e tutto prosegue come prima. Noi invece volevamo metterci un po’ di speranza. Anche a rischio di apparire buonisti».

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MARCO GIUSTI, DAGOSPIA 29/12 –
«Le piace l’Africa?». Comincia così il quarto, attesissimo film di Checco Zalone e Gennaro Nunziante, Quo Vado?, ovviamente targato Valsecchi-Medusa che uscirà il 1 gennaio in un trionfo di copie (più di 1.000). Ma non è tanto un viaggio alla Alberto Sordi-Ettore Scola alla ricerca di quel che stiamo perdendo nel nostro paese rispetto a quel che c’è nel mondo. E neanche un viaggio alla Sordi-Sonego sugli italiani alle prese con i mondi nordici più aperti e liberali (ah, le svedesi degli anni ’60!). C’è un po’ di tutti e due i generi, certo, ma è soprattutto un viaggio alla Sordi-Zampa, rimodellato ovvio sulle capacità comiche di Checco, sulla distanza che c’è oggi tra l’Italia diciamo renziana e quella della Prima Repubblica, con tanto di geniale canzoncina zaloniana cantata però alla Celentano. «La prima repubblica non si scorda mai/La prima repubblica tu cosa ne sai/ Ed i debiti pubblici si ammucchiavano come conigli Tanto poi erano cazzi dei nostri figli». Non troviamo però nel film le strofe che riguardano proprio Renzi («Ma il Presidente è toscano e l’è un gran burlone/Ha detto scherzavo Piuttosto che il senato Mi taglio un coglione»). Pazienza. Anche perchè il chiodo fisso dei nostalgici della Prima Repubblica non riguarda certo Renzi, quanto il posto fisso. Diciamo anzi che questo graziosissimo, divertente, intelligente Quo Vado" è una specie di monumento al "posto fisso".
Alla domanda «che cosa vuoi fare da grande?» un Checco bambino risponde pronto «Io voglio fare il Posto Fisso». E lo farà, visto che otterrà un posto alla Provincia, nel suo paese pugliese, alla sezione Caccia e Pesca dove per dieci anni non farà assolutamente nulla salvo timbrare permessi di caccia e pesca in cambio di quaglie, salami e altre delizie.
Ma è proprio il perfido Governo Renzi che un bel giorno deciderà di tagliare le provincie e l’unico a rischio, perché senza handicap, senza parenti malati, senza una moglie, ha solo una fidanzata brutta che non si decide mai a sposare, è proprio lui, Checco. La perfida Dottoressa Sironi (come il pittore), una favolosa Sonia Bergamasco più avvezza al teatro di Carmelo Bene e ai Bertolucci che al mondo di Zalone, gli offrirà una buonuscita di 27mila euro se lascerà il posto. Ma Checco sa, complice il grandioso onorevole pugliese ex dc Binetti, un Lino Banfi perfetto, che il Posto Fisso è la sua vita. E non firmerà.
La Sironi, cattivo braccio destro di un ministrto del lavoro, Ninni Bruschetta, ancora più perfido e renzianissimo, lo tormenterà mandandolo nei peggiori posti d’italia, in Val di Susa fra i no-tav, a Lampedusa fra gli immigrati, ma Checco non mollerà mai. Finirà per mandarlo in Norvegia, a far da guardiaspalle a una ricercatrice italiana alle prese con pericolosi orsi bianchi. E lì non solo riuscirà a ambientarsi, ma si innamorerà anche, ricambiato, della ragazza, Eleonora Giovanardi, che lo porta nella sua famiglia allargata, tre figli di tre diversi uomini.
Lei gli aprirà la mente, lo costringerà a pensare in maniera più civile e meno italiana. Diventato un talebano della civiltà nordica, Checco cederà non tanto quando arriveranno i genitori pugliesi, i fantastici Ludovica Modugno e Maurizio Micheli, o quando si scoprirà geloso, ma quando si renderà conto, vedendo in tv il Festival di Sanremo, che Al Bano e Romina hanno riformato la coppia. E lui, in Norvegia, ha perso tutto questo. Tornerà quindi in Italia e dovra’ alla fine scegliere se abbandonare o no il posto fisso tanto amato.
