Danny Rubinstein, Limes: Israele e il libro 10/2015, 17 novembre 2015
DOPO IL SIONISMO APARTHEID O STATO BINAZIONALE?
1. Agli inizi di aprile 2015, il pubblicista B. Michael – uno dei più affermati e capaci giornalisti satirici israeliani – ha pubblicato un articolo sul quotidiano Ha’aretz in cui criticava, per non dire metteva in ridicolo, la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato d’Israele. Si tratta del documento letto da David Ben-Gurion – il primo capo di governo dello Stato d’Israele – venerdì 14 maggio 1948 in una riunione convocata a Tel Aviv per la «Dichiarazione della fondazione dello Stato di Israele» (che è poi il nome ufficiale dato successivamente al documento). La cerimonia venne fissata per lo stesso giorno in cui giungeva ufficialmente al termine il mandato britannico in «Palestina Terra d’Israele», il nome dato al paese dai governanti britannici trent’anni prima, alla fine della prima guerra mondiale.
Nel primo paragrafo della Dichiarazione di Indipendenza viene detto: «Nella Terra d’Israele è sorto il popolo ebraico». «È una sciocchezza», ha scritto B. Michael, «perfino secondo la Bibbia il Popolo d’Israele non si è formato in Terra d’Israele bensì in Egitto». E il giornalista continua spiegando che dopo che il progenitore della nazione, Abramo, giunse nel paese dalla Mesopotamia (l’odierno Iraq), risiedette nel paese per un certo periodo, alternando permanenze in Egitto, in periodi di carestie. Fu là – sempre secondo il racconto biblico – che dopo quattro generazioni si spostò il clan che aveva come progenitore Abramo, e sempre là nei successivi quattrocento anni venne a formarsi quel gruppo chiamato «i figli d’Israele» che si consolidò definitivamente come popolo sotto la guida di Mosè nei quarant’anni passati nel deserto.
Nel proseguimento della Dichiarazione viene sancito che nella Terra d’Israele «si formò il carattere spirituale, religioso e politico del popolo». Anche su questo Michael ha da ridire nel suo articolo: la Bibbia – egli sostiene – venne in realtà data nel deserto del Sinai, che è territorio egiziano e certo non parte della Terra d’Israele; il carattere spirituale del popolo ebraico venne poi forgiato in Babilonia, in Spagna, in Egitto e in Europa; e se proprio vogliamo parlare del carattere politico del popolo, quello non è ancora chiaro neanche oggi.
L’articolo continua sullo stesso tono, confutando passo dopo passo tutto ciò che viene detto sul legame fra il popolo d’Israele e la Terra d’Israele nella Dichiarazione di Indipendenza. «Nella Terra di Israele il Popolo d’Israele ha creato un retaggio culturale nazionale e universale», vi si dice. Non è vero, dice l’articolo! Solo la Mishnah è stata creata nel paese, e tutto il resto – il Talmud (babilonese) e il patrimonio poetico, la letteratura, la teologia, la filosofia, l’etica e i valori artistici – sono tutti prodotti della diaspora. E come se tutto ciò non fosse sufficiente, nella Dichiarazione è anche scritto che gli ebrei hanno dato al mondo «l’eterno Libro dei Libri»; su questo scrive Michael che la diffusione mondiale della Bibbia, «il Libro dei Libri», è avvenuta per merito del cristianesimo dopo che la Bibbia venne tradotta in greco (Septuaginta – traduzione dei Settanta) e in latino (Vulgata).
2. L’articolo di Ha’aretz è stato seguito da una lunga serie di reazioni per lo più critiche e in alcuni casi infuriate. Il legame fra il popolo d’Israele e la Terra d’Israele si è stabilito sulla base di una storia di circa mille anni in cui i «figli d’Israele» dominarono, totalmente o parzialmente, il territorio. Questa storia viene considerata la colonna portante su cui poggia la legittimità del movimento nazionale ebraico – il sionismo. Qualsiasi obiezione viene considerata alla pari di un’eresia.
