Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 16 Lunedì calendario

EUROPA E CINA, PAURA DEL CRAC SISTEMICO PER LE BANCHE UN PIANO “TOO BIG TO FAIL”

Un’altra vite si sta stringendo sull’armatura con cui da anni i regolatori cercano di imbullonare il mostro finanziario e farlo rientrare nella lampada. Il nome dato alla vite è Tlac, un nuovo cuscinetto di capitale e crediti da approntare nel medio termine (tre-sei anni, fino a 12 per le banche cinesi) per riportare in capo ai loro stakeholder, e non più alla fiscalità generale, i costi delle crisi bancarie che negli anni passati hanno drenato una parte considerevole del prodotto lordo mondiale (vedi tabelle). Si tratta, per le 30 maggiori istituzioni finanziarie, di accumulare entro il 2019 munizioni pari a una quantità minima tra il 16% degli attivi ponderati per il rischio (che salirà al 18% dal 2022) e un 6,75% delle attività totali. Detto che il secondo indicatore è un non evento, perché quasi tutti i grandi gruppi sono già capienti, il costo della nuova misura può spingersi fino a 1.100 miliardi di euro in future emissioni, per circa metà circoscritte alle banche cinesi, le più acerbe nel percorso di ammodernamento finanziario che in un decennio ha raddoppiato le richieste patrimoniali per gli istituti. Incrociando le stime dei regolatori e degli operatori, si capisce che otre 500 miliardi di titoli bancari anti-crac dovrebbero essere emessi in Cina, quasi 300 miliardi in Europa – se si comprende un centinaio delle banche britanniche coinvolte e una cinquantina delle svizzere – , meno di 100 negli Stati Uniti. M a le eccezioni nazionali, come quelle già adottate in Germania e in Italia (dove l’unica banca ufficialmente sistemica è Unicredit) minimizzeranno l’impatto. Nella pratica - e lo comprova la soffice reazione del mercato ai numeri - volumi e oneri saranno molto inferiori, perché mai come con la finanza ogni legge trova il suo legittimo inganno: e alcuni “comprensivi” recepimenti locali della regola, già adottati in Germania e in Italia, minimizzeranno l’impatto, anche se è difficile capire di quanto perché la materia è complessa e cangiante. Potranno aiutare la Bce e la Bank of England, finora silenti ma attese a chiarire alcuni passaggi tecnici. Rendere “ordinato” il fallimento di una grande banca è come prevedere cosa ci sarà dopo la sua morte, e una grande sfida agli dei della globalità. Basterebbe riandare al settembre 2008, dopo la fine di Lehman: ma anziché scatoloni, panico borsistico, chiusura dell’interbancario, default a catena e spread in apertura, immaginarsi invece un meccanismo composto di procedure, automatismi, tutto un «prego dopo di lei» dei creditori in fila. Probabilmente è un’utopia. Ma è un’utopia necessaria, della quale i regolatori internazionali hanno pensato di avere bisogno per scrivere il loro mai più all’evento che ha originato la peggiore crisi mondiale dal 1929. Un po’ come l’Europa nata a tavolino dopo le follie politiche nazifasciste. Proprio come la costruzione dell’Europa, anche quella del Vigilante globale chiamato a proteggerci dalla Grande finanza procede tentoni, nel tira e molla che dietro le quinte consuma i funzionari di mezzo mondo, cervelli intenti a imbrigliare l’ipercomplessità finanziaria ma che rispondono ai politici nazionali, spesso ispirati dalle lobby locali. Ogni singolo dossier segnala la tensione che emana dal processo di controllo e di condivisione dei rischi finanziari, senza cui, si è capito da Lehman in poi, non ha senso parlare di stabilità finanziaria nei singoli paesi. E il Vecchio continente è il teatro in cui il conflitto più rimorde: dal bail in al fondo unico di garanzia sui depositi, dal limite al possesso di titoli sovrani studiato dalla vigilanza bancaria unica alla bad bank italiana, fino al mercato dei capitali unico (la Cmu), che com’è stato detto giovedì presentando il “Rapporto 2015 sulla stabilità finanziaria”, redatto da Banca d’Italia e dal centro Baffi Carefin dell’università Bocconi, è l’unico approdo possibile della fattiva condivisione dei rischi finanziari. Anche l’accordo per ampliare il patrimonio delle 30 istituzioni sistemiche, per quanto abbia scala mondiale, ricade nella casistica. «Nessuna banca sarà troppo grande per fallire: questo concetto appartiene al passato», ha detto Elke Konig, capo del Comitato unico di risoluzione (Srb) che da gennaio gestirà le crisi bancarie in Europa. Affermazione un tanto apodittica, dato che la bozza prodotta dal Financial stability board (altra creatura generata nel 2009 nel solco del mai più) e approvata dal G20 turco è frutto di due anni di compromessi, veti e negozi ai due lati dell’Atlantico. Con i regolatori statunitensi e canadesi nella parte