Tutto ciò è raccontato da Checco in Africa, al vecchio capo Dogon e alla sua tribù, che dovranno decidere che tipo di vita ha vissuto. E quindi giudicarlo. Forse non scatenato e selvaggio come i primi film di Checco e Gennaro, anche se ne ripete lo schema col viaggio al nord e la scoperta dell’amore e della civiltà, ‎Quo Vado perde un po’ colpi quando Checco, e il film, diventano un po’ troppo buoni e moralisti, ma c’è sempre una gag lì pronta a farci capire che l’obbiettivo è sempre un altro, che l’importante è raccontare l’Italia e ciò che resta degli italiani dopo la Prima Repubblica con divertimento e un’ironia sempre affettuosa.
Grazie a questo, Gennaro e Checco riescono a dirci cose serie e importanti per un film comico di impatto così popolare e che sarà così amato dai bambini. Ovvio che Luca Medici non abbandona il suo personaggio e tutta la sua buffa negativita’ meridionale, la passione per la mamma come “l’unica donna” e il sugo senza aglio, anche se le situazioni, al quarto film, iniziano a ripetersi. Non si ripetono le gag, che sono tutte nuove, e le battute (per tutte il bokking, che non vi spiego). Fa molto ridere la cattiva renziana di Sonia Bergamasco, che permette a Checco un po’ di politicamente scorretto contro le femmine.
C’è qualche lentezza nella seconda parte, qualche buonismo di troppo che magari fa sorridere dopo gli incassi degli ultimi film, ma questo Quo Vado è delizioso e attuale come ci si poteva aspettare da un comico che sa di doversi sempre inventare una trovata, un’idea, per farci divertire e pensare. E al suo quarto film Checco mantiene intatto non solo il sodalizio con Nunziante, ma è ancora fresco e credibile per un pubblico che sa di potersi fidare ciecamente di lui.

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FULVIA CAPRARA, LA STAMPA 30/12 – 
In un centinaio di sale italiane arriverà domani, a mezzanotte e mezzo e poi alle 2 del mattino. Le altre (in tutto quasi 1300) saranno occupate dal primo giorno del nuovo anno e le previsioni, come fanno intendere produttori e distributori, Pietro Valsecchi di Taodue e Giampaolo Letta di Medusa, sono decisamente rosee. Sole a catinelle aveva incassato circa 52 milioni di euro e anche stavolta, per Quo vado?, il record è nell’aria: «La comicità di Checco - dice Valsecchi - è umana, appassiona e commuove il grande pubblico. Le sue storie fanno ridere ed emzionare allo stesso tempo, il tutto con il grande pregio di non utilizzare la volgarità come espediente comico».
Dedicata a temi cruciali del nostro tempo come il lavoro e la disoccupazione, annunciata dalla ballata della Prima Repubblica, già tormentone, prima che il film arrivi nei cinema, la nuova commedia di Zalone spazia tra le nevi del nord norvegese e la terra rossa dell’Africa dove il protagonista, catturato dagli indigeni, prova a salvarsi la vita raccontando la sua avventura: «La linea di demarcazione a cui prestiamo sempre attenzione - spiega il regista Gennaro Nunziante - è quella della banalità. Spesso la comicità si appoggia al primo spunto trovato per strada. Noi, invece, non ci fermiamo, e cerchiamo di dare altro».

C’era una volta Checco, ragazzo del Sud che aveva realizzato tutti i suoi sogni. Viveva a casa con genitori sottomessi e servizievoli, era fidanzato, ma non aveva nessuna intenzione di affrontare la responsabilità di un matrimonio, aveva un lavoro, ma non doveva sforzarsi di mantenerlo perché era un posto fisso, un impiego a prova di bomba nell’ufficio provinciale di Caccia e Pesca.
Un brutto giorno la favola diventa incubo, una lettera annuncia il varo della riforma della Pubblica Amministrazione che decreta il taglio delle Province. L’allegro menage di Checco è improvvisamente in pericolo. Perseguitato dalla tagliatrice di teste Sironi (Sonia Bergamasco), deciso a seguire i consigli del Senatore Binetto (Lino Banfi), che a suo tempo lo aveva raccomandato e fatto assumere, pur di non rinunciare all’impiego accetta una serie di trasferimenti che lo portano in giro per l’Italia e per il mondo, dall’Africa al Polo Nord. Tra le mille scoperte farà anche quella, fondamentale, del vero amore.
