varie, 15 novembre 2015
L’attentato del 13/11 a Parigi
STEFANO MONTEFIORI, CORRIERE DELLA SERA 15/11 –
L’attentato senza precedenti del 13 novembre ha fatto secondo l’ultimo bilancio provvisorio 129 morti e 352 feriti, dei quali 99 tuttora gravissimi, colpiti da 7 jihadisti kamikaze — tutti con lo stesso gilet esplosivo — divisi in tre squadre entrate in azione in sei punti della capitale. La ricostruzione che segue si basa sulle testimonianze e sul resoconto dettagliato offerto da François Molins, procuratore di Parigi, schivo magistrato dal volto ormai, suo malgrado, tristemente famigliare: tocca ogni volta a lui ripercorrere nelle conferenze stampa i drammi più atroci subiti poche ore prima dai francesi. Dalle stragi di Mohammed Merah a Charlie Hebdo, al massacro di venerdì sera.
Ore 21:20, Stade de France
Il terrore comincia allo stadio della nazionale appena fuori Parigi, a Saint-Denis, dove alle 21 è cominciata la partita amichevole Francia-Germania. In tribuna c’è il presidente della Repubblica, François Hollande. Alle 21:20 il pubblico e anche i giocatori in campo sentono una esplosione molto forte, ma tanti pensano che si tratti di un petardo. Non lo è. Il primo dei sette terroristi si è appena fatto esplodere davanti alla porta D dello stadio, con un gilet «composto di TATP (l’esplosivo), pile collegate a un detonatore a bottone, e bulloni, per aggravare ancora di più gli effetti dello scoppio», spiega Molins. Accanto al corpo smembrato del terrorista viene trovato il cadavere di un passante. Sarà l’unica vittima allo stadio. Secondo una testimonianza raccolta dal Wall Street Journal , il kamikaze aveva un biglietto e ha cercato di entrare allo stadio per farsi esplodere in mezzo alla folla, cosa che avrebbe provocato probabilmente una calca di spettatori terrorizzati e destinati alla morte. Ma gli agenti di sicurezza si sono accorti che l’uomo portava un gilet esplosivo e sono riusciti ad allontanarlo prima che si facesse esplodere.
Ore 21:25, Le Petit Cambodge
Siamo al Canal Saint-Martin, la zona dei ristoranti e dei locali frequentati dai ragazzi e dalle giovani famiglie, il cuore della Parigi «bobo» che sta per bourgeois bohème , benestante, progressista e alternativa insieme. Un’auto nera Seat Leon si ferma all’angolo tra rue Bichat e rue Alibert. Scende un uomo che spara raffiche di kalashnikov sui clienti del caffé Carillon seduti ai tavolini all’aperto, e poi su quelli del ristorante asiatico Le Petit Cambodge sull’altro lato della strada. È la prima carneficina: 15 morti, 10 feriti in condizioni disperate. Ieri il sangue era ancora per terra, mischiato ai vetri in frantumi.
Ore 21:30, Stade de France
Una seconda esplosione scuote lo stadio, stavolta davanti alla porta H. Un altro terrorista si è appena fatto esplodere senza riuscire a fare vittime, anche lui porta lo stesso gilet esplosivo. Hollande viene portato via dai servizi di sicurezza, ma si decide di non dire niente ai giocatori e di procedere con la partita per non scatenare il panico tra gli 80 mila spettatori. In campo tra i Bleus c’è anche Lass Diarra, che gioca mentre poco lontano, nel cuore di Parigi, sua cugina Asta Diakite viene uccisa nel corso degli altri attacchi terroristici.
Ore 21:32, pizzeria Casa Nostra
Sempre nella zona del Canal Saint-Martin, in rue de la Fontaine au Roi, arriva un’altra Seat nera dalla quale scendono due persone armate. «Avevano abiti costosi ed erano rasati, non avevano l’aspetto dei terroristi islamici con le barbe — racconta un testimone —. Sembravano piuttosto degli spacciatori. Hanno sparato a bruciapelo a una coppia seduta in auto, ho visto la testa della donna colpita e sfigurata». Cinque morti e 8 feriti gravissimi tra i clienti del café Bonne Bière e quelli del ristorante italiano Casa Nostra lì accanto.
Ore 21:36, rue de Charonne
È una delle strade più frequentate dell’XI arrondissement, piena di locali. Una terza Seat di colore nero arriva davanti al café La Belle Équipe. Scende un uomo con il kalashnikov, che come i suoi compagni terroristi spara raffiche sui clienti. Diciannove morti, 9 feriti gravemente.
Ore 21:43, Comptoir Voltaire
Il terrorista si siede a un tavolo all’aperto. Arriva Catherine, la cameriera. Invece di ordinare, il jihadista si fa saltare in aria premendo il pulsante del gilet esplosivo. Catherine viene travolta, ferita gravemente all’addome e al petto, ma non è più in pericolo di vita.
Ore 21:49, Bataclan
In una delle sale da concerto rock più note e amate di Parigi, stanno suonando i californiani Eagles of Death Metal. Fuori, in boulevard Voltaire, arrivano due auto: l’ennesima Seat nera, la quarta, e una Polo nera con la targa belga. Scendono tre uomini che fanno fuoco sugli uomini della sicurezza all’ingresso ed entrano nella sala. Sparano ancora sul pubblico che è di spalle, rivolto verso la band che suona. La gente si spinge in avanti terrorizzata, calpesta i cadaveri e si ammassa vicino al palco. Comincia la presa degli ostaggi. «I tre terroristi evocano la Siria, l’Iraq e il presidente francese Hollande», dice il procuratore Molins, parlano di vendetta per i raid aerei francesi in Siria. Gli spettatori sono a terra, chi si alza per scappare viene ucciso. Poi i terroristi cominciano un massacro lento, uno a uno. Finalmente arrivano le teste di cuoio francesi, che riescono a colpire solo un terrorista, gli altri due si fanno esplodere. È l’orrore più atroce, ci vorranno ore per portare via gli oltre 80 cadaveri.
Ore 21:53, il McDonald’s dello stadio
Il settimo kamikaze si fa esplodere, senza provocare vittime. A tarda sera l’unico jihadista identificato è un francese 30enne nato a Courcouronnes, nella periferia parigina, «condannato otto volte tra il 2004 e il 2010 e mai incarcerato, schedato dai servizi come pericoloso per la sicurezza dello Stato». Come Mohammed Merah, come i fratelli Kouachi di Charlie Hebdo, non è bastato per fermarlo.
Stefano Montefiori
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MICHELE FARINA, CORRIERE DELLA SERA 15/11 –
Nelle case. Per strada. In teatro. Francesi e no. Vivi (e infermieri) per caso. Ecco alcune testimonianze, riportate sui media. La Parigi degli sfiorati. Magari salvati due volte, come Massimiliano Natalucci, di Senigallia, che 30 anni fa scampò alla strage dell’Heysel e venerdì è scampato al Bataclan con escoriazioni a una gamba, mentre l’amica Laura Apolloni dovrà essere operata per una scheggia alla spalla.
Ouidad Bakkali , assessore alla Cultura di Ravenna: «Al ristorante Le Petit Cambodge non c’era posto. Siamo andati di fronte, al Carillon, a bere qualcosa. Sentendo gli spari ci siamo buttati a terra. Le pallottole si conficcavano nei muri».
La signora Antonella : «Vado a Parigi a riprendere mia figlia». La mamma di una studentessa diciassettenne del liceo Virgilio di roma ieri era a Fiumicino, in partenza per una destinazione poco gettonate in queste ore. La ragazza è nella capitale francese per uno scambio didattico: «Venerdì sera era con un’amica in un ristorante vicino al Petit Cambodge, dove sono morte decine di persone. Ha visto passare i terroristi. E’ rimasta nascosta sotto il bancone del bar fino alle 2 di notte».
Julien Pearce , radio reporter: «Ero in alto, dalla parte del palco. Ho visto due tizi entrare nel teatro. Molto calmi, molto determinati. Hanno cominciato a sparare sulla gente. Erano vestiti di nero, a capo scoperto. Uno con la faccia da ragazzo. Sembravano tipi normali, con la differenza che rispetto a noi spettatori loro imbracciavano i kalashnikov. Lui e l’altro stavano sul fondo e sparavano. Non si muovevano. Ci sparavano addosso come a caccia, come fossimo uccelli. Dieci minuti così. Dieci spaventosi minuti: tutti sul pavimento cercando di coprirci la testa. La gente gridava. I due hanno ricaricato l’arma tre o quattro volte. In una di queste pause sono riuscito a fuggire e a nascondermi».
Un ragazzo uscito dal teatro: «Ero sdraiato, la ragazza di fianco a me era morta. Uno degli assalitori gridava: “Tutta colpa del vostro presidente”».
Isabella , 51 anni, architetto: «Stavamo chiacchierando in cucina. Abbiamo sentito i botti. Questi non sono petardi, ha detto un amico. Dalla finestra ho visto un tizio vestito di nero che sparava col kalashnikov. Ho chiamato mio figlio al telefono, era in piazza della Repubblica, gli ho detto di mettersi al riparo. Chiusa la finestra, spenta la luce. In strada un uomo si teneva il fianco. Siamo scesi giù, l’abbiamo tirato dentro. Ferito in più punti, perdeva sangue. Sono risalita. Al telefono un pompiere mi ha spiegato come fare con l’emorragia premendo sulle ferite. Fuori si sentivano raffiche. È arrivato un poliziotto, hanno portato via il ragazzo. Verso il Bataclan ho visto un pompiere con un bimbo ferito in braccio: si era tolto il casco per non fargli paura. È suonato il cellulare lasciato dal ragazzo ferito. Era sua madre. È all’ospedale, non sappiamo in quali condizioni».
Yvan : «Claire festeggiava il compleanno della migliore amica al concerto. Il suo telefono non risponde. Dovevamo fidanzarci tra tre settimane. Non so se la rivedrò».
Il gestore , Comptoir Voltaire, vicino a place de la Nation: «Il kamikaze si è seduto. Ha ordinato. E subito dopo si è fatto esplodere. La cameriera, Catherine, è stata ferita al torace e all’addome. Non dovrebbe essere in pericolo. Con lei una quindicina di clienti sono rimasti feriti. È morto solo l’attentatore».
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GIUSI FASANO, CORRIERE DELLA SERA 15/1 –
Un finto profugo e un francese schedato dai servizi segreti con la lettera S, cioè minaccia per la sicurezza nazionale. Sono due dei terroristi delle stragi francesi di venerdì sera. Uno di loro è arrivato, appunto, con un barcone carico di disperati fino a un’isola greca. Si è nascosto fra la folla dei rifugiati veri e ha raccontato chissà quale storia di persecuzione per riuscire a essere registrato come profugo. Succedeva il 3 ottobre scorso. L’altro ieri questo rifugiato venuto dalla Siria si è fatto esplodere davanti allo Stade de France, a Parigi, assieme ad altri due kamikaze del suo stesso commando.
La pista siriana porta il suo nome (non diffuso) e, più esattamente, è legata all’identità di un passaporto che gli uomini delle forze speciali francesi gli hanno trovato in tasca, anche se la certezza che quel documento appartenga proprio al corpo dilaniato che lo portava addosso ancora non c’è. E’ sicuro invece quello che dice il viceministro greco Nikos Toskas: che sia il kamikaze dello stadio oppure no «il titolare del passaporto è stato registrato da noi in base alle regole dell’Unione Europea».