Il dominio indipendente delle tribù d’Israele sul territorio ebbe una durata di quattrocento anni (dal periodo del Primo Tempio di Gerusalemme agli inizi del I secolo a.C., fino alla sua distruzione da parte dei babilonesi e al conseguente esilio avvenuto nel 586 a.C.) e avvenne quasi del tutto sotto una dinastia unica: la Casa di David. Successivamente, il potere ebraico sul territorio fu per lo più nell’ambito di un’autonomia la cui entità e natura dipendevano di volta in volta dai rapporti e dalla benevolenza delle potenze che dominavano la regione – Persia, Grecia e Roma. Ciò ebbe fine nel 70 d.C. quando i romani, guidati da Tito, distrussero il Secondo Tempio e dettero il via alla dispersione degli ebrei nel mondo. In ognuno dei giorni della diaspora ebraica che seguì, il rimpianto per «la Terra di Sion, Gerusalemme» (secondo quanto ricordato anche nell’inno nazionale dello Stato – la Hatikvah) fu un elemento primario nelle preghiere e nell’identità ebraica.
Nella storia di circa centotrent’anni del sionismo è noto solo un caso di spicco, agli inizi del XX secolo, in cui i leader sionisti persero la speranza di riportare gli ebrei ad abitare nella Terra d’Israele. Fu nel 1903, pochi anni dopo che il fondatore del sionismo – il giornalista austro-ungherese Theodor Herzl – ebbe convocato il Primo congresso sionistico. Herzl rimase scioccato dai pogrom compiuti contro gli ebrei in Europa dell’Est e cercò di trovare un territorio che servisse da «rifugio per la notte» – vale a dire un luogo in cui insediarsi temporaneamente, poiché il piano di portare gli ebrei in Terra d’Israele aveva incontrato delle difficoltà presso coloro che avevano il dominio del paese – gli ottomani. Per poter portare in salvo gli ebrei dell’Europa dell’Est, Herzl propose, con l’incoraggiamento di diplomatici britannici, di insediare gli ebrei nell’Africa orientale controllata da Londra. L’idea è nota come Progetto Uganda e sebbene incontrasse una fortissima opposizione, fu votata a grande maggioranza nel Sesto congresso sionistico (agosto 1906). Ma anche se dopo una breve verifica decadde e fu abbandonato, il piano lasciò una dolorosa cicatrice nella storia del sionismo. Possibile che Herzl e i capi del sionismo fossero veramente d’accordo nel fondare uno Stato ebraico in un luogo diverso dalla Terra della Bibbia, la Terra dei Padri?
Ai tempi dei pogrom che avvennero alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, vi furono diversi tentativi di trovare un territorio per gli ebrei, per esempio nell’America del Nord o in Argentina. Fallirono tutti.
D’altronde, in tempi moderni molti ebrei famosi si sono espressi negativamente nei confronti della Terra della Bibbia. Tanto per fare un esempio, il padre della psicanalisi – Sigmund Freud – ricevette dallo scrittore suo amico Arnold Zweig, che era fuggito dalla Germania nazista in Terra di Israele, una lettera piena di lamentele sul paese. Zweig, che abitava a Haifa, scrisse al suo amico che gli ebrei orientali (si riferiva a quelli che provenivano dall’Europa dell’Est) sono volgari, chiassosi, maleducati e non gli consentono di fare il suo regolare riposo quotidiano. Freud gli rispose di non essere affatto sorpreso. Questa terra – dice nella sua risposta – la Palestina, non ha mai prodotto niente di buono. Tutti i paesi intorno hanno lasciato all’umanità importanti retaggi culturali: i fenici in Libano hanno prodotto l’alfabeto; i faraoni egizi costruzioni sofisticate come le piramidi; la cultura greca ha lasciato ai posteri la filosofia, l’architettura, il teatro e tanto altro; e quale è stato il contributo della Palestina? Nulla, eccetto le fedi religiose: ebraismo, cristianesimo e islam. Freud continua esponendo sinteticamente il suo parere negativo nei confronti della religione che è, a suo parere, un fenomeno arcaico, irrazionale e illusorio – una fantasia dalla quale il genere umano deve assolutamente distaccarsi per poter raggiungere la propria maturità.