Rispetto ai suoi film precedenti «Quo vado?» rappresenta un salto di qualità. Lo sguardo è più ampio, si respira aria di commedia all’italiana.
«Sapevamo che farlo era rischioso, ma abbiamo cercato qualcosa di nuovo, anche dal punto di vista dell’immagine. Sì, ci siamo ispirati alla commedia Anni Sessanta stile Risi, quella che ha fatto grande il nostro cinema, io da sempre penso a quei personaggi, a quegli attori, e un po’ li maledico perchè, vedendoli, mi è venuto il desiderio di provare a essere come loro».
Lei il posto fisso lo ha mai voluto?
«Certo, fino a dieci anni fa, era la mia massima aspirazione, i miei genitori mi hanno inculcato da sempre il mito del posto in banca, ho fatto pure il concorso per vice-ispettore di Polizia».
Poi è cambiato tutto, è diventato Checco Zalone. Come si vive nei suoi panni?
«È bellissimo vivere così, mi fermano per strada, mi fanno le foto, vogliono l’autografo, lo auguro a tutti, ma io penso anche a quando le cose cambieranno».
In una delle scene cruciali del film Checco si commuove guardando in tv Al Bano e Romina che tornano a esibirsi insieme. Da dove viene l’idea?
«Da una cena, realmente avvenuta, con tutti e due. Vedendoli insieme, anche se non si toccavano, ho provato un po’ di sana emozione».
La sua comicità non risparmia niente e nessuno. C’è un limite che non si sente di attraversare?
«I nostri limiti sono l’educazione e il buonsenso. La scorrettezza, ormai, ha preso il sopravvento, tanto da far quasi venire la nausea. Noi invece stiamo attenti a evitare risate provocate da offese gratuite».
Ha girato a Bergen, in Norvegia. Che cosa l’ha più colpita dell’esperienza?
«La compostezza con cui la gente, senza sapere che la ragione dell’attesa a cui erano costretti erano le riprese del film, si è messa in fila e ha aspettato un’ora che finissimo di girare. E poi l’emergenza droga e alcool, la Norvegia è ricchissima, tutti hanno tutto, ma sono molto infelici».
«Quo vado?» esce in 1300 sale. Una vera occupazione. Come si sente?
«Non ci dormo la notte, sono in grande ansia, la mia compagna non ne può più... Anche se so che, nella vita, le cose serie sono ben altre».
E poi c’è l’esperimento dell’uscita nella notte del 31, che ne dice?
«Speriamo funzioni, magari al Nord, dove non c’è, come da noi al Sud, l’obbligo del cenone».
Come vorrebbe che il film venisse accolto?
«Vorrei che la gente uscisse dalla sala contenta. Gli incassi mi interessano relativamente, tanto vanno alla produzione... Scrivendo il film pensavo che era importante dare al pubblico un senso di gioia e speranza».
Sua figlia ha visto il film?
«È l’unica che di sicuro non lo vedrà, è fan di Alvin Superstar e non gliene importa proprio niente».

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MARIAROSA MANCUSO, IL FOGLIO 30/12 –
Serviva Checco Zalone per svelare il segreto di Fabio Fazio (ditelo voi agli scrittori che cercano invano di sedersi sulla poltroncina, l’unica che fa vendere i libri, noi non abbiamo cuore). L’ospite viene invitato per far crescere l’audience: così funziona “Che tempo che fa”, e così funzionano i consimili programmi di interviste. Brevettati, per giunta, come format. Non servono per far conoscere qualcosa che il conduttore ritiene meritevole, come in «diamo una chance a questo libro o a questo film, me lo posso permettere, il mio pubblico mi segue». Servono perché l’ospite faccia alzare l’audience portando il suo, di pubblico. E se voi non l’avete, il pubblico – come del resto si conviene a uno scrittore – siete fuori dal giro.
«Quanti milioni fai d’ascolto? Quattro? E io te ne porto altri quattro», calcola Checco Zalone. Fazio non può che abbozzare. Abbozzerà per l’intero siparietto, indeciso su che faccia fare. E’ chiaro che siamo fuori target, rispetto alla classica platea di indignados e al fan club di Luciana Littizzetto, e anzi il pubblico già si sta chiedendo se non ha sbagliato canale o programma. Fino a qualche minuto prima la categoria “spettatori dei film di Checco Zalone” era il peggio del peggio, nella scala dell’accettabilità culturale. E ora eccolo lì, stessa poltroncina dove si era seduto Varoufakis.