La pista siriana, quindi. Ma anche — o forse si dovrebbe dire soprattutto — quella belga. Perché fra venerdì sera e oggi gli inquirenti sono riusciti a ricostruire passaggi, incrociare dati, trovare riscontri, recuperare indizi importanti che vanno dritti verso Bruxelles. L’auto grigia parcheggiata davanti al teatro Bataclan, tanto per cominciare. Una Polo affittata e immatricolata in Belgio a partire dalla quale sono state eseguite perquisizioni ed arresti, come ha confermato lo stesso ministro della giustizia belga Koen Geens.
Gli arrestati (alcune fonti parlano di cinque, altre di tre persone fra le quali un francese con residenza belga) sarebbero legati proprio all’auto noleggiata e immatricolata in Belgio. Che non sarebbe l’unica. Perché un testimone chiave di uno degli attentati parigini ha raccontato agli inquirenti di aver visto scendere tre dei terroristi da una Seat di cui ha annotato parte della targa. L’auto, sembra anche questa di provenienza belga, è stata abbandonata, segno che alcuni degli attentatori sono riusciti a fuggire. Un dettaglio sospetto sull’asse Belgio-Francia è poi il fatto che uno dei fermati di Molenbeek ieri sera fosse a Parigi.
Tutto questo apre la strada all’ipotesi che almeno una parte degli attentatori di venerdì sera venisse direttamente dal Belgio. Secondo il quotidiano online Dh tre di loro vivevano a Molenbeek, quartiere poverissimo di Bruxelles ad alta densità di immigrati e profughi. Ma gli investigatori non vogliono confermare alcun dettaglio, nemmeno dopo l’annuncio del procuratore belga che in serata ha fatto sapere di aver aperto un fascicolo e di aver arrestato almeno tre persone proprio a Molenbeek in una operazione legata all’auto parcheggiata davanti al Bataclan. Più smentite che conferme anche per un’altra notizia circolata con insistenza nel pomeriggio, e cioè la presenza di una donna nell’att acco del teatro.
Con il passare delle ore è sempre più chiaro il disegno dei terroristi. Quelli che hanno agito allo stadio, per esempio: volevano la strage dai grandi numeri. Erano imbottiti di esplosivo e almeno uno di loro aveva in tasca un biglietto per la partita Francia-Germania. Se fossero entrati e fossero arrivati tutti e tre sugli spalti, fra la folla, la Francia avrebbe contato molte più vittime e allo Stadio non ci sarebbe stato soltanto un morto (a parte gli attentatori). È stato Zouheir, uno degli addetti ai controlli, a insospettirsi e a capire che l’uomo davanti a lui stava per farsi saltare in aria, come ha raccontato lui stesso al Wall Street Journal . Ha dato l’allarme e il terrorista, scappando, si è fatto esplodere. Subito dopo gli altri due scoppi.
Ieri, in una riunione operativa in procura, gli inquirenti hanno provato una prima ricostruzione della dinamica. La distanza dei luoghi l’uno dall’altro, il coordinamento dei tempi e le modalità di esecuzione fanno ipotizzare un unico disegno di attacco ma messo a punto con tre commando separati fra loro e organizzati con una tecnica militare che puntava a una sola cosa: seminare più terrore possibile. Il procuratore in serata ha parlato di sette e non otto terroristi (come dice la rivendicazione del Califfato) e ha dato indicazioni soltanto su un identificato: un trentenne francese «noto ai servizi di sicurezza» e condannato otto volte per reati minori ma dal 2010 schedato (come altri attentatori in questi ultimi anni a Parigi) negli elenchi degli 007 per la sua adesione all’Islam radicale. Ieri sera suo padre e suo fratello sono stati arrestati.
La presenza, inedita in Europa, delle cinture esplosive costringe a prendere in considerazione l’idea che gli artificieri — uomini preziosi per i gruppi terroristici perché sono in pochi a saper confezionare le fasce dei kamikaze — non siano fra gli attentatori morti. Un motivo in più per credere che gli attacchi alla Francia non siano finiti venerdì sera. Gli uomini dell’antiterrorismo stanno rivedendo anche il più piccolo particolare delle indagini sulle stragi recenti di matrice islamica, a partire dai legami dei fratelli Kouachi e del killer dell’Hiper Cacher Ahmedi Koulibaly con jihadisti — guarda caso — ancora una volta belgi. L’inchiesta ha scoperto, per esempio, che con tutta probabilità venivano dal Belgio le armi usate per gli attentati di Charlie Hebdo e del supermercato kosher di Parigi. Davanti alla pista che adesso lega le stragi di venerdì a Bruxelles è difficile pensare che si trattasse di semplici coincidenze.
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GUIDO OLIMPIO, CORRIERE DELLA SERA 15/1 –
La rivendicazione dell’Isis è un report sull’assalto di Parigi, presentato come «l’inizio della tempesta». Una conferma di come altri episodi violenti seguiranno in una campagna senza confini. Un pezzo di prova che è sotto esame per stabilirne l’autenticità mentre la Casa Bianca pare non avere dubbi sulla responsabilità del Califfo.
Il primo punto del comunicato sottolinea la sorpresa contro la «fortezza nemica». Termini che rispondono al linguaggio propagandistico dello Stato Islamico, ma anche di al Qaeda. Il gruppo di guerriglieri mandato nel campo avversario, l’esaltazione del gesto e l’indicazione di un modello da emulare.
Il secondo elemento punta sul commando di killer. E c’è subito una stranezza. Per la procura sono sette i cadaveri dei terroristi. Nel documento Isis si parla invece di otto, dotati di fucili d’assalto e cinture da kamikaze. Come mai la differenza? Uno è riuscito a scappare? Gli islamisti raccontano che i loro compagni hanno prima consumato tutti i loro proiettili, quindi hanno innescato gli ordigni. Li hanno messi a punto usando esplosivo TATP, noto come la «madre di Satana», impiegato in molti attacchi e arma gradita ai terroristi in quanto si realizza con materiale reperibile sul mercato civile.
Gli attentatori di Londra (2005) lo hanno lavorato nella vasca da bagno trasformata in laboratorio. La polizia ne ha rinvenuto molto nel covo smantellato a Verviers, in Belgio, a gennaio. E proprio i belgi hanno eseguito dei fermi di persone sospettate di legami con l’eccidio parigino. Poi i target. I criminali cercano giustificazioni. I ragazzi al teatro Bataclan, i clienti di bar e ristoranti sono descritti come peccatori da abbattere. Parigi definita il luogo della «perversione» e capitale crociata. Il presidente Hollande insultato: «l’imbecille». Sono assassini, però non vogliono passare come tali. Era così anche all’epoca di Bin Laden, amano presentarsi come «purificatori» della società di «idolatri». Un particolare da chiarire. L’Isis nel testo elenca gli Arrondissement coinvolti: il decimo, l’undicesimo e il diciottesimo. Ma in quest’ultimo, che ospita anche un luogo simbolo come Montmartre, non è avvenuto nulla. Uno sbaglio? O doveva essere inserito nella lista dei bersagli come lo stadio? Nel prendere di mira un grande evento sportivo c’è una continuità con il passato. Nel 1998 la polizia sventò un piano di militanti del Gia algerino che volevano colpire una partita dei mondiali in Francia ed una serie di obiettivi con un’azione multipla. Di nuovo: c’erano rapporti con elementi in Belgio.
Il messaggio Isis si chiude con il riferimento alla guerra contro il Califfato in Siria e in Iraq. I terroristi mentre sparavano hanno citato il conflitto come causa. Da tempo una colonia jihadista francese si è insediata a Raqqa, è sospettata da mesi di preparare attacchi, è ritenuta in rapporti con gli autori della strage di Charlie Hebdo e per questo Parigi ha mandato i caccia a bombardarla. Attivisti dalla cittadina siriana hanno raccontato che alcuni mujaheddin sarebbero partiti di recente per una missione in Francia. Toccherà alla polizia scoprire se sono diventati dei killer. I servizi britannici ne paiono convinti, la cellula — fanno sapere — era formata da veterani della Siria.
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VALENTINA SANTARPIA, CORRIERE.IT 15/11 –
Si fa la conta dei morti, dei dispersi. Ma, man mano che passano le ore dopo gli attentati, iniziano a delinearsi anche gli identikit dei kamikaze che hanno terrorizzato la Francia venerdì sera: tra loro c’è un 29enne francese di origini algerine, l’unico identificato. I terroristi che hanno compiuto gli attacchi a Parigi hanno operato in modo coordinato divisi in tre gruppi, ha spiegato il procuratore di Parigi, François Molins. Le auto utilizzate negli attacchi sono state due: una Seat nera e una Polo nera, quest’ultima utilizzata dai terroristi per arrivare al Bataclan. Ed è intorno a questa Polo che ruota l’indagine aperta in Belgio, dove sono state arrestate diverse persone: alcune fonti parlano di tre, altre di cinque, di cui almeno tre a Molenbeek, quartiere poverissimo di Bruxelles e ad alta densità di immigrati. E’ stata ritrovata invece domenica mattina a Montreuil la seconda auto abbandonata dai terroristi, una Seat Leon nera. Il ritrovamento della seconda auto «rafforza l’ipotesi» che uno o più membri del gruppo di fuoco si siano dati alla fuga dopo la strage. La Seat nera, a differenza della Polo nera usata dai 3 terroristi che hanno massacrato 89 persone al Bataclan per poi farsi saltare in aria, sarebbe stata usata da un terzo gruppo di fuoco. Questi, armati di kalashnikov, hanno aperto il fuoco alle 21,30 contro il café Bonne Biere a Rue Fontaine e solo pochi minuti dopo a Rue de Charonne contro il Belle Equipe, per poi darsi alla fuga lasciandosi alle spalle 39 morti.
I terroristi del Bataclan
Al Bataclan hanno agito tre terroristi, che hanno fatto irruzione all’interno della sala da concerti e hanno iniziato a sparare, prendendo alcuni ostaggi ed evocando Siria e Iraq. Due di loro si sono fatti esplodere - e quindi sono morti senza il coinvolgimento delle forze dell’ordine - e un altro è morto ucciso dalla polizia nel blitz lanciato dalle forze di sicurezza intorno a mezzanotte per liberare gli ostaggi. Uno dei kamikaze è stato identificato come un 29enne francese nato a Courcouronnes, Essonne, di origini algerine. Nato il 21 novembre 1985 alla periferia di Parigi, aveva 8 condanne per reati non gravi tra il 2004 e il 2010 ma non era mai stato incarcerato. Su di lui però la Direzione generale per la sicurezza interna (Direction générale de la sécurité intérieure) aveva una scheda di tipo S per radicalismo, cioè di persona sospettata, nel 2010. È stato possibile compiere l’identificazione grazie alle impronte digitali prese da un dito, l’unica parte rimasta intatta dopo l’esplosione: si tratta di Ismael Omar Mostefai, riporta la Cnn, viveva a Chartres fino al 2012. Gli inquirenti francesi hanno perquisito casa sua a Romilly-sur-Seine, a est della capitale francese, e hanno arrestato sei membri della sua famiglia, tra cui il padre e il fratello. I sei si trovano sotto custodia nel quartier generale dell’antiterrorismo francese a Levallois-Perret, nella citta urbana di Parigi, a nord-est del Bois de Boologne: sono stati interrogati per verificare se fossero a conoscenza delle attività del loro familiare. Potranno essere trattenuti sino a 96 ore prima di essere eventualmente portati davanti a un giudice.