dei falchi (ruolo che si comprende meglio guardando la distribuzione geografica degli oneri futuri). Il balletto degli interessi non può stupire. Né giunge nuovo, per chi ricorda che l’accordo di Basilea nacque, 25 anni fa, per la volontà occidentale di rallentare l’avanzata dei conglomerati finanziari giapponesi, allora dominanti e da allora entrati nel cono d’ombra della deflazione. Oggi dietro la lavagna degli anglosassoni sembrano gli istituti cinesi e quelli dell’Europa continentale. I primi perché operano in un mercato meno formato, e anche perciò incapace di assorbire le emissioni cui saranno chiamate: ma si intuisce che in qualche modo il governo di Pechino pagherà volentieri questo pedaggio d’ingresso nel gotha finanziario. Per i secondi, i problemi maggiori riguarderebbero i colossi francesi, benché anche Santander, Deutsche Bank e Unicredit siano tra chi dovrebbe emettere nuovi strumenti di capitale “Tlac compatibile” a doppia cifra (in miliardi di euro). Ma anche in questo caso, alla misura seguono contromisure: i governi di Berlino e di Roma hanno recepito la direttiva Brrd – quella sul bail in, vigente da gennaio e che dell’impianto sistemico condivide l’impronta e gli obiettivi – in modo da attenuare, se non azzerare, l’impatto sui loro campioni nazionali. Gli addetti ai lavori scommettono che il solco sarà seguito presto da Francia e Spagna, che entro fine anno devono inscrivere nei loro codici la direttiva Ue che spalma su azionisti, obbligazionisti e depositanti sopra i 100mila euro il costo iniziale dei salvataggi bancari. Poiché tra i fini della risoluzione bancaria c’è la salvaguardia in continuità delle funzioni operative di un istituto in crisi (non dimentichiamo che Lehman Brothers chiuse bottega in un fine settimana), i regolatori dell’Fsb di Basilea non hanno contemplato nel Tlac quelle passività – tra cui il debito senior – che hanno la stessa gerarchia di rimborso dei derivati e della carta commerciale, ovvero i due strumenti operativi con cui il rischio creditizio viene trasferito sul mercato interbancario. Ma i parlamenti tedesco e italiano (dietro suggerimento delle lobby e delle vigilanze locali) si sono concessi una deroga, nel recepire la direttiva Brrd subordinando il debito di primo rango – quali appunto i bond senior – ai depositi e ad altre passività, così da poterli comprendere nel Tlac. Le banche italiane di simili obbligazioni sono ricche: un fardello da oltre mezzo miliardo di euro, che da gennaio diventerà aggredibile in caso di dissesto. Il ragionamento vale anche per Unicredit, che per fonti di mercato avrebbe un deficit di Tlac oscillante tra 5 e 10 miliardi, secondo i titoli compresi: ma lo colmerà agevolmente grazie al modo in cui l’Italia ha recepito la Brrd. «Se passa il decreto sul bail in com’è congegnato (e così è stato, nel consiglio dei ministri di venerdì, ndr) il piano Unicredit al 2018 rispetta già i parametri Tlac, quindi l’impatto per noi sarà zero». Un aggravio di costo, ma lieve, ci potrebbe essere comunque: si dice, dietro le quinte, che il gruppo italio-tedesco potrebbe ampliare la sua dotazione di bond Tier 2 aumentandone la quota sugli attivi ponderati per il rischio, così da proteggere un po’ la sua platea di bond senior. Solo che i Tier 2 Unicredit costano cari: circa 350 punti base più dei corrispondenti titoli governativi. Tutta manna per gli investitori qualificati, che assistono con passione all’ampliamento delle forbici di rischio-rendimento del debito bancario mondiale. Un meccanismo un po’ strabico, per molta parte indotto dai regolatori. «Da qualche anno la qualità e la quantità del capitale delle banche continuano ad aumentare – dice Sebastiano Pirro, partner di Algebris, fondo che tra i primi ha investito nei titoli ibridi di capitale – e i loro bond diventano sempre più sicuri: ma il loro rendimento non riflette queste tendenze, perché non appena si comprime ci sono le nuove emissioni a spingerlo». Anche se i compratori di titoli ibridi, “Coco” e Tier 2 sono ormai per il 90% i fondi comuni e le gestioni, la dinamica tra domanda e offerta rimane favorevole ai compratori. Negli ultimi cinque anni solo di strumenti convertibili in equity le banche hanno emesso 100 miliardi di euro, e altrettanti ne emetteranno entro il 2019, per essere in regola con Basilea 3 (ovviamente gli ibridi At1 rientrano a maggior ragione nel Tlac). Gli operatori ritengono che a tutta questa carta andrà sommata presto la nuova carta necessaria a sostituire progressivamente il debito senior con debito Tlac. E che al di là dei cavilli normativi, potrebbe eccedere i 200 miliardi, per un maggior costo pretasse in cedole di quasi 5 miliardi.
Andrea Greco, Affari&Finanza – la Repubblica 16/11/2015