Ha voglia il ministro Dario Franceschini a dire che la sinistra non deve aver paura di Checco Zalone. La fifa resta (e la condivide pure Franceschini, che celebrò gli incassi di Sole a catinelle – una mano santa per il cinema italiano – ma negò al comico e al suo regista Gennaro Nunziante il salotto buono dei David di Donatello: se incassa non è arte, lo sanno anche i bambini). Fabio Fazio abbozza e riabbozza, poi arriva il brivido vero. Il nostro molla la poltroncina, chiede uno sgabello e imita Massimo Gramellini, con traduzione simultanea per gli spettatori di Mediaset (“letizia” tradotto con “figa” resterà negli annali). Massimo Gramellini, ovverosia il conduttore aggiunto, o il primo tra gli ospiti, fate voi. Non Fabio Fazio il conduttore capo: e anche da quelle parti deve pur essere giunta voce che l’imitazione è l’omaggio supremo.
Prima di andare da Fabio Fazio, Luca Medici in arte Checco Zalone si aggira in un albergo all’estrema periferia milanese, del tipo che uno guarda l’edificio e pensa: bel posto per una convention di venditori di aspirapolvere. Scopriamo che l’hotel si trova vicinissimo allo studio di registrazione, sospiro di sollievo. Dichiarò una volta il produttore Pietro Valsecchi che il nostro – pur avendo raggiunto «l’acne del successo» – rimane un ragazzo semplice e non pretende l’autista. Però un motel con vista sulla tangenziale sembrava troppo anche per tanta modestia.
Parte, dal cellulare, “La prima Repubblica non si scorda mai”, ispirata da “Un albero di trenta piani” di Adriano Celentano (era il 1972, già sfornava album intitolati “I mali del secolo”, nel brano si parlava di smog come in questi giorni a Milano, forse possiamo dormire sonni tranquilli). Al Molleggiato è stata inviata per approvazione: «Gli ho scritto una mail, ancora non mi ha risposto», racconta Zalone, «ma forse Celentano neanche le sa aprire, le mail».
O forse è troppo occupato a sistemare il mondo, che in 40 anni non sembra essere peggiorato granché, per godersi il paradiso pensionistico-sociale inchiodato da Zalone alle proprie responsabilità: «I quarantenni pensionati danzavano, i sordomuti cantavano», in un mondo meraviglioso con «i cosmetici mutuabili, le verande condonabili, i castelli a equo canone», e invece del precariato «il concorso per allievo maresciallo, seimila posti a Mazara Del Vallo». Coretti e recitativo, perfetti. 50 secondi della canzone saranno in Quo vado?, uscita il primo gennaio: «Bastano, di più ammazzano il film», garantisce Zalone (e peggio per noi che volevamo imparare a memoria tutte le parole).
«Celentano è il mio mito, da quando avevo sette anni. Stavo ore allo specchio cercando di imitarlo e non ci sono ancora riuscito del tutto, qualcosa mi sfugge. Mi piace anche quando spara cazzate, se ami qualcuno gli perdoni anche i difetti. Mi hanno detto che abita in una villa superprotetta, solo pochi eletti sono invitati a casa sua». (La presente, si intuisce, vale anche come domanda per coronare un sogno infantile).
«Mi è venuta l’idea durante una cena, c’era Stefano Bollani di cui sono fan accanito, avevo solo il ritornello e gliel’ho fatto sentire. Tutta ancora no, temo il suo giudizio molto più di quello di Celentano».
“Quo vado?” – il punto di domanda c’è – segna la fine dei titoli da previsioni del tempo: “Cado dalle nubi”, “Che bella giornata”, appunto “Sole a catinelle”. «Restavano la nebbia e la giornata uggiosa, bisognava cambiare. Un titolo corto, anche se già il gommista sotto casa mi ha chiesto “Che vuol dire?”, quindi mi sono un po’ agitato… però suona bene».