3. Freud non fu solo. Molti altri attivisti e pensatori ebrei moderni espressero le loro riserve e le loro critiche verso la Terra Santa. Costoro sostenevano che gli ebrei dovessero integrarsi nelle società moderne dei paesi in cui vivevano – sia che si trattasse di regimi che credevano in un futuro socialista, Stati nazionali occidentali basati sulla netta separazione fra Stato e religione, o paesi di immigrazione, primi fra tutti gli Stati Uniti.
Ma l’opposizione più decisa e interessante all’emigrazione in Terra d’Israele e in generale al sionismo veniva proprio da gruppi ebraici ultraortodossi, o come vengono chiamati oggi «haredim» («timorati»). Un’opposizione che si basava sul tradizionale precetto che va sotto il nome di «tre giuramenti» che sono di fatto tre divieti: è vietato agli ebrei organizzare un ritorno alla Terra d’Israele forzando il corso degli eventi; è vietato agli ebrei ribellarsi al potere costituito (straniero) che domina la Terra; è vietato agli ebrei fare un qualsiasi atto che forzi la venuta del Messia.
Gli storici ritengono che questi «giuramenti» abbiano origine dalla rivolta di Shimon Bar Kochba, che si ribellò nel I secolo all’imperatore romano Adriano (132-136). Inizialmente venne considerato l’annunciatore della Salvezza, ma poi il fallimento della sua ribellione portò a una reazione estrema da parte dei romani, i quali proprio per punire esemplarmente la rivolta causarono al paese una terribile devastazione. Per evitare che ribellioni del genere si ripetessero e provocassero ulteriori distruzioni alla popolazione e al paese, i maestri stabilirono questi tre «giuramenti»: non ci si doveva ribellare o provare ad accelerare l’arrivo della Salvezza; si doveva aspettare con pazienza. Fino a quando? Fin quando non sarebbe giunto il Messia. Prenderà tempo, ma arriverà, e porterà con sé la Salvezza completa – del popolo e della Terra.
Tutto questo era alla base della forte opposizione all’idea del sionismo da parte dei rabbini ortodossi nei maggiori centri ebraici dell’Europa dell’Est. Poiché, contro il loro parere, il sionismo voleva portare «un popolo senza terra in una Terra senza popolo. Uno slogan – coniato agli inizi del movimento – che non prendeva in considerazione la presenza di alcune centinaia di migliaia di arabi (quasi mezzo milione) che risiedevano nel territorio agli inizi del XX secolo e che erano parte inscindibile delle comunità arabe che vivevano nell’impero ottomano. Solo una piccola frangia di «religiosi nazionalisti» fece propria l’idea sionista. La grande maggioranza dell’ortodossia si oppose.
4. Tuttavia, nonostante tutti gli oppositori, l’impresa sionista riportò una grandissima vittoria. Facendo perno sulla tradizione e sulla profonda fede che il pubblico ebraico nutriva nei confronti del saldo legame con la Terra dei Padri, sorse in Palestina – alla fine del mandato britannico – lo Stato degli ebrei, che contava nel 1948, alla sua fondazione, 600 mila abitanti, per crescere progressivamente fino a divenire oggi uno Stato fiorente con una popolazione che supera gli 8 milioni di abitanti (il 20% dei quali circa è arabo).
Dietro ai successi del sionismo vi sono diversi fattori e circostanze storiche e politiche. Ma una specifica costante rimane valida per ogni approccio alla questione: questa è la Terra del Libro dei Libri, della Bibbia, la Terra dei Padri a cui si sono rivolti gli ebrei ogni volta che pregavano, per duemila anni. E uno Stato ebraico può esistere solo su questa Terra.