I kamikaze dello stadio
Le indagini attorno agli attentatori dello stadio invece partono dal passaporto trovato nella zona dello Stade de France accanto al corpo di un kamikaze: un documento che però, secondo gli 007 Usa- fonti citate dalla Cbs- è probabilmente falso. «Il documento non contiene i numeri corretti per un passaporto legittimo e la foto non coincide con il nome», afferma lo 007 alla Cbs. Il passaporto siriano ritrovato accanto al corpo riporta il nome di una persona, nata nel settembre 1990, «sconosciuta ai servizi segreti francesi», passato il 3 ottobre scorso dall’isola greca di Leros: registrato come profugo, è riuscito a entrare in Francia con lo status di rifugiato, e si è fatto esplodere davanti allo stadio insieme ad altri due kamikaze. E’ probabile che anche un secondo uomo sospettato di essere stato fra gli attentatori di ieri a Parigi sia entrato attraverso la Grecia. Lo riferiscono fonti del governo greco.
Lo steward che ha evitato la strage
Uno degli attentatori kamikaze di Parigi era in possesso del biglietto per l’amichevole Francia-Germania e ha tentato di entrare all’interno dello Stade de France. A rivelarlo è il «Wall Street Journal», citando un addetto alla sicurezza dell’impianto che ieri sera era in servizio. Lo steward, che ha chiesto di essere identificato solo con il suo nome di battesimo, Zouheir, ha spiegato che durante la perquisizione, avvenuta all’ingresso dello stadio circa un quarto d’ora prima della partita, è stato scoperto che l’uomo indossava un giubbotto esplosivo. Durante la fuga, ha aggiunto l’addetto alla sicurezza, l’attentatore si è fatto esplodere.
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REANTO PEZZINI, IL MESSAGGERO 15/11 –
C’era un passaporto vicino a uno dei kamikaze saltato in aria all’ingresso dello Stade de France. E’ il passaporto di un siriano di 25 anni sbarcato a ottobre nell’isola di Lesbo, in Grecia, insieme con decine di migranti e richiedenti asilo. Quasi un avvertimento all’Europa: noi possiamo entrare come vogliamo, quando vogliamo, con chi vogliamo e fare ciò che vogliamo sfruttando le vostre indecisioni, la vostra cultura della tolleranza. E inevitabilmente intorno a quel passaporto, ora, già si concentrano le polemiche e le strumentalizzazioni.
Il venerdì di sangue di Parigi ha numeri spaventosi. Li snocciola Francois Molins, il procuratore di Parigi, verso sera: «129 vittime, 99 feriti in condizioni gravissime, altri 254 fuori pericolo». Quattro terroristi sono morti facendosi saltare in aria con le cinture esplosive. Altri tre sono stati uccisi nel blitz notturno al Bataclan, la sala concerti dove la carneficina (89 morti) ha assunto dimensioni apocalittiche. «Sparavano, ricaricavano, e sparavano ancora, con freddezza e perizia» raccontano i sopravvissuti.
L’ELISEO
Il presidente Hollande ha nuovamente parlato ai francesi sabato mattina: «È un atto di guerra pianificato all’estero con complicità provenienti dall’interno». Dopo un consiglio dei ministri straordinario svoltosi in piena notte è stato dichiarato lo stato di massima allerta: «Non ci faremo sconfiggere, e saremo spietati». L’ex presidente Sarkozy ha parlato esplicitamente di conflitto armato. Marine Le Pen ha chiesto invece l’immediata espulsione di tutti i musulmani sospetti dal territorio francese. La parola guerra ritorna come una giaculatoria nelle dichiarazioni politiche.
A Parigi, del resto, si respira un clima bellico. I negozi perlopiù chiusi, poco traffico, poca gente per strada. Molti bar e ristoranti del centro sono rimasti con le saracinesche abbassate. Gli assembramenti sono vietati, fino a giovedì non saranno autorizzate manifestazioni, i controlli negli aeroporti costringono i viaggiatori a lunghe attese. Perfino la Tour Eiffel è stata chiusa ai visitatori. I sindaci da oggi hanno facoltà di ordinare il coprifuoco in ogni momento, alle forze di polizia sono stati concessi poteri speciali.
LA RIVENDICAZIONE
L’Isis attraverso i suoi siti ha rivendicato le stragi di venerdì notte: «Questo è solo l’inizio della tempesta». Lo Stato Islamico minaccia nuove stragi, nuovi morti. Promette agli «infedeli» mesi e anni di dolore, di violenza, di terrore. Non hanno colpito luoghi simbolici, hanno portato morte nella vita quotidiana, nei luoghi di svago, lo stadio, bistrot e ristoranti, fast food, una sala concerti. Nessuno, nel loro disegno, potrà d’ora in avanti sentirsi al riparo, il volto feroce del fondamentalismo può apparire in ogni istante, in qualsiasi posto.
Il numero dei morti sarebbe potuto essere ancora più spaventoso visto che qualcosa, nel piano del commando, non ha funzionato. Allo Stade de France, dove si giocava Francia-Germania, c’erano tre kamikaze imbottiti di un esplosivo giù utilizzato nelle stragi del 2005 a Londra. Dovevano farsi saltare in aria fra gli 80 mila spettatori, ma uno di loro è stato bloccato agli ingressi, è fuggito e ha azionato la cintura esplosiva senza fare vittime, tranne sé stesso. Gli altri due, ancora lontano dall’entrata, hanno deciso di «martirizzarsi» allo stesso modo, lontano dalla folla.
IL PASSAPORTO
Vicino al cadavere di uno di loro è stato trovato il famigerato passaporto di un siriano arrivato in Grecia con l’ondata di profughi, circostanza che sta già armando la propaganda di chi, non solo in Francia, da mesi cerca consensi proponendo di mettere fine alla politica di accoglienza nei confronti dei migranti. La polizia parigina sull’argomento non si sbilancia. Il procuratore di Parigi si limita a dire che il passaporto «appartiene a un cittadino siriano che non era conosciuto ai nostri apparati di sicurezza». Ma non dice chiaramente che apparteneva al kamikaze.
Per ora il solo attentatore identificato con certezza è un francese di 30 anni che abita in uno dei Comuni della banlieue parigina. Era sospettato da tempo di legami col mondo del fondamentalismo islamico, ma non era mai stato arrestato. La polizia belga, inoltre, in giornata ha fermato tre persone che «potrebbero avere a che fare con le stragi di Parigi». Sono tre cittadini europei affiliati ai gruppi che spalleggiano le formazioni ispirate dell’Isis, e non è stato escluso che in passato possano essere stati addestrati nei campi siriani.
LA XENOFOBIA
L’identikit di questi sospetti attentatori fa dire al presidente Hollande che le azioni di guerra dell’altra notte sono state «pianificate all’estero con complicità interne». Il fatto che i criminali «siano in mezzo a noi» - come ha detto il primo ministro Valls – fa salire la febbre della paura e dell’incertezza. E, inevitabilmente, attizza il fuoco di chi punta il dito contro quello che viene definito il «lassismo nei confronti degli immigrati e dell’Islam».
Anche questa recrudescenza della xenofobia è, in qualche modo, una vittoria dell’Isis.
GLI INCONTRI
Per domenica mattina il presidente francese ha messo in agenda incontri coi vertici di quasi tutti i partiti presenti all’Assemblea Nazionale, specie quelli dell’opposizione. L’obiettivo è quello di convincere anche i leader più critici con Hollande a fare quadrato, a evitare polemiche e strumentalizzazioni. Anche perché a fine mese proprio a Parigi è in programma la conferenza mondiale sul clima e, la prossima estate, la Francia ospiterà i Campionati Europei di calcio.
Eventi che, secondo i servizi segreti, sono già nell’agenda dei criminali dell’Isis.
Renato Pezzini
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FRANCESCA PIERANTOZZI, IL MESSAGGERRO 15/11 –
Il procuratore di Parigi François Molins lo ha detto: dobbiamo determinare i complici, i mandanti, i finanziamenti. Per ora gli inquirenti sembrano escludere che ci siano terroristi in fuga, che il commando che ha colpito Parigi nella notte tra venerdì e sabato comprendesse, almeno nella sua sezione operativa, altri terroristi oltre i sette rimasti uccisi. Il ricercato numero uno, al momento, è l’artificiere.
Mai dei kamikaze erano entrati in azione sul suolo francese, mai i responsabili di attentati avevano fatto uso di cinture o giubbetti esplosivi. «Lo specialista in esplosivi è troppo prezioso, non partecipa mai agli attacchi. Dunque si trova là fuori, da qualche parte...» ha commentato ieri Alain Chouet, ex dirigente dei servizi francesi, contattato dalla France Presse. Non a caso, è proprio su questo punto che il procuratore Molins è rimasto più vago: «L’inchiesta è in corso, non possiamo dire nulla che possa ostacolarla». Gli inquirenti stanno lavorando sulle tracce lasciate dai kamikaze. Il lavoro è difficile, anche perché già identificarli rischia di prendere molto tempo, se non si troveranno tracce sufficienti di Dna. Per ora si lavora soprattutto sul francese, il «biondo» che si è lasciato esplodere al Bataclan, identificato grazie a un dito.
LE AUTO
Ismael M., 30 anni, nato a Courcouronne nell’hinterland parigino e residente - ma saltuariamente - a Chartres, sembra fino a questo momento essere l’unico schedato dei membri del commando. Ieri sera suo padre e suo fratello sono stati fermati e interrogati. Ismael aveva un dossier S, come i fratelli Kouachi e Ahmedi Coulibaly, gli attentatori di gennaio. Secondo fonti con confermate ufficialmente, Ismael conosceva addirittura Coulibaly, il terrorista dell’Hypercacher. Ma per ora non ci sono tracce di un legame tra il terrorista del Bataclan e la “rete” di Coulibaly, parzialmente rivelata dall’analisi del suo pc e da sms criptati. Da confermare anche la notizia dell’identificazione di un secondo kamikaze del Bataclan, Abdullakbak B., mai finito negli schedari della polizia francese.
In compenso appare molto più interessante per gli inquirenti la pista belga. Tre dei sette kamikaze, secondo una fonte della stampa belga non confermata a Parigi, arriverebbero addirittura da Molenbeek, quartiere alla periferia di Bruxelles famoso per l’alto tasso di jihadisti. La notizia non è stata né confermata né smentita nemmeno dalle autorità belghe.
Sono state le auto usate dai terroristi, in particolare la Polo nera lasciata davanti al Bataclan ad estendere la caccia ai responsabili in direzione di Bruxelles. L’auto sarebbe stata noleggiata da un francese residente in Belgio fermato ieri mattina dalla polizia belga, in compagnia di altri due individui. All’interno, la polizia avrebbe ritrovato biglietti di un parcheggio a Molenbeek. Nessuno dei tre era schedato in Francia, e questo farebbe pensare a una nuova, più sofisticata organizzazione, capace di passare attraverso i radar dei servizi, a cellule ormai capaci di restare totalmente «dormienti» prima di entrare in azione in modo devastante. Squadre preparate e basate all’estero, eventualmente rafforzate da «basisti» in Francia. Ipotesi rafforzata dai due passaporti, uno siriano e uno egiziano, ritrovati vicini a due dei kamikaze dello Stade de France: anche in questo caso si tratterebbe di giovani da poco arrivati in Francia, e dunque ancora sconosciuti alla polizia. Uno dei tre fermati a Bruxelles sarebbe stato a Parigi venerdì sera. Ieri la polizia belga ha condotto diverse perquisizioni a Molenbeek e altre due persone sarebbero state fermate. Secondo gli inquirenti belgi «i terroristi potrebbero aver usato la Play Station 4 della Sony per comunicare tra loro perché è meno rintracciabile perfino di WhatsApp». Lo riporta di sito di Forbes.