Per la prima volta un film fuori dall’Italia? «Esperienza bellissima, il solo fatto di non vedere la solita masseria pugliese di tutte le commedie mi rincuora. Per gli americani l’Italia è il rustico in Toscana, per gli italiani la masseria nel Salento».
(Si avvicina intanto un cameriere, e spiega che lui la musica – uno di quei motivetti da hall alberghiera che urtano i nervi e rendono inascoltabile la registrazione – non la può abbassare. Bisogna andare in un altro locale e questo lo può fare solo il suo collega che tra poco arriverà: la Prima Repubblica non si scorda mai, e forse non è neppure finita del tutto, finirà prima l’intervista).
Su al nord, a Bergen, Norvegia. «Uno dice il luogo comune, era peggio. Non un clacson in un mese e mezzo, non una macchina sopra i sessanta all’ora, le facce non erano malinconiche, proprio tristi. Abbiamo girato una scena rubata, senza avvisare, ero fermo al semaforo, si è formata la coda fino a Oslo, non si è sentito un clacson in 4 ore. Bestemmiavano i tecnici, ai 90 euro per pizza e birra, abbiamo rischiato la sommossa».
Dal venditore di aspirapolvere all’impiegato con il posto fisso: «Sì, è un prequel. La massima ambizione per i miei era il posto sicuro, una passione più forte dell’amore. Il protagonista un po’ mi spaventa, rimane arido per quasi tutto il film, al settantesimo minuto arriva il colpo di scena… un gesto che non si aspetta nessuno, e sono sicuro che a non tutti piacerà» (mentre cerchiamo di evitare lo spoiler, Zalone tra i cattivi che storceranno il naso piazza con sicurezza il Foglio e il Fatto quotidiano).
Insiste: «Un gesto di grande umanità, addirittura qualcuno si è commosso… mi spaventa tantissimo, ma secondo me fa incassare tanto».
Gli incassi, appunto, vale ancora la condanna «Se facciamo trenta milioni parleranno di insuccesso?». «Vale, stavolta sarà un insuccesso se ne facciamo cinquanta» (“Sole a catinelle” ne ha incassati quasi 52). «Non sono preoccupato per il film, che ormai è finito, e se piace piace e se è una cagata, vabbè, è una cagata». L’ansia è da promozione: «Ma come, non ti fai vedere mai, e ora che esce il tuo film vai dappertutto? Se io fossi il pubblico mi terrei sul cazzo».
Fa eccezione Maria De Filippi, da cui è andato fuori promozione, con un magnifico Jep Gambardella: «Le dovevo un favore, dovevo andare a Italia’s Got Talent ma quel giorno non me la sentivo, quindi l’ho chiamata. Silenzio all’altra parte, poi “quando ti passa la depressione vieni” (imita la voce). E poi mi ha pagato, pure bene».
La signorilità non è da tutti, Zalone ricorda certi conduttori – non ne faremo il nome, e garantiamo che non si tratta di Fabio Fazio – come un incubo: «Ci siamo visti prima della trasmissione, per la scaletta, ha parlato solo di sé e di quel che ha fatto e delle sue trasmissioni».
Tra un film e l’altro? «È la cosa più bella di chi fa questo mestiere con successo, l’ozio proprio… per un anno e mezzo, stai a casa, ti fai crescere la barba, neanche in palestra sono riuscito ad andare».
C’è una figlia da far giocare: «La bambina comincia a capire, la prima volta era stranita guardando la mia immagine in tv, adesso non gliene frega un cazzo».
La celebrità ha i suoi svantaggi: «Doveva essere il video più importante della mia vita, mia figlia appena nata, ma non ce l’ho. Avevo dato il telefonino all’infermiera, per farmi riprendere quando la lavavo… ha ripreso solo le mie lacrime e mai la bambina» (e mentre racconta, un’altra lacrima sta per scendere dagli occhi del raggiante papà).