A tale proposito, mi ricordo in particolare di un episodio avvenuto più di ventanni fa. Fu nel corso di una visita al palazzo del potente patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, che è proprietario in Terra Santa di numerosissimi terreni. Il suo nome era Diodoro ed erano i giorni della firma degli accordi di Oslo tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il presidente palestinese Yasser Arafat. Rabin era attaccato da molti esponenti della destra nazionalista in Israele e all’estero. Era accusato di aver rinunciato o di aver venduto a stranieri (palestinesi) il sacro territorio della Terra dei Padri. Yitzhak Rabin si difese dicendo: il sionismo non è un’agenzia che gestisce terreni immobiliari (nell’intervista, che si svolgeva in inglese, Rabin usò il termine «real estate»). Il patriarca si rivolse a me e mi disse: «Dì al tuo primo ministro che non capisce niente di cosa succede qui. Guarda, il mio patriarcato esiste da 1.500 anni perché abbiamo sempre saputo che i terreni sono la cosa fondamentale. Solo terreni. Chi ha il controllo del territorio ha la forza di sopravvivere». E continuò spiegandomi che cosa sono, secondo lui, il sionismo e lo Stato d’Israele: «Sono la religione ebraica più il territorio», disse Diodoro. Religione più territorio: c’è forse una definizione più semplice di questa per definire sionismo e Israele?
5. Il territorio di quella che era la Palestina, la Terra d’Israele, ha completamente cambiato aspetto negli ultimi decenni. Innanzi tutto dal punto di vista demografico. Ricerche storiche hanno stimato che nei periodi di massima fioritura – ai tempi del Secondo Tempio e successivamente nel periodo bizantino – vi abitava circa un milione di persone. Oggi vivono sullo stesso territorio (lo Stato d’Israele più la Cisgiordania e la Striscia di Gaza) oltre 12 milioni di persone – di cui il 55% ebrei e il 45% arabi palestinesi. Una terra piccola e affollata. Solo alcune sue parti – il Negev e il Deserto di Giudea – mantengono una popolazione più limitata.
Numerosissimi sono stati i progetti che hanno reso Israele un paese sviluppato: strade, ferrovie, porti e aeroporti, una vasta industria basata su alte tecnologie (high-tech) con una salda reputazione in tutto il mondo. Una fascia costiera particolarmente affollata, dove moltissime torri di vetro nascondono il panorama.
La costruzione di impianti di desalinizzazione dell’acqua sulla costa mediterranea ha risolto in gran parte il problema della siccità che aveva afflitto per migliaia di anni tutti gli abitanti del paese. Già all’inizio della Bibbia (nel capitolo 12 della Genesi) si racconta della siccità e della pesante carestia nel paese che costrinsero il patriarca Abramo a recarsi in Egitto. E ricorrono storie di liti e conflitti per il controllo di pozzi e di cisterne.
Il fatto nuovo è la recente scoperta di importanti giacimenti di gas in prossimità delle coste di Israele, che ha risolto anche il problema della fornitura di energia a una popolazione in continua crescita.
Il rapido sviluppo ha cambiato totalmente l’aspetto del paese, al punto che è difficile trovarvi tracce che dimostrano che questa è la Terra della Bibbia. Per costruire quartieri residenziali e torri per l’industria, i bulldozer hanno spianato montagne e hanno trasformato valli in montagne. Zone desolate hanno oggi reti di autostrade con ponti e tunnel: quasi impossibile identificare in esse gli antichi siti del passato.
Nel 1975 accompagnai come giornalista Henry Kissinger – allora segretario di Stato americano – mentre si recava da Gerico in Giordania, ad Amman, per incontrare il re Hussein di Giordania. Viaggiava in macchina e quando arrivò al ponte Allenby fece fermare l’auto e guardò quello che le mappe indicavano essere il fiume Giordano. Solo che lì non c’èra veramente un fiume, ma una pozza di acqua scura da cui oltretutto veniva un tremendo odore di liquame. Aziende agricole israeliane e giordane avevano pompato tutte le acque del fiume che un tempo scorreva impetuosamente dal Lago di Tiberiade a nord fino al Mar Morto a sud. Del fiume Giordano – probabilmente uno dei fiumi più famosi al mondo, dove milioni di pellegrini agognano di bagnarsi – non era rimasto quasi nulla. Kissinger, sconcertato, guardò per un po’ l’acqua stagnante e poi disse: «E questo sarebbe il Giordano?». Poi aggiunse con un sorriso: «Incredibile quello che buone pubbliche relazioni (disse «good P.R.» in inglese) sono riuscite a fare di questa pozzanghera».