IL CINQUANTENNE
Di sicuro, il procuratore ha parlato di «tre commando coordinati». Non è escluso che il coordinamento si trovasse all’estero. Altra pista fuori Francia, quella di un uomo di cinquantina d’anni originari del Montenegro, fermato il 5 novembre in Baviera con la macchina piena di armi ed esplosivi e che si stava dirigendo verso la Francia, probabilmente a Parigi. «I terroristi si conoscevano - ha detto Alain Chouet - sono stati formati a non attirare l’attenzione, a restare invisibili, ad avanzare isolati per colpire insieme».
Francesca Pierantozzi
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FRANCESCA PIERANTOZZI, IL MESSAGGERO 15/11 –
È stato l’attacco che tutti temevano. L’attacco perfetto al cuore della città: coordinato, simultaneo, opera di un commando di kamikaze addestrati per fare il massimo numero di vittime, seminare il terrore. Ieri è toccato al procuratore di Parigi François Molins, l’uomo di tutte le crisi, l’uomo di Charlie e dell’Hypercacher, tornare in diretta tv per raccontare ai francesi la notte di Parigi. Un assalto durato 33 minuti, condotto da sette terroristi, che ha provocato 129 morti, 352 feriti, di cui 99 fino a ieri sera in stato «di urgenza assoluta».
Tutto comincia alle 21 e 20 di venerdì sera. Allo Stade de France è in corso l’amichevole Francia-Germania. Lo stadio è pieno: 80 mila spettatori sugli spalti, in tribuna d’onore c’è François Hollande. Anche i telecronisti sentono il rumore di un’esplosione. Avviene sulla rue Jean Rimet, all’altezza della porta B. Vengono ritrovati due corpi: uno è quello della prima vittima dell’attacco a Parigi che è appena cominciato, l’altro è di un kamikaze. Il suo gilet è imbottito di perossido di idrogeno e chiodi, un esplosivo micidiale per «fare male, provocare il maggior numero possibile di morti» dice Molins. Per fortuna in quel momento fuori dallo stadio c’è poca gente. Il venditore di bibite e panini si salva, è abbastanza lontano. Capisce quello che sta succedendo, ma in quel momento lo sa soltanto lui, e i primi agenti accorsi sul posto.
IL SECONDO ATTACCO
Passano cinque minuti. Alle 21 e 25, qualche fermata di metropolitana più a sud, nel cuore di Parigi, scatta il secondo attacco. È il cuore del decimo arrondissement, quell’incrocio di strade proprio dietro il canal Saint Martin, sotto a Belleville e sopra alla place de la Republique. Di sera brulicano di gente, nei ristorantini, quasi tutti asiatici, o nei bar, affollati anche in terrazza. Comincia a fare freddo, ma ci sono le lampade che riscaldano, e poi fuori si può fumare. Fuori, infatti, ci stanno quasi sempre i più giovani. All’incrocio della rue Alibar e della rue Bichat arriva una macchina nera, una Seat modello Leon, dirà poi qualcuno. Ai tavoli del Carillon, un café carino, dove la mattina si fa colazione con i croissant e la sera si va per una birra, c’è chi non fa nemmeno in tempo ad alzare un braccio per proteggersi istintivamente il volto, alcuni si accasciano, la testa appoggiata sul tavolino rotondo, la mano ancora sul bicchiere. Dalla Seat sparano e sparano ancora, escono, si girano, puntano verso le vetrine del Petit Cambodge, un “buco” che è un’istituzione della cucina asiatica di Parigi. C’è sempre la fila fuori, lo sanno tutti che non accettano prenotazioni. Le raffiche falciano via i clienti, quelli in fila, le vetrine volano via. I terroristi ripartono, lasciano 15 morti, 10 feriti gravissimi, cento bossoli.
L’ESPLOSIONE
Altri cinque minuti e alle 21 e 30 seconda esplosione allo stade de France, questa volta all’altezza della porta H. Muore solo il kamikaze, imbottito con lo stesso gilet del primo. Dentro, il match Francia-Germania continua.
Due minuti dopo, alle 21h32 quelli con la Seat sono nella piccola rue de la Fontaine au Roi. Si fermano davanti alla Bonne bière. Forse la gente seduta ai tavoli non ha sentito i colpi sparati poco prima, proprio lì dietro, a due passi, forse si stanno chiedendo cos’erano quelle esplosioni: davanti alla Bonne bière muoiono in cinque, altri 5 sono in condizioni disperate.
LA STRAGE CONTINUA
La missione non è finita. La Seat continua, svolta a sinistra, poi sempre dritta fino alla rue Charonne, all’incrocio con la rue Faidherbe. Ci mettono quattro minuti. Per essere sicuri di prenderli tutti, questo gruppone di ragazzi che beve e chiacchiera come al solito fuori della Belle Equipe, cominciano a sparare prima ancora di girare: mandano in frantumi la vetrina del ristorante sushi, poi i proiettili inondano il caffè, un’altra istituzione di quartiere, un appuntamento facile, scontato, su una piazzetta dove si può stare in tanti. Ne ammazzano 19, nove li lasciano in fin di vita. Sparano anche quando ripartono: gli ultimi due proiettili finiscono nella vetrina della pasticceria all’angolo. Quattro minuti dopo, alle 21 e 40, sul vicino boulevard Voltaire, quasi sulla piazza della Nation, un uomo si siede tranquillamente a un tavolino del Comptoir Voltaire. Sceglie un posto fuori. Aspetta che Catherine, la cameriera, venga a prendere l’ordinazione e si fa esplodere. Catherine è fortunata, sopravvive con diverse ferite all’addome.
L’INCUBO
Ma non è finita, il peggio deve ancora arrivare, anzi, arriva nello stesso momento. Sempre alle 21 e 40, una Polo nera con targa belga si ferma davanti all’ingresso del Bataclan, più avanti sul boulevard Voltaire, quasi sulla piazza della Republique. È come se chiudessero il cerchio. Parigi già trema: si rincorrono le voci di esplosioni, di attentati, di morti. Ma all’ingresso del Bataclan nessuno riesce a impedire ai tre col kalashnikov di entrare. Prima ancora di mettere piede nella sala dove è in corso il concerto degli Eagles of Death Metal, evocano la Siria e l’Iraq.
Da fuori si cominciano a sentire gli spari, si vede gente che scappa dalle uscite di soccorso che danno sul piccolo passage Amelot, il marciapiede si riempie di sangue. Dentro è solo l’inizio di un incubo che durerà tre ore. Ma tredici minuti dopo, mentre nel Bataclan si continua a morire e le teste di cuoio prendono posizione, alle 21 e 53, un terzo kamikaze si fa esplodere a una cinquantina di metri dallo Stade de France. Non riesce a uccidere nessun altro tranne sé stesso.
IL BLITZ
A mezzanotte e venti i reparti speciali irrompono nel Bataclan, uccidono un primo terrorista, gli altri due azionano i loro giubbetti e saltano in aria. Dentro scopriranno una carneficina: 99 morti, decine di feriti in condizioni molto gravi. Non è ancora l’una.
Francesca Pierantozzi
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LUCA LIPPERA, IL MESSAGGERO 15/11 –
Agili, giovani, estremamente calmi, capaci di sparare con precisione e freddezza «come se fossero agenti delle forze speciali». Trentasei ore di forcing investigativo hanno dato un profilo, un’identità e in qualche caso anche un nome ai terroristi islamici, tutti ventenni, che venerdì sera hanno sconvolto Parigi e insieme a Parigi il mondo. I sette estremisti musulmani morti nell’azione dell’altroieri avevano almeno due denominatori comuni oltre all’età. Il primo: l’aver militato tra i macellai dell’Isis che stanno insanguinando la Siria in nome del Califfato. Il secondo: l’estrema familiarità con i kalashikov, i fucili d’assalto Ak47, usati al teatro «Bataclan» e nei ristoranti del massacro con la dimestichezza di chi sa come gestire un’arma tanto maneggevole quanto micidiale. Gente addestrata, insomma, e piena di sangue freddo.
IL FALSO RIFUGIATO
Dei vari commando avrebbero fatto parte tre belgi, un siriano, un egiziano, un francese e un uomo non ancora identificato. Con loro c’erano sicuramente altre persone - i fiancheggiatori di una serata che la Francia non scorderà mai - e sono quelle che a polizia sta cercando ovunque senza sosta. Alcuni sopravvissuti alla carneficina del «Bataclan» hanno parlato della presenza di una donna tra gli attentatori. Ma non ci sono ancora conferme. È invece ufficiale la notizia che accanto a uno dei kamikaze che si sono fatti esplodere all’esterno dello Stade de France è stato trovato un passaporto rilasciato dalle autorità di Damasco. Il documento, secondo il ministero dell’Interno greco, appartiene a un rifugiato siriano transitato e registrato a Lero, un’isola nel Mare Egeo, lo scorso 3 ottobre. Sono in corso accertamenti - il corpo è dilaniato - per capire se il kamikaze e il titolare del passaporto fossero la stessa persona.
ANCHE UN FRANCESE
I terroristi, secondo il quotidiano Le Monde, «erano tutti giovani bianchi sui venticinque anni». Quelli del teatro sarebbero arrivati «a bordo di due auto scure con altri ragazzi al volante». Uno dei veicoli del «Bataclan» è stato ritrovato: immatricolato in Belgio, il Paese con la più alta concentrazione di musulmani estremisti d’Europa, tanto che molti lo chiamano Belgistan. Da tutti i racconti affiora, mimacciosa e inquietante, la presenza dei kalashikov: «I terroristi erano molto calmi. Hanno ricaricato le armi tre o quattro volte. Sparavano con gli Ak47 con colpi singoli, tre o quattro alla volta in successione, senza raffiche: sembravano soldati delle unità speciali». Altro fattore comune agli attentatori: tutti «parlavano un ottimo francese». Uno francese lo era certamente: si tratta di un quasi trentenne (identificato dalle impronte digitali) nato a Courcouronnes, una delle banlieue di Parigi, noto ai servizi di sicurezza «per la vicinanza con gli ambienti islamici più radicali» e per questo «ritenuto a rischio». Dieci anni fa vide i giorni in cui il malessere della periferia sfociò in rivolta, l’altra sera eccolo pronto a fare strage di concittadini.
IL MONTENEGRINO
Gli estremisti, secondo una fonte dei servizi di sicurezza britannici citata dalla Bbc, avrebbero fatto parte di «una cellula autosufficiente dell’Isis composta da reduci dalla Siria». Gente che ha seminato terrore e morte tra Damasco e l’Afghanistan - stragi di civili, decapitazioni e orrori senza fine - e che a un certo punto è rientrata in Europa per eseguire nuovi ordini. Perchè, è chiaro, ci sono ordini, complicità e una rete organizzativa dietro tutto questo. Una settimana fa la polizia bavarese ha fermato un montenegrino sull’autostrada Salisburgo-Monaco. L’uomo, secondo le prove raccolte dalle autorità tedesche, era «certamente diretto a Parigi». Una prima perquisizione nel bagagliaio della sua macchina ha portato alla scoperta di una pistola. Al che l’auto è stata letteralmente “smontata”. Sono venuti fuori 200 grammi di esplosivo Tnt, due pistole, un revolver, due bombe a mano, centinaia di cartucce e otto kalashikov. Gli Ak47, i co-protagonisti della notte di sangue parigina.
