Nicola Piovani, la Repubblica 18/11/2015, 18 novembre 2015
ODE ALLA MUSICA QUELL’ARTE FRAGILE COSÌ ODIATA DA TUTTI I FANATICI
La domanda è ricorrente, me la fanno spesso: «La musica può fare qualcosa contro la barbarie? contro la guerra? Per la pace?» e rispondere è sempre più difficile. Ancor di più in questi giorni, particolarmente bui per noi occidentali. Perché, si ha un bel dire, ma quando la sciagura colpisce i nostri vicini di casa siamo empaticamente più scossi e coinvolti, rispetto a sciagure che avvengono in latitudini e culture lontane. Questa asimmetria però merita riflessioni complesse e competenti, più che un semplice giudizio morale.
Parliamo di musica, che in questi giorni è entrata nella quotidianità del teatro di guerra, delle strade parigine, delle manifestazioni di solidarietà. Viviamo una civiltà in cui la semplificazione è uno dei primi nostri nemici (dopo il fondamentalismo fanatico). Ma se si suona La vie en rose fra ambulanze e lutti non ci deve sembrare un gesto semplificatorio, perché il linguaggio della musica non ha obblighi di razionalità, è il linguaggio che più si presta a ritualizzare un sentimento corale — è un termine musicale — un sentire tanto indefinibile quanto preciso nella sua emotività. Ho pianto nel vedere i ragazzi che uscendo dallo stadio intonavano la Marsigliese, con la sua musica eroica e dignitosa, e il perché non me lo spiego, ma lo so. E anche quando Marek Halter insieme all’iman Chagoulmi ha cantato «Allons enfant de la patrie...» per un attimo mi sembrava che scomparisse la complessità del conflitto fra mondo arabo e cultura ebraica. Una canzone magica come Imagine di John Lennon assume per tutti la funzione di una preghiera laica, profondamente condivisa. Anche se suonata dilettantescamente da un pianoforte in strada, somigliava allo Shemà Israel, la “preghiera dimenticata” intonata nel Sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg. A cosa serve questo cantare il dolore, il lutto? A cosa “serva” non lo so, non so neanche se la guerra si allontani con i canti e le marce della pace. Certo però, se vedessi i ragazzi sfilare intonando canti di guerra, marcando il passo, mi preoccuperei ancor di più, la paura aumenterebbe. E penso che, in un momento così terribile, se i passanti parigini si radunano a crocchio intorno a un accordeonista che in strada suona Je ne regrette rien, i loro animi in quel momento saranno meno disponibili ad azioni belliche e “spietate” — per usare un aggettivo malauguratamente sfuggito al presidente Hollande. Intonare un coro musicale in un corteo, stringendo la mano di un estraneo che sfila con noi, certo non ci illumina sul traffico abusivo di petrolio — che pare che sia una delle cause forti di tanta sciagura — ma può rafforzarci in quel sentire collettivo che ci fa uscire dal perimetro di interessi individuali, e questo può essere una premessa per meglio combattere i mercanti di guerra, il “male”.
La band che suonava al teatro Bataclan la infausta sera del 13 novembre si chiama Eagles of Death Metal. Porta nel proprio nome la parola che alla lettera significa morte — con intenzioni sicuramente nobili, come la band che si chiama Necrophagia. Il singolo degli Eagles è fatalmente finito in testa alle classifiche — il mercato musicale funziona così, lo sappiamo da un po’ e non ci scandalizziamo più. Ma tante altre e belle sono state le risonanze nel mondo della musica, e non a caso. Lo ripeto, in certi momenti le parole giuste sono difficili da trovare, e questo è tempo in cui il tacere ci fa riflettere meglio. Ma invece cantare, fare musica, ci può aiutare a tenere accese certe fiammelle dell’animo, quelle che non dovrebbero spegnersi mai.
E poi, la musica è odiata dai fondamentalisti islamici. Tutta la musica, da Bach ai Beatles, strumento di perversione, strumento di libertà. E già questo mi pare un bastante motivo per uscire di casa a cantare, suonare, ascoltare musica, qualunque musica, da Bizet a Brel, dal Gregoriano all’hard rock, da Monteverdi a Daniele Silvestri.
Nicola Piovani, la Repubblica 18/11/2015