6. I grandi cambiamenti avvenuti nel rapporto tra gli ebrei e la Terra Santa non sono solo materiali, ma soprattutto morali, mentali e anche ideologici. Il sionismo ufficiale continua con passione a mantenere forti legami fra il popolo della Bibbia e il paese della Bibbia, ma la realtà sta creando negli ultimi anni un divario crescente tra i due. La ragione principale è il processo di globalizzazione. La sviluppata economia israeliana è dipendente dalle esportazioni. Molte migliaia di businessmen dell’economia e dell’industria israeliana devono mantenere, ai fini della loro attività, un collegamento diretto e permanente con i mercati di Europa, America e Asia. Il trasporto aereo è comodo e veloce. Molte aziende israeliane hanno grandi investimenti all’estero, e nello stesso tempo aziende internazionali acquistano sempre più beni immobili in Israele. Anche molti accademici israeliani vanno a lavorare nei più grandi istituti di istruzione superiore del mondo, e così artisti e artigiani. Non pochi si spostano all’estero, per lo più negli Stati finiti. Alcuni temporaneamente, molti in modo permanente.
Se una volta la vita nel paese e il cambiamento del cognome di origine in uno ebraico o biblico costituivano un’inconfutabile prova di patriottismo israeliano, negli ultimi anni le cose sono completamente cambiate. Perfino il primo ministro di Israele, Binyamin Netanyahu, il paladino del patriottismo ebraico israeliano, quando studiava negli Stati Uniti, a Boston, compariva non con il suo nome israeliano, ma con uno che aveva un suono americano – Ben Nitay. È stato prima che entrasse in politica. Successivamente ha spiegato che per gli americani il suo nome israeliano era difficile da pronunciare. Con la costituzione dello Stato di Israele, David Ben-Gurion e Moshé Sharett (che era ministro degli Esteri) ordinarono che i dipendenti statali cambiassero i propri nomi «stranieri» in nomi ebraici. Ben-Gurion disse una volta che il cambiamento del suo nome originario Green nell’ebraico Ben-Gurion rappresentò per lui un atto di rinascita nella Terra dei Padri. Il fenomeno della scelta di un nuovo nome, comunissimo in passato, è andato da allora scemando.
Un altro fatto che può essere interpretato come segnale di alienazione nei confronti di Israele quale Terra della Bibbia è la lunga lista di decine di migliaia di israeliani che hanno chiesto e ottenuto negli ultimi anni una cittadinanza straniera. Israele consente la doppia cittadinanza, ma negli anni passati gli israeliani provavano imbarazzo a chiedere un’altra nazionalità, poiché era come esprimere sfiducia verso Israele e verso il futuro dello Stato. Diversi paesi europei concedono oggi generosamente passaporti a ebrei che hanno origini europee. Nessuno oggi in Israele si vergogna per questo. Al contrario; chi lo ottiene si vanta ed è felice di avere un passaporto estero che offre l’opportunità di studiare e lavorare nei paesi dell’Ue. Decine di migliaia di israeliani sono in possesso di passaporti di paesi come la Romania, la Polonia e perfino dell’Austria e della Germania.
Migliaia di giovani israeliani, dopo il servizio militare, si avventurano in viaggi che li portano in tutto il mondo. Molti desiderano provare a imparare come si vive in altri paesi. «Parto per Londra», canta la cantante israeliana Chava Alberstein e spiega: «Londra non mi sta aspettando, ma là lo sconforto è più comodo». Sconforto per che cosa?
7. Un fenomeno di cui recentemente ci si occupa molto in Israele è il crescente numero di giovani israeliani che si trasferiscono a vivere a Berlino. La spiegazione comunemente accettata è l’alto costo della vita e delle abitazioni in Israele (questi giovani vengono associati alla «protesta del Milky», da quando un giornalista israeliano ha fotografato la ricevuta di quanto aveva pagato in un supermercato di Berlino per acquistare il popolare budino che porta questo nome commerciale, mostrando che il suo costo in Israele è quasi quattro volte superiore).