Luca Lippera
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SIMONA ORLANDO, IL MESSAGGERO 15/11 –
La carneficina a Le Bataclan si ricostruisce attraverso tweet e post. In 1.500 erano andati al concerto degli Eagles Of Death Metal, la rock band californiana (non metallara, a dispetto del nome) che prima della strage ha postato foto del teatro gremito, platea entusiasta, volti felici. Sulle prime note di Kiss the devil, esplosioni e caos. Un ostaggio ha scritto: «Sono al primo piano. Lesioni gravi. Ci sono sopravvissuti. Hanno sparato a tutti. Uno per uno. Un massacro, cadaveri ovunque». I fan erano col fiato sospeso, fino alla notizia sui social: «Stiamo ancora cercando di metterci in contatto con tutti il nostro staff. I nostri pensieri vanno a tutti quelli coinvolti in questa tragica situazione». La band, tramite Michael Dorio, fratello del batterista Julian, ha raccontato a “Channel 2” di Atlanta: «Alla sesta canzone hanno sentito degli spari, un rumore molto più forte della musica. Si sono buttati a terra, hanno più sentito che visto, per via delle luci di palco. Sono scappati dalla porta nel retro e si sono rifugiati in una vicina stazione di polizia».
I Red Lemons hanno aperto la serata e per primi hanno condiviso: «Siamo salvi e lo sono anche gli altri musicisti che sono riusciti a prendere un taxi. È stato un orrore, i ragazzi morti erano felici insieme a noi fino a un minuto prima». C’erano anche i Deftones in sala. Avrebbero dovuto suonare lì per tre sere, hanno lasciato il concerto 15 minuti prima dell’attacco: «Tutto sembrava normale» ha dichiarato il batterista Aaron Harris, che, ironia della sorte, ha una band di nome Isis.
Simona Orlando
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ANAIS GINORI, LA REPUBBLICA 15/11 –
Fuori dal Bataclan i camion della morgue portano via i cadaveri delle ottantanove vittime. “Eagle” è scritto sull’insegna gialla che i proprietari hanno voluto tenere accesa come segno di resistenza. Dopo aver scaldato il pubblico, il gruppo Eagles of Death Metal stava cantando “Kiss the Devil”, una strofa che dice così: “I meet the devil and this is his song”. Il Diavolo è arrivato davvero, con le sembianze di ragazzi normali. «Non avevano facce feroci o indemoniate », ricorda Célia che ha visto i tre terroristi da vicino. Con suo marito, Benjamin, aveva lasciato i figli a casa per regalarsi una serata adolescenziale. Concerto sold out da tempo per la band californiana, millecinquecento spettatori pigiati e felici dentro al Bataclan, all’incrocio tra il boulevard Voltaire e il boulevard Richard Lenoir.
La coppia, lui giurista e lei architetto, era entrata con slancio nel grande edificio colorato, riconoscibile dalla sua bizzarra architettura asiatica di fine Ottocento, quando andavano di moda le cineserie. Negli ultimi anni, il teatro aveva ricevuto minacce da gruppi islamici dopo aver ospitato serate di associazioni ebraiche o filo-israeliane. Non era stata organizzata una sicurezza rafforzata, neppure dopo gli attacchi a Charlie Hebdo, a poche centinaia di metri, e all’Hyper Cacher. Per gli ultimi dieci mesi, Parigi si è cullata nell’illusione che gli attentati di gennaio fossero solo un brutto incubo, mentre invece erano una prova generale per spostare più avanti l’asticella dell’orrore.
È buio dentro al Bataclan quando scoppiano i primi spari. Per qualche secondo, Célia e Benjamin pensano a dei petardi, a un piccolo spettacolo pirotecnico, poi tutto diventa chiaro. Qualcosa sfiora le cosce della donna: un frammento di proiettile. La band scappa dal palco, le luci si accendono sulla sala. Insieme al marito, Célia si butta a terra, travolta dalla calca. «Sentivo che Célia era vicino a me, senza poterne distinguere il viso», racconta Benjamin. L’architetta riesce a intravedere i tre assalitori, a viso scoperto. Due sono vestiti di nero, tratti mediorientali. «Avranno avuto vent’anni», dice Célia. L’esame sui resti dei cadaveri conferma che uno degli assalitori è francese, nato in una banlieue parigina: avrebbe compiuto vent’anni il 21 novembre. Il terzo terrorista, più corpulento e meno giovane, indossa giubbotto chiaro, ha barba corta. Il commando è calmo, spietato. Il trio parla francese. «Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui». Alcuni testimoni hanno sentito: «È colpa del vostro Presidente», di François Hollande e della decisione di lanciare raid contro l’Is.
Le raffiche continuano, con brevi interruzioni per ricaricare i fucili d’assalto. Un corpo cade addosso a Benjamin. «Grondava sangue addosso a me». Un’altra donna vicina alla coppia è ferita. Gli spari vanno avanti, il commando è professionale, determinato. Un uomo anziano prende una pallottola in testa. «I miei occhiali — ricorda Benjamin — si sono macchiati di brandelli di carne, non vedevo più nulla». In pochi minuti, le vittime sono già decine, cominciando dai vigilanti all’ingresso, uccisi appena gli assalitori scendono dalla loro Polo Nera, ancora parcheggiata su boulevard Voltaire. Spingono la porta a vetri, sparano, proseguono nel piccolo corridoio, tra biglietteria e guardaroba. La porta si apre sulla sala.
I terroristi si concentrano sulla platea poi salgono sugli spalti. Uno di loro avverte: «Se qualcuno muove il culo, gli sparo». Alcuni spettatori tentano di prendere il loro cellulare, vengono giustiziati davanti agli altri. Alcuni spettatori scoprono un’uscita di emergenza, escono. Un terrorista se ne accorge, si affaccia da una finestra per colpirli. Il giornalista di Le Monde, Daniel Psenny, abita sopra al Bataclan, riprende la fuga in un vicolo laterale. Si vede una donna appesa a un cornicione. «Aiutatemi, sono incinta». Un uomo trascina un ferito a terra. Il giornalista scende per offrire riparo, viene colpito al braccio.
Mentre gli assalitori inseguono gli ostaggi, Célia e Benjamin scappano dall’ingresso principale, insieme ad altri. Anche la band riesce a mettersi in salvo. Dentro, i sopravvissuti restano a terra, tra cadaveri e feriti. Un piccolo gruppo sale in cima al teatro, nascondendosi nel sottotetto. Dal nascondiglio si sentono le raffiche, poi improvvisamente le detonazioni. È l’assalto delle forze speciali. I terroristi attivano i loro giubbotti esplosivi.
L’attesa e l’angoscia non finiscono. Per ore, non ci sono certezze sull’identità delle vittime, sui social network le famiglie pubblicano strazianti messaggi di ricerca. Sfilano volti di giovani di cui non si hanno notizie. Centinaia di sopravvissuti, avvolti in coperte termiche, sono interrogati dagli investigatori nel palazzo del municipio dell’undicesimo arrondissement. Il quartiere è stato colpito da due attentati in meno di un anno. Sul boulevard Voltaire avevano marciato i capi di Stato per sfidare il terrore. La risposta è stata un macabro rodeo tra café e brasserie fino al Bataclan, espressione popolare per definire un gran casino. “On vous aime Paris” aveva urlato la band californiana all’inizio del concerto. L’amore, purtroppo, non basta mai.
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FABIO TONACCI, LA REPUBBLICA 15/11 –
Quello che resta di uno dei kamikaze dello Stade de France è su una parete di cemento, a quattro metri di altezza. Oliver, il signore in tuta bianca dei Services Funerarires inviato qui per raccogliere pietosamente tutti i brandelli di cadavere, alza lo sguardo con perplessità. «Non ci arrivo lassù, non posso farci niente...», dice tra sé, prima di allontanarsi con il sacchetto arancione già mezzo pieno. Il suo lavoro è finito.
Il giorno dopo nei dintorni dello stadio di Saint Denis si cercano le tracce di un piano stragista clamorosamente fallito.
Tutto doveva cominciare qui, con una spettacolare carneficina sugli spalti. Ma qualcosa, per fortuna, è andato storto. Il commando di tre terroristi, infiltrato tra gli 80mila tifosi venuti a vedere l’amichevole Francia-Germania, aveva il compito di entrare nell’impianto e farsi saltare in aria a metà del primo tempo, in mondovisione e davanti agli occhi del presidente Francoise Hollande. «Abbiamo le prove che l’obiettivo fosse esattamente quello, a cominciare dai filmati delle telecamere di sorveglianza », sostiene una fonte altamente qualificata della Prefettura parigina. E il racconto che un testimone chiave, l’addetto alla security del cancello D, ha consegnato alla polizia negli interrogatori di ieri notte ne è l’ulteriore conferma.
«Erano passati pochi minuti dall’inizio dell’incontro — ha messo a verbale l’uomo — quando si è presentato un ragazzo che ha provato a superare i tornelli con il biglietto in mano. Mi sono accorto però che aveva qualcosa di strano sotto la giacca». Lo strano è una cintura di esplosivo militare Tatp (perossido di acetone), riempita di bulloni e collegata a delle batterie con un detonatore a pulsante. Scoperto dalla vigilanza, il ragazzo corre via lungo la Avenue Jules Rimet, la strada attorno allo stadio che in quel momento, sono le 21 e 20 minuti, è semivuota. Braccato, si avvicina a un chiosco e aziona il detonatore, uccidendo l’unica persona che ha accanto: un barista portoghese di 62 anni.
«Abbiamo sentito un boato, ma nessuno ha pensato a un attentato», dice a Repubblica Nicolas, 23 anni, uno studente che vive nella citè di Saint Denis e che era presente alla partita. «Succede spesso di sentire dei petardi, dalle nostre parti». Le telecamere delle televisioni fanno in tempo a inquadrare l’espressione stranita di Patrice Evra.
Dopo due minuti, alle 21.22, il sospetto si fa certezza. Un’altro botto, ancora una volta proveniente dalla Avenue Rimet. È il secondo attentatore, che si fa “brillare” di fronte alla porta chiusa del negozio Decathlon, sotto la tribuna H, ferendo almeno 25 persone. Bley Mokono all’ospedale ricorda: «Era un magrebino alto 1,70, sui 25 anni, con vestiti larghi e un mantello». La situazione precipita: tutta l’area sotto i settori H, G e J, varchi compresi, vengono chiusi e sgomberati dalla security, alle radioline di servizio si lancia l’allarme.
La partita però non si ferma. In campo c’è anche Lassan Diarra, che gioca mentre sua cugina, Astadia Diakitè, muore in una delle sparatorie del centro. Il presidente Hollande sparisce, perché su ordine dei servizi segreti deve riparare nei locali protetti del ministero dell’Interno. Alla fine del primo tempo un poliziotto scende negli spogliatoi e chiama in disparte i due ct, Didier Deschamps e Joachim Löw: spiega loro sommariamente ciò che sta accadendo a Parigi, pregandoli di non dire niente ai giocatori. Per motivi di sicurezza, i tifosi devono avere l’impressione che tutto sia normale. Di normale, però, nella notte parigina del 13 novembre 2015, non c’è niente. Mentre i tre stanno parlando, alle 21.53, un’altra deflagrazione: il terzo attentatore si fa saltare a 400 metri dallo stadio, nei pressi di un McDonald’s. Altre venti persone vengono ferite.