Poi però il momento di lavorare con Gennaro Nunziante, co-sceneggiatore e regista, arriva: «Io e Gennaro ce ne andiamo da Bari, checché lui ne dica dobbiamo stare lontani dalle famiglie. Quindici giorni di depressione in cui ci siamo guardati in faccia, senza nessuna idea. Poi abbiamo visto in televisione un ricercatore che sparava agli orsi – non è uno scherzo, è un centro di ricerca internazionale al Polo nord, gli orsi sono più degli scienziati – e abbiamo immaginato un impiegato in mobilità a cui tocca l’incombenza. Prima di arrivare lì lo mandano – mi mandano, nel film lavoro all’ufficio Caccia e Pesca, esiste davvero, ora si arrabbieranno – in Val di Susa a consegnare i decreti di esproprio. Poi a Lampedusa, poi a Nuoro dove mi fanno il mobbing. Per uno così l’idea di essere pagato per non fare niente è un premio, quindi chiamo il sindacalista e dico che mi stanno facendo questo trattamento di favore… una cosa bellissima».
Tutto scritto o si improvvisa? «Quando si va sul set il trenta per cento cambia. Improvvisi la battuta – e sono quelle che fanno più ridere – ma devi avere una struttura solida, capire da dove parti e dove vuoi arrivare. Qui avevamo l’idea di uno disposto a passare sul cadavere della madre pur di non mollare il posto fisso. Qualcuno ci leggerà una satira sull’incapacità di cambiare… qualche mio amico intellettuale (che ha smesso dopo questa affermazione di essere mio amico) ha parlato di Gattopardo… gli ho detto di stare zitto altrimenti lo denuncio, con ’sta roba non si incassa».
I critici che diranno? «I critici mi auguro per loro che qualcuno li legga. Non per demoralizzarvi, ma la rete confonde tutto, intelligenti e cretini, per il pubblico non c’è differenza».
La correttezza politica ostacola il lavoro, come lamentano i comici americani? «La risposta sta nella risata, se fa ridere non urta le coscienze. Però la rete ha alzato l’asticella, la scorrettezza ormai diventa di maniera e perde forza».
Modelli? «Ho visto Louis C. K., è bravissimo e fa cose devastanti con una nonchalance che in Italia non sarebbe possibile. E Sacha Baron Cohen – l’ultimo film, Il dittatore, era film meno ardito, ma bellissimo – la mia preferita è quando scopre la masturbazione… una scena straordinaria».
Sesso nel suo film? «Niente, siamo già circondati. Però c’è Eleonora Giovanardi, bellissima, e Sonia Bergamasco, bravissima a fare la stronza odiosa – la spietata dottoressa Sironi, che arriva con un assegno di Tfr sempre più alto. Per due minuti ho voluto Lino Banfi, altro mio idolo che fa da angelo custode a Checco. L’allenatore nel pallone ha formato le menti migliori di questo paese…».
Squillo di cellulare. «Scusa, c’è il produttore Valsecchi, devo rispondere». E infatti risponde, con cazzeggio: «Sto facendo un’intervista, vuoi rispondere tu? Anzi no, ti faccio una domanda io: “Cosa ti aspetti da questo film? Perché per te non è importante guadagnare ma tieni di più ai contenuti? Ti rendi conto che un film deve anche incassare…”».
E avanti con la perfetta imitazione del produttore che strapazza il regista colpevole di non pensare abbastanza al pubblico. Un attimo dopo torna Checco Zalone, spiega perché di Quo vado? non ha voluto fare i trailer: «Finisce che uno ci mette le battute migliori, e poi quando lo spettatore le risente al cinema sono già consumate».
Sempre così affiatati? «Ma no, litighiamo tantissimo, dicendo cose terribili come “non ti voglio vedere mai più”… tu lavori, lui arriva, e ti distrugge tutto con una pausa, neanche con una parola». Sempre al cellulare, Checco Zalone aveva chiesto – con riferimento a Prima famiglia, il romanzo che Pietro Valsecchi ha appena pubblicato da Mondadori, e in stile Fabio Fazio: «Ma tu, il tuo libro, l’hai mai letto?».
Chiamandoci fuori – nei rapporti tra attori e produttori meglio non mettere il dito – registriamo una modesta proposta: «Valsecchi ha una casa così grande che è difficile parlarsi, dovrebbe mettere Skype per far chiacchierare gli ospiti a cena».