Ma con ogni probabilità l’espressione massima del cambiamento della percezione israeliana riguardo alla patria, alla terra della Bibbia, è la proposta di recente presentata proprio dai partiti nazionalisti di destra israeliani, in cui si chiede di concedere il diritto di voto per le elezioni alla Knesset – il parlamento israeliano – alle centinaia di migliaia di israeliani che si sono trasferiti a vivere o a lavorare all’estero. Emigrare e vivere all’estero era considerato una volta un atto di tradimento. Chi lo faceva veniva chiamato con l’espressione negativa «yored», letteralmente «che scende» (l’opposto di chi immigra in Israele, che merita il nome di «‘olé» – «che sale»). Il primo ministro Yitzhak Rabin, li definì una volta «un’accozzaglia di smidollati». Erano considerati dei disgraziati, da tenere lontani perché suscitavano un senso di repulsione. Oggi, invece, vengono chiamati con il neutralissimo «israeliani residenti all’estero» e i capi dei partiti nazionalisti di destra cercano di far loro ottenere il diritto di voto per il parlamento israeliano. Perché lo fanno? Perché tutti sanno che la maggior parte degli emigrati israeliani simpatizza per la destra. È un fenomeno noto e comune che nelle comunità di emigrati vi siano tendenze al patriottismo e al nazionalismo più forti che nei paesi di origine.
In questo contesto è opportuno stabilire che una componente importante dell’allentamento del legame che molti israeliani hanno con la propria terra, con la Terrasanta, è la mancanza di un orizzonte geopolitico. Non si vede alcuna possibilità di arrivare a un accordo con i palestinesi per porre fine al conflitto nazionale e geopolitico che dura da quasi cent’anni. Nelle linee guida del quarto governo Netanyahu, che ha prestato giuramento a metà maggio, non viene neppure menzionato lo slogan da sempre ripetuto per cui «il governo israeliano si impegnerà nel perseguire un accordo di pace con i palestinesi». La stragrande maggioranza degli israeliani non crede che un tale accordo sia possibile. Su questo sfondo, è abbastanza evidente che lo status quo nel paese continuerà. Con esso stanno aumentando e ampliandosi gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est – e ciò non fa che allontanare sempre di più la possibilità di un accordo.
Quello che sta accadendo davanti agli occhi dei circoli della sinistra liberale è il processo di uno Stato ebraico che si sta lentamente trasformando in uno Stato di apartheid in cui a milioni di palestinesi vengono tolti o negati diritti civili fondamentali. È questa la sensazione che provano soprattutto persone che fanno parte delle élite: economisti, liberi professionisti, accademici, scrittori e artisti, giudici della Corte Suprema. In qualche misura questo vale anche per i media. Difficile stimare le dimensioni di questo segmento della pubblica opinione. Si tratta probabilmente di qualcosa intorno al 20% degli ebrei israeliani, per lo più concentrali a Tel Aviv e nella sua periferia, motivo per il quale viene talvolta attribuito loro l’appellativo di «bolla di Tel Aviv».
Il distacco di questi cittadini da Israele deriva dal fatto che la destra nazionalista e religiosa ha acquisito il monopolio dell’amore per il paese e del sionismo. Chi prova repulsione per il patriottismo della destra nazionalista in Israele smetterà facilmente di mettere l’accento sul legame fra Israele e la patria storica.
L’avversione per la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid odiato nel mondo porta un piccolo numero di israeliani a pensare che se un accordo in cui vi siano due Stati non è più rilevante, sarebbe forse il caso di iniziare a pensare a un unico Stato in cui vi sia piena uguaglianza per tutti i cittadini, ebrei e arabi. Per il momento, il numero di persone che sono disposte a rinunciare all’esclusività del diritto di proprietà ebraica sulla Terra della Bibbia e che sono pronte a condividere questa proprietà anche con chi ha una fede diversa, è molto ristretto.
Ma anche se sono molto pochi, la loro presenza è importante.
(traduzione di Cesare Pavoncello)