Chi sono, i tre uomini-bomba? L’intelligence francese è ancora nel dubbio, nonostante due passaporti ritrovati vicino ai corpi dilaniati: appartengono a un siriano di nome Ahmad Al Mohammad, classe 1990, e a un egiziano, ma non è detto che siano i documenti reali. E di sicuro qualcuno dovrà dare qualche spiegazione in più sulla misteriosa evacuazione della nazionale tedesca dall’albergo Molitor, disposta intorno alle 16 prima della gara. Era l’avvisaglia di qualcosa che poi è stato sottovalutato?
Alle Stade de France, venerdì sera, si é giocato fino alle 22.45, fino al triplice fischio dell’arbitro. I tifosi, ormai consci dell’attacco a Parigi, sono usciti cantando la Marsigliese. I giocatori, invece, no. Quelli francesi sono rimasti dentro lo stadio fino alle 3 di mattina. I tedeschi hanno dormito negli spogliatoi. Terrorizzati di essere loro il prossimo bersaglio del delirio jihadista.
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CARLO BONINI, LA REPUBBLICA 15/11 –
Un passaporto siriano. Un nome. Ahmad Almohammad. La storia di una notte di guerra, nera come le silhouette del commando islamista dello Stato Islamico in cui non tutti hanno trovato o cercato il martirio, nera come le macchine, una Seat e una Volkswagen Polo, su cui quel commando si era diviso e viaggiava, comincia da un documento di identità. Ahmad Almohammad, appunto. Cittadino siriano nato il 10 settembre del 1990. Un visto di rifugiato politico rilasciato dal ministero dell’Interno greco il 3 ottobre scorso nel centro di raccolta dell’isola di Leros. Un profilo Facebook in lingua araba con la sola identità, privo di foto e di post. Una misteriosa X negli archivi di tutte le intelligence europee. Un giovanissimo uomo di 25 anni senza un apparente passato. Un fantasma scomparso dall’isola di Leros quel 3 ottobre e riapparso nella notte di Parigi quaranta giorni dopo. Forse transitando dall’Italia (ma in questo caso senza lasciare alcuna traccia). Forse dal Belgio.
Nella notte di venerdì, il passaporto di Ahmad Almohammad, ammesso documenti la sua vera identità, è la cosa più importante che la polizia francese raccoglie da ciò che resta di un torso di uomo dilaniato dalla cintura esplosiva che indossava di fronte ai cancelli dello Stade de France. Perché Ahmad è uno degli sette “fratelli” del Califfato che devono lavare nel sangue «l’onta al Profeta». È uno dei martiri imbottito di Tatp (perossido di acetone concentrato) e bulloni che devono seminare contemporaneamente l’orrore a Saint Denis e nel decimo e undicesimo arrondissment. Una miscela esplosiva di cristalli di polvere bianca inodore estremamente instabile. Sensibile agli urti, capace di detonare ancor prima che l’innesco faccia il suo lavoro. Con Ahmad, allo Stade de France, sono altri due. E come lui si faranno saltare alle 21.30 (di fronte ai cancelli di entrata H) e alle 21.53 (in rue della Coquerie, non lontano da un Mc Donald’s). Uno di loro ha il passaporto egiziano. Più a sud, due automobili con altrettante squadre a bordo, finiscono il lavoro. Come ricostruirà ieri sera il Procuratore di Parigi Francois Molins, «alle 21.30, in Rue Fontaine au Roi, da una macchina Seat di colore nero vengono esplosi un centinaio di colpi calibro 7,62 verso il café Bonne Biére». Mentre, «alle 21.38, in Rue de Charonne, altri cento colpi di 7,62, investono la clientela del Café Belle Equipe», ancora una volta esplosi da fucili di assalto e ak-47 imbracciati da uomini a bordo di una Seat nera (verosimilmente la stessa). Da una seconda auto, una Volkswagen Polo nera, alle 21.49, scendono invece i tre martiri che devono tirare nel mucchio all’interno del teatro Bataclan. Moriranno tutti. Non prima di essersi trascinati dietro la vita di 86 innocenti. Mentre un quarto martire, in Boulevard Voltaire, salta in aria dilaniato dalla stessa miscela di Tatp e bulloni utilizzata allo Stade de France.
Ahmad il siriano, un egiziano e altri cinque cadaveri, dunque. Che “parlano”. Co- me i primi due. L’impronta digitale dell’indice della mano destra di uno dei tre corpi recuperati al Bataclan appartiene a un cittadino francese. «È nato il 21 novembre del 1985 a Curcourognes — spiegherà ancora il Procuratore di Parigi — nella regione dell’Essonne. Ha precedenti penali, otto condanne inflitte tra il 2008 e il 2010 per reati generici, ma non è mai stato detenuto. Dal 2010 era noto ai servizi antiterrorismo, che lo avevano schedato con la fiches “S” (sicurezza ndr.) perché in contatto con elementi di spicco di un gruppo radicale della periferia di Parigi, pur non essendone parte trainante» (e infatti a tarda notte a Curcourognes verranno fermati il padre e il fratello). Mentre degli altri quattro cadaveri, tre almeno sarebbero di cittadinanza belga. E tutti ignoti agli archivi dell’intelligence francese.
È un dettaglio cruciale. Perché incrocia il “prima” e il “dopo” di questa notte. Perché dice molto della composizione “mista” del commando, format utilizzato per confondere l’intelligence e spuntarne la capacità di prevenzione, e dei suoi mandanti. Perché indica nell’asse Parigi-Bruxelles il binario su cui prima di venerdì e da questa notte in avanti si muove la paura che fa dire al premier Valls “non è finita”. Hanno infatti la targa belga la Volkswagen Polo abbandonata non lontano dal Bataclan e la Seat che ha vomitato fuoco in Rue Fontaine e rue de Charonne e che verrà ritrovata al cimitero di Pere Lachaise. Ed è in Belgio che le due auto sono state affittate da un cittadino francese che, ieri, verrà arrestato al confine con la Francia mentre, insieme ad altri tre belgi, sta provando a rientrare a Bruxelles, nel sobborgo di Molenbeek.
Non è un caso che, mentre nella notte che sta per cominciare, gli allarmi a Parigi si inseguano tra l’evacuazione dell’area circostante la torre Eiffel (quindicesimo arrondissment) e l’irruzione delle squadre antiterrorismo nell’hotel Pullman alla caccia di chi ancora si vuole in fuga, è in Belgio che ragionevolmente si trovi la chiave in grado di venire a capo dell’orrore. I quattro uomini arrestati al confine (il cittadino francese e i tre belgi) potrebbero infatti consentire di tirare il filo che porta a chi del commando originario (fiancheggiatori e basisti inclusi) è ancora in fuga. Di chiarire se — come pure vorrebbero alcune delle testimonianze raccolte tra i superstiti della strage del Bataclan — al gruppo apparterrebbe anche una donna. Perché — come riferiscono fonti di polizia a Bruxelles — «è certo che il cittadino francese arrestato, venerdì notte, fosse a Parigi». Magari proprio al volante di quella Seat poi abbandonata al cimitero di Pere Lacheise.
Del resto, anche le armi usate dal commando portano fuori dalla Francia. E non a caso hanno fatto dire per l’intera giornata di ieri, prima di far registrare un’improvvisa prudenza, che all’orrore di Parigi sarebbe legato anche l’arresto, nella regione di Monaco di Baviera, di un cittadino montenegrino proveniente dalla Slovenia, nella cui auto sono stati trovate armi da guerra ed esplosivo apparentemente destinati a Parigi (città settata sul navigatore dell’auto).
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MARCO MOUSSANET, IL SOLE 24 ORE 15/11 –
«Un atto di guerra». Per la seconda volta in un anno (la prima era dopo l’attacco a Charlie Hebdo, lo scorso 7 gennaio) il presidente francese François Hollande pronuncia queste parole in un messaggio televisivo al Paese. E per la seconda volta deve cercare di incarnare il leader in cui una città, un popolo intero smarrito e spaventato deve avere fiducia, intorno al quale deve cercare di ritrovarsi e di unirsi, per superare anche questa nuova, terribile prova.
«Un atto di guerra - ha detto Hollande dopo aver riunito all’Eliseo il consiglio di difesa all’indomani dei massacri di Parigi – commesso da un’armata di terroristi, lo Stato islamico, contro un Paese libero. Un atto di guerra – ha detto prima ancora che arrivassero la rivendicazione dell’Isis e le notizie sulle identità di alcuni dei mostri che hanno insanguinato la capitale – preparato, pianificato e organizzato all’esterno della Francia con complicità all’interno».
«Un atto», ha aggiunto invitando ancora una volta i francesi «a essere uniti e a dimostrare il necessario sangue freddo», di «una barbarie assoluta, alla quale risponderemo in maniera spietata, all’interno come all’esterno». All’interno con lo stato di emergenza, con l’ulteriore rafforzamento delle misure di sicurezza, e all’esterno proseguendo la lotta militare sul loro terreno contro gli uomini neri del Califfato.
Parole, quelle di Hollande, che ha ripreso anche l’ex presidente – e principale avversario politico – Nicolas Sarkozy: «I terroristi hanno dichiarato guerra alla Francia, che non deve indietreggiare e condurre a sua volta una guerra totale».
«Sosterremo – ha detto Sarkozy in questo momento drammatico – tutte le decisioni che andranno nella direzione di un drastico rafforzamento delle misure di sicurezza». E ha quindi avvertito – alla vigilia delle elezioni regionali e in vista di quelle presidenziali del 2017 – che questa volta la destra non si limiterà a sostenere, ad appoggiare. Questa volta pretende anche qualcosa che a gennaio non aveva chiesto: «La nostra politica estera dovrà integrare il fatto che siamo in guerra, così come la nostra politica interna. Abbiamo bisogno di cambiamenti radicali per garantire la piena sicurezza dei francesi».
Si riapre cioè il dibattito intorno a provvedimenti che avrebbero inevitabilmente un impatto sulle limitazioni delle libertà individuali, una sorta di Patriot Act alla francese di cui Sarkozy parlerà questa mattina con Hollande in un incontro all’Eliseo.
Ancora più esplicita su questo tema è stata ovviamente Marine Le Pen, terzo protagonista della scena politica nazionale che certo sfrutterà i terribili eventi parigini per raccogliere più ampi consensi rispetto a quelli che già oggi potrebbero garantire all’estrema destra la conquista di due regioni e alla leader del Front National di virare in testa alla boa del primo turno delle presidenziali: «È indispensabile che la Francia ritrovi il controllo delle proprie frontiere, definitivamente. Perché senza controllo delle frontiere nazionali non sono possibili protezione e sicurezza. Il Paese deve inoltre riarmarsi, ritrovando la massima efficacia dei suoi mezzi militari, di polizia, dei servizi di intelligence e di quelli doganali».
E poi l’affondo finale: «Il fondamentalismo islamico deve essere annientato. La Francia deve vietare le organizzazioni islamiche, chiudere le moschee in cui viene effettuata la propaganda religiosa radicale ed espellere gli stranieri che predicano l’odio sul nostro territorio e gli immigrati clandestini che non hanno diritto ad avere un posto nel nostro Paese».
Dietro le dichiarazioni solenni, dietro e oltre il doveroso rispetto del dolore e del lutto, lo scontro politico è insomma evidente. E per Hollande la strada è sempre più in salita.
Marco Moussanet
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MARCO MOUSSANET, IL SOLE 24 ORE 15/11 –
Una città inebetita e ovattata. Una città sotto shock e in lutto. Una città semideserta e irreale. Incredula e attonita. Così era Parigi all’indomani della folle incursione di una decina di terroristi islamici, che hanno ammazzato 129 persone, ferendone altre 352, di cui 99 in modo grave.