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ARIANNA FINOS, LA REPUBBLICA 30/12 – 
Vita da Zalone: «Quando mi dicono “chissà che inferno il successo” rispondo “essere Checco è bellissimo”. Ma poi penso a quando non sarà più così. Sono in ansia perché Sole a catinelle ha fatto incassi spropositati: otto milioni di biglietti. Anche se stavolta ne facciamo quattro va bene. Intanto la canzone La prima repubblica è terza nei passaggi radiofonici, dopo Steve Wonder e Justin Bieber. Un saluto a Wonder: Steve, ti sono dietro». Luca Medici in arte Checco Zalone consegna Quo vado? (regia di Gennaro Nunziante) in 1.300 sale venerdì primo gennaio.
“Quo vado?” ha avuto due anni di gestazione. Qual è stato lo spunto di partenza?
«Il servizio di un tg su un ricercatore del Cnr che al Polo nord si allena a sparare: in Norvegia, dove abbiamo girato, c’è una base italiana, i ricercatori devono difendersi dagli orsi che sono cento volte più degli uomini. Ho immaginato di avere questa funzione: proteggere i ricercatori dagli attacchi degli orsi. Da lì è nata la storia».
E l’idea della difesa del posto fisso?
«Mia madre mi diceva “fatti un posto fisso”, quindi ce l’avevo dentro questo mito e se ne parlava, era l’era del Jobs act in fase di produzione. Dall’attualità ci è venuto in mente di scrivere la storia su uno che il posto non lo vuole abbandonare per nulla al mondo».
All’inizio il protagonista sembra perdere il posto fisso, ma poi tutto resta come prima.
«C’è una parte amara, satirica, anche se la satira non è il mio mestiere. Però c’è anche un finale riconciliatorio».
Ha sempre detto che Renzi non le piace.
«Fisicamente non è bello. Ma, sarà che ci si abitua, non ho più quel senso di irritazione che provavo quando lo vedevo. Anzi, a volte mi fermo a sentire ciò che dice e lo trovo interessante. Non significa buttarsi dove va il vento, è come quando esce una macchina nuova: la prima volta che la vedi ha una forma strana poi, col tempo, ti abitui».
Il personaggio compie un viaggio di crescita grazie al posto fisso. A lei è successo con il cinema.
«Sì, ma vediamo come andrà il film, se piacerà o meno. Ma mi sento più a mio agio sul set. Quando ho iniziato chiamavo la macchina da presa telecamera suscitando le ire della troupe».
“Quo vado?” parla di riscaldamento globale e villaggi africani senza vaccini.
«Sì e non è facile, si rischia l’accusa di buonismo o qualunquismo. Quei temi sono talmente grandi che non li puoi sviscerare in un film. Ma ho cercato di fare qualcosa che abbia aderenza con la realtà senza essere pretestuoso».
La accusano di buonismo.
«Ero io il primo a dirlo mentre lo scrivevamo. Ma c’è tanto bisogno di bontà, mica è una cosa brutta. Finire col cinismo in tempi di cinismo mi sembrava ridondante. Invece in molti si sono commossi. Non mi va di essere ipocrita ma non sopporto l’idea che uno esca dal cinema con un finale amaro».
Da dove esce il titolo?
«La verità è che non ci veniva. I titoli devono essere brevi, efficaci. Ho fatto le prove con mia figlia di due anni: non capiva il senso ma si è messa a ripetere Quo vado? Quo Vado?, ho capito che funzionava».
Il suo percorso cinematografico in quattro film.
«Spesso mi chiedono se non abbia paura di restare imprigionato nel personaggio. Accadeva anche a grandissimi come Alberto Sordi e Totò. Le mie sono storie diverse, Cado dalle nubi è quello a cui sono più legato e lo è anche il pubblico, c’erano temi non consumati dal cinema, c’era la Lega prima che morisse, ora non avrebbe senso. E l’omosessualità: la canzone Uomini sessuali è la cosa più bella che abbia fatto. Poi Che bella giornata, la storia d’amore con una terrorista islamica: abbiamo precorso i tempi».
Lo rifarebbe?
«No, oggi avrei paura».
“Sole a catinelle”?
«Lì raccontavamo un berlusconiano senza giudicarlo. Perciò c’è chi dice che la mia non è satira: “tu vuoi bene al personaggio, fai in modo che la gente gli voglia bene”. Anche stavolta, sul posto fisso, non giudichiamo. C’è chi storce il naso ma è ciò che ci proponiamo io e Nunziante: non siamo mai migliori di chi vogliamo raccontare».
Arianna Finos, la Repubblica 30/12/2015