Una città al rallentatore, con i militari in strada, poca gente in giro (la Prefettura aveva invitato a non uscire di casa) e numerose saracinesche abbassate. Chiuse scuole e università, chiusi musei, cinema e teatri. Chiusa la Tour Eiffel, che ieri sera è rimasta spenta. Chiusi i mercatini di Natale, i parchi di divertimento (Disneyland e Asterix), i grandi magazzini (Galéries Lafayette, Printemps, Bon Marché) e tantissimi negozi. Una chiusura quasi generale che proseguirà oggi.
In molti sono comunque andati a portare il loro commosso omaggio alle vittime, posando davanti alle serrande dei caffè e ai ristoranti dai dehors insanguinati candele, fiori, bigliettini con messaggi di cordoglio, di solidarietà, di speranza.
Davanti alla fascia di sicurezza ancora stesa intorno alla sala da concerti Bataclan, dove per tutto il giorno la polizia giudiziaria ha lavorato ai necessari rilievi, a un certo punto è arrivato un signore in bicicletta trainando un pianoforte. Si è fermato, nel silenzio assoluto ha suonato Imagine di John Lennon e se n’è andato. Nella zona di Rue de Charonne, uno dei luoghi colpiti, una signora che venerdì sera è passata in auto proprio durante la sparatoria ed è riuscita miracolosamente a cavarsela, ha chiuso così la sua testimonianza, il viso rivolto alle telecamere: «Siete dei vigliacchi, se mi state ascoltando ve lo dico in faccia. Siete dei vigliacchi. Ma noi continueremo a uscire, a vivere la nostra vita». Prima di scoppiare a piangere.
In tarda mattinata è arrivata la delirante e terribile rivendicazione dello Stato islamico: «In un attacco benedetto da Allah, un gruppo di fedeli dei soldati del Califfato ha colpito la capitale dell’abominio e della perversione. Otto fratelli con cinture di esplosivo e fucili d’assalto hanno preso di mira lo stadio dove si svolgeva la partita tra i due Paesi crociati Francia e Germania, il Bataclan dove c’era una festa della perversione e altri obiettivi. La Francia e quelli che seguono la sua strada continueranno a sentire l’odore della morte per aver deciso di colpire i musulmani nella terra del Califfato con i loro aerei. Questo attacco non è che l’inizio della tempesta».
In serata il procuratore di Parigi, François Molins, ha ricostruito la carneficina e spiegato che l’attacco è stato condotto da tre gruppi di terroristi strettamente coordinati. Il primo, quello che avrebbe potuto realizzare la strage più grande e non è riuscito nell’intento grazie ai controlli agli ingressi, è entrato in azione alle 21 e 20 allo Stade de France, dov’era appunto in corso la partita amichevole Francia-Germania. Tre kamikaze, non potendo entrare, si sono fatti saltare in aria all’esterno azionando le loro cinture esplosive e uccidendo un passante. Il secondo gruppo, composto anch’esso da tre terroristi, è entrato al Bataclan (sala i cui gestori, ebrei, avevano già ricevuto numerose minacce in passato) alle 21 e 40, inneggiando all’Iraq e alla Siria e sparando all’impazzata. Quando le forze speciali della polizia hanno fatto irruzione, poco dopo mezzanotte, anche questi attentatori si sono fatti esplodere. In sala gli agenti hanno trovato 89 cadaveri.
Il terzo commando dell’Isis ha svuotato i caricatori dei propri kalashnikov (sono stati sparati oltre 300 colpi) muovendosi in auto tra Rue Alibert e Rue de Charonne, massacrando i clienti di caffè e ristoranti: 39 morti in dodici minuti. Un settimo kamikaze, che forse faceva parte di quest’ultimo gruppo, si è fatto esplodere in Boulevard Voltaire senza fare vittime. Già nella notte di venerdì si era diffusa la notizia che gli autori delle sparatorie per strada fossero riusciti a fuggire. E infatti ieri la polizia belga ha arrestato alla frontiera tre persone, a bordo di un’auto guidata da un francese, residente in Belgio, al quale era intestato il contratto di noleggio della vettura, con targa belga, utilizzata per l’attacco al Bataclan. Le forze dell’ordine belghe hanno anche effettuato numerose perquisizioni e arrestato, a quanto sembra, una quarta persona. Tutte provenienti dalla cittadina di Molenbeek-Saint-Jean, nella cintura di Bruxelles, nota per essere una roccaforte del radicalismo islamico (da lì veniva pure il marocchino che ad agosto ha cercato di seminare la morte sul Thalys Amsterdam-Parigi).
La polizia ha anche identificato uno dei kamikaze del Bataclan: un francese di 30 anni con precedenti per reati di diritto comune che dal 2010 era effettivamente schedato come estremista islamico pur senza far parte di una filiera. Il padre e un fratello del kamikaze sono stati fermati e interrogati ieri sera. Uno dei kamikaze dello stadio aveva un passaporto intestato a un siriano di 25 anni registrato a ottobre come profugo sull’isola greca di Leros. Potrebbe inoltre avere un legame con i commando parigini un montenegrino arrestato all’inizio di novembre in Baviera: sulla sua auto la polizia aveva trovato otto kalashnikov, pistole, granate ed esplosivi.
Il presidente Hollande ha decretato tre giorni di lutto nazionale (non era mai accaduto dalla fine della seconda guerra mondiale) e convocato Camera e Senato in seduta plenaria a Versailles per domani.
Marco Moussanet
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ALBERTO MATTIOLI, LA STAMPA 15/11 –
Chi sono i kamikaze della porta accanto? A parte i nomi, di loro si sa già molto, anche se non tutto. Il punto l’ha fatto il procuratore di Parigi, François Molins, lo stesso delle indagini sulla strage a «Charlie Hebdo», in una secca dichiarazione alla stampa ieri alle 19, dopo che per tutta la giornata si erano rincorse e accavallate voci, comprese quelle inventate di sana pianta come i quattro poliziotti uccisi o il posto di blocco forzato da una macchina in fuga nell’Île de France.
Oltre mezz’ora di guerra
Intanto, i numeri. Il bilancio, purtroppo provvisorio, di 33 minuti di guerra nel centro di Parigi è di 129 morti e 352 feriti, di cui 99 «in stato di urgenza», insomma che rischiano la vita. I terroristi morti sono sette, sei che si sono fatti saltare e uno che è stato eliminato durante l’assalto delle teste di cuoio al Bataclan. I gruppi in azione erano tre: il primo allo Stade de France, il secondo fra i locali del decimo e dell’undicesimo arrondissement, il terzo alla sala da concerto.
Questo significa che un gruppo, il secondo, è ancora in tutto o in parte in fuga. I criminali erano equipaggiati allo stesso modo: gilet o cintura esplosiva, imbottiti di perossido di azoto e di ferraglia, e kalashnikov. Tutti i bossoli ritrovati sono calibro 7.62. Secondo il «Wall Street Journal», che cita un addetto della sicurezza dello Stade de France, un terrorista imbottito di esplosivo è stato bloccato mentre stava entrando con un regolare biglietto nelle gradinate, è stato inseguito e, per fortuna, si è fatto saltare all’esterno. Altrimenti la strage allo stadio sarebbe stata ben peggiore.
Giovani e addestrati
I testimoni sono concordi: i terroristi erano giovani, ben equipaggiati, ben addestrati e molto sicuri di loro. Urlavano «Allah akbar!» e citavano la Siria. Secondo gli 007 inglesi, si tratta sicuramente di gente che ha combattuto lì. Due cellule si sono mosse in auto, che sono state identificate: su una Seat nera quella che ha attaccato i ristoranti, su una Polo sempre nera quella del Bataclan. Nessun dubbio sul fatto che il blitz sia stato coordinato e nemmeno sulla rivendicazione che l’Isis ha diffuso venerdì notte, troppo precisa perché lo Stato islamista possa attribuirsi i crimini altrui.
Finora, è stato identificato con certezza solo uno dei kamikaze morti. Di lui è rimasto solo un dito sezionato. Ma abbastanza per riconoscere le impronte, che provano che aveva trent’anni, nato nel 1985 a Courcouronnes, grosso paesone di 13 mila abitanti circa 27 chilometri a sud-ovest di Parigi e «zona sensibile», noto soprattutto perché sorge lì la più grande moschea francese. La classica banlieue popolata di immigrati arabi o africani, spesso non di prima generazione: il kamikaze era francese. Aveva collezionato otto condanne per reati comuni, ma non era mai finito in carcere. Però era stato schedato per radicalizzazione, quindi era noto ai servizi: inevitabili le polemiche sul loro funzionamento. E ieri notte il padre e il fratello del kamikaze sono stati fermati e interrogati per ore.
Altre polemiche arriveranno sul percorso di un altro dei terroristi morti. È stato ritrovato il suo passaporto: è un siriano di 25 anni, sconosciuto ai servizi francesi. Ma il viceministro degli Interni greco, Nikolaos Toskas, ha detto che l’uomo è entrato in Europa come «rifugiato»: è stato registrato il 3 ottobre sull’isola greca di Lero. Ed è probabile che anche un secondo attentatore sia entrato dalla Grecia come profugo.
Infine, la filiera belga. La Polo nera sulla quale si spostava il commando della strage al Bataclan era stata noleggiata a Bruxelles da un uomo di cittadinanza francese. Dentro, sono stati trovati dei biglietti di un parcheggio nel quartiere di Molenbeek di Bruxelles. Il noleggiatore, di cui Molins non ha reso noto le generalità, è stato fermato per caso alla frontiera franco-belga su un’altra automobile e in compagnia di due persone. Nel frattempo, la polizia belga lanciava una grande operazione a Molenbeek, che è un noto covo di jihadisti. Secondo il ministero della Giustizia belga, gli arrestati sono cinque. Il premier di Bruxelles, Charles Michel, ha aggiunto che uno dei cinque era a Parigi. Secondo gli inquirenti belgi, gli assassini hanno preparato l’assalto scambiandosi messaggi sulla Playstation, più difficile da intercettare. Insomma, non c’è dubbio che la filiera terroristica sia franco-belga. A Parigi, i 2.200 investigatori mobilitati dalla Polizia giudiziaria parigina stanno vagliando le schede di 1.700 noti islamisti e di oltre duemila «radicali potenziali».
Misteri e perplessità
Restano ancora dei misteri e delle perplessità. Intanto, diversi testimoni citano la presenza di una donna, di cui però nelle ricostruzioni non c’è traccia. Poi sicuramente nel commando ci doveva essere un artificiere, perché preparare un giubbotto esplosivo è un lavoro delicato che richiede competenze specifiche. Ma, secondo Claude Clouet, ex capo della Dgse, il servizio informazioni all’estero francese, «l’artificiere è troppo prezioso, non partecipa mai agli attacchi». Infine, la pista tedesca. Il ministro bavarese degli Interni, Joachim Hermann, ha riferito dell’arresto, una settimana fa, di un misterioso montenegrino che guidava una macchina carica di armi ed esplosivo, episodio «sicuramente» collegato alla strage di Parigi, chissà.
Fin qui le indagini. Prima o poi, i terroristi li prenderanno tutti. Non c’è dubbio perché è sempre successo, nell’ormai lunga storia del terrore islamista in Francia. Il problema non è l’investigazione, ma la prevenzione. Dopo la tragedia di «Charlie Hebdo» si sono moltiplicati gli attentati, riusciti, sventati, di cani sciolti o ben preparati. Era plausibile aspettarsi il salto di qualità. Il rebus non era «se», ma «quando». Marc Trédivic, l’ex giudice del polo antiterrorismo, aveva lanciato l’allarme il mese scorso e oggi accusa: «Tutti sapevano che l’Isis preparava qualcosa d’importante». Evidentemente, qualcosa non ha funzionato.
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NICCOLO’ ZANCAN, LA STAMPA 15/11 –
C’è il passaporto di un ragazzo siriano di venticinque anni che rischia di cambiare per sempre la storia d’Europa. Quel passaporto è stato trovato ieri mattina addosso al cadavere di uno dei terroristi responsabili del massacro di Parigi. Addosso a uno dei kamikaze dello Stade de France.
È un documento di identità che racconta un viaggio preciso. È stato registrato il 3 ottobre scorso sull’isola greca di Leros, davanti alle coste della Turchia, quando sbarcarono settanta migranti. Leros è una delle isole meno battute nelle rotte migratorie, meno di Lesbo, Simi e Kos. Ma è pur sempre un punto di partenza in Europa, per poi proseguire il viaggio verso Nord, come hanno fatto quasi 500 mila persone passate attraverso la Grecia nel 2015. Dalle isole ad Atene, dalla Macedonia in Serbia, risalendo la cosiddetta «rotta balcanica». Sembra, quel passaporto, il documento di un profugo in fuga dalla guerra. Sembra, cioè, che un terrorista abbia usato la rotta delle vittime dell’Isis per farsi largo nel cuore dell’Europa. Per farsi Isis.
Cautela e timori
«Bisogna maneggiare questa notizia con estrema cautela», dice un investigatore dell’antiterrorismo italiano. «I passaporti siriani sono spesso duplicati e falsificati. Perché quella dei siriani è la condizione più ambita da chi scappa». La guerra in Siria va avanti ormai da cinque anni: tutti contro tutti. Le ragioni di chi fugge sono sotto gli occhi del mondo. Il 2 settembre la cancelliera Angela Merkel aveva aperto le frontiere «a tutti i siriani in cerca di asilo politico», sbloccando così una situazione sempre più tesa nell’Ungheria dei muri di Victor Orbàn. Sette mila profughi erano bloccati ormai da giorni alla stazione Keleti di Budapest.
Ma adesso, tutto potrebbe essere messo in discussione, se davvero si accerterà che l’identità del terrorista coincide con quella del falso profugo. «È prematuro parlarne, dobbiamo ancora raccogliere i dati e le informazioni», dice una portavoce della Commissione Europea, interpellata sul futuro di Schengen. È la libertà di circolazione ad essere in gioco. Sono le frontiere dei singoli Stati. È l’Europa così come l’abbiamo conosciuta.
Le prime indagini
La prima conferma ufficiale era arrivata dal ministro dell’Interno greco Nikolaos Toskas, alle sei di ieri sera: «Quel passaporto è stato registrato dalle autorità elleniche il 3 ottobre, come prevedono i regolamenti in materia di immigrazione. Ma ancora non si sa se altri Paesi della rotta balcanica ne abbiano mantenuto le tracce». Era lui, quel ragazzo siriano di 25 anni, lo stesso ragazzo che ha preso parte al massacro di Parigi?
Il documento era vicino al corpo di uno degli attentatori vicino allo Stade de France. Si è fatto esplodere venerdì sera durante la partita fra Francia e Germania. «È una persona sconosciuta ai nostri servizi segreti» ha detto il procuratore di Parigi, François Molins. Non ha voluto rivelarne l’identità.
Si chiudono i confini
Ma in questo quadro di massima delicatezza, le polemiche sono già incominciate. La Polonia, che sta formando il nuovo governo ultra nazionalista, ha subito preso posizione. «Dobbiamo mantenere il controllo completo delle nostre frontiere, della nostra politica d’asilo e d’immigrazione. Non c’è alcuna possibilità politica di rispettare gli impegni sul ricollocamento dei rifugiati», ha preavvertito il futuro ministro per gli affari europei, Konrad Szymanski. Ungheria e Slovenia hanno alzato muri di filo spinato ai confini. Austria, Germania, Svezia, Danimarca hanno ripristinato il controllo alle frontiere nei giorni scorsi. La Francia lo sta facendo parzialmente, durante queste ore drammatiche. Così come il Belgio, dove sono stati eseguiti degli arresti collegati al massacro di Parigi. Tutte le intelligence hanno fallito. Nessuno ha saputo prevenire l’attacco. Ecco perché la storia di quel passaporto potrebbe cambiare davvero per sempre la storia d’Europa.
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NICCOLO’ ZANCAN, LA STAMPA 15/11 –
Quella che si è rifugiata sul tetto del Bataclan è una ragazza italiana, si chiama Laura Apolloni ed è viva: «Ero vicina al palco. Questa è stata la mia fortuna. Quando hanno incominciato a sparare, sono scappata subito dietro le quinte, poi sono salita in alto e sono rimasta in silenzio, rannicchiata nel buio, a pregare». Anche il francese Thomas Dinh, un ragazzo di Parigi, programmatore all’Ibm, si è salvato per lo stesso motivo: «Gli Eagles of Death Metal stavano suonando la mia canzone preferita. Volevo sentirla bene, allora sono andato sotto il palco». Piccole scelte e casualità hanno deciso della vita e della morte.
Colpiti alle spalle
Erano le 21.49 di venerdì 13 novembre 2015. Gli attentatori erano appena entrati nel locale, come se fossero gli ultimi due spettatori del concerto. Erano vestiti di nero. Il telefonino della fidanzata del cantante li ha inquadrati. Il gruppo suonava, la gente ballava, lei riprendeva defilata. Hanno indossato dei passamontagna, prima di iniziare a sparare alla schiena degli spettatori. È in quel momento che la musica, per qualche istante, si è mischiata alle urla.
Il Bataclan non è stato scelto a caso. È un locale storico di Parigi. Qui hanno suonato Jeff Buckley e Patty Smith. È a cinque minuti a piedi da Place de la République, in pieno centro. Assomiglia a una vecchio teatro di legni e velluti, ma senza poltroncine. Sotto c’è la sala concerti con il palco, sopra un bar circolare. Ma oltre ad essere un simbolo del rock, della libertà e quindi di Parigi, è anche un locale legato al mondo ebraico. I vecchi proprietari erano ebrei. Proprio il Bataclan era già stato al centro di minacce di gruppi legati all’islam radicale nel 2008 e nel 2009. E qualcuno, ieri, faceva notare che gli Eagles of Death Metal era reduci da una tournée in Israele.
La «colpa»
«Ci siamo sentiti totalmente vulnerabili», racconta un ragazzo con le scarpe da ginnastica sporche di sangue. Si chiama Cesar Lardon, ha un occhio tumefatto, pallido come un fantasma, è tornato davanti al Bataclan perché si sente in colpa: «Ci siamo buttati a terra mentre sparavano. Sono stati minuti eterni. A un certo punto, i terroristi sono saliti al piano superiore, le raffiche si sono interrotte. Ho deciso di scappare verso l’uscita, alla sinistra del palco. Ma ho dovuto calpestare dei corpi per arrivare in strada. Questo sangue non è mio». E mentre lui scappava fra i cadaveri, due ragazzi, fuori, stavano in bilico sul cornicione. Appesi alla vita con la forza delle braccia.
C’erano 1500 spettatori al Bataclan, 82 non sono tornati a casa. Non erano neppure feriti in ospedale. L’angoscia diventava insopportabile di fronte alla sede della Medicina Legale in Quai de la Rapée, lungo la Senna. Una villa piena di cadaveri fra gli alberi quasi spogli, le foglie gialle sul selciato. «Mi hanno detto di lasciare la foto della mia amica Alice», dice adesso un ragazzo in lacrime. «Hanno controllato il nome, ma non era nell’elenco. L’ho ripetuto tre volte per essere sicuro. Abbiamo cercato anche la data di nascita. Niente. Ero sollevato. Ma mi hanno spiegato che è un elenco incompleto. Molti cadaveri non sono ancora stati identificati. Hanno portato qui tutte le vittime del massacro». Ecco perché, alle sei di sera, non si conoscevano ancora i nomi dei morti. Vedevi genitori abbracciarsi nel freddo, mentre camionette dell’esercito attraversavano le strade deserte del centro. E dopo il clangore pesante dei motori, restava solo un silenzio terribile.
La memoria sull’asfalto
Non ti potevi avvicinare al Bataclan. Tutte le strade erano bloccate dalla polizia. Ma bastava camminare per le vie laterali, come Rue San Sebastian, per rendersi conto. Le strisce di sangue erano quelle dei corpi trascinati via a forza per le braccia. Erano amici che provavano a salvarsi. Erano lacci emostatici lasciati in terra dai soccorritori. Le impronte dei passi avevano marchiato i marciapiedi. Molti negozi erano chiusi. Ma non era ancora il lutto, era qualcosa di diverso. Come se tutta Parigi trattenesse il respiro, colpita al cuore. I ragazzi e le ragazze reduci dal Bataclan si scambiavano messaggi su Facebook. Proprio Thomas Dinh, che si era salvato per amore di una canzone, scriveva: «Il sole sta sorgendo. Comincia un nuovo giorno. Che possa essere con amore, per favore non con odio». Poi è arrivato un uomo trascinandosi dietro un pianoforte con le rotelle. Si è avvicinato il più possibile alla sala concerti, così famosa. E si è messo a suonare una canzone di John Lennon. E anche se non cantava, tutti conoscevano a memoria quelle parole: «Imagine there’s no countries /It isn’t hard to do/ Nothing to kill or die for / And no religion too». Un poliziotto piangeva con gli occhi puntati sulla strada. Era davvero difficile immaginare la pace a Parigi.
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LA STAMPA 15/11 –
Non è nella lista delle vittime, ma non è nemmeno nella lista dei feriti. Dalle 21,30 di venerdì sera, da quando è esploso il primo colpo al Bataclan, si sono perse le tracce di una giovane italiana, la veneziana Valeria Solesin, 28 anni, dottoranda all’Università Paris 1/a ed esperta in welfare e diritto femminile.
Era nella sala concerti con il fidanzato e alcuni amici. Nel panico seguito ai primi spari, con centinaia di persone in fuga, i due si sono persi di vista e di Valeria non si sarebbe saputo più nulla. «Non abbiamo nessuna notizia, sappiamo che non è nella lista dei deceduti, è un piccolo conforto - dice la mamma Luciana Milani -. Speriamo sia tra i feriti, ma la Farnesina ci dice che gli ospedali parigini sono blindati ed è difficile accedere alle informazioni». È invece in salvo il fidanzato di Valeria, Andrea Ravagni, che si trovava al concerto, con la ragazza, con sua sorella Chiara e il fidanzato di quest’ultima, Stefano Peretti, di Verona.
Intanto le ore a casa di Valeria, a Cannaregio, passano lente, mentre i famigliari aspettano aggiornamenti che non arrivano. La studentessa è «irreperibile», priva di documenti e probabilmente non è in grado di comunicare o farsi identificare. Lo spiega l’amica che ha dato notizia della scomparsa sui social media: «Sappiamo che era con un gruppo di conoscenti e stava entrando a teatro quando è iniziato l’assalto. Proprio in questa fase sarebbe stata separata dal gruppo perdendo la borsa con cellulare e documenti che è stata raccolta da una sua amica; poi il nulla. Spero che presto possa avere un filo di voce per far sapere chi è e far avvisare i suoi genitori: siamo in ansia e in attesa».