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 2015  novembre 13 Venerdì calendario

«Tutti hanno un amante in Italia». Parola dell’intercettatrice, colei che di mestiere vive le vite altrui

«Tutti hanno un amante in Italia». Parola dell’intercettatrice, colei che di mestiere vive le vite altrui. Alessandra Monasta racconta i suoi giorni e le sue notti passate ad ascoltare gli italiani, tra noiosi reati finaziari e interessanti conversazioni tra vip, a caccia di verità nascoste– Per entrare nelle vite degli altri bisogna spogliarsi della propria, dice lei. Rinunciarvi. Appenderla come un abito nell’armadio e dimenticarsela, aspettando di poterla indossare nuovamente un giorno, se nel frattempo non è passata di moda. Il prezzo è molto alto per diventare d’incanto uno dei due animali che ogni uomo sogna istintivamente di essere: un uccello per volare, d’accordo, e l’altro è la pulce, per ascoltare tutto senza essere visti e così capire e carpire, sapere, insinuarsi invisibile come un virus nelle vene della vera verità nascosta di ogni essere umano, conoscere di ciascuno il suo lato oscuro. Irresistibile. A parziale ricompensa delle rinunce, poi, a un certo punto puoi scrivere un libro, come ha fatto Alessandra Monasta, fiorentina di 45 anni, perito fonico e cioè addetta a intercettare, trascrivere e stendere relazioni su incarico di un giudice o di un avvocato. Figlia di un pedagogista e una professoressa d’italiano, Alessandra ha iniziato a «spiare» da studentessa universitaria, nel ’90. Suonava il pianoforte, aveva frequentato lo scientifico, era iscritta a Legge e il caso volle che facesse la babysitter per un importante magistrato. Lui la studiò a lungo e poi le propose questo lavoro, valutando che ne avesse le attitudini: pratica di computer e programmi audio, cosa non scontata un quarto di secolo fa, creativa, curiosa, responsabile, affidabile, attenta alle pieghe dell’animo umano. E così Monasta divenne una «cacciatrice di bugie», come la definì un suo intercettato in tribunale, e come ha deciso di intitolare il suo romanzo ben poco romanzato per raccontare che vita fa (o non fa) l’orecchio della giustizia. «Fa una vita solitaria. Asociale. Ho vissuto tanto da sola, specie dai 21 ai 30 anni, senza poter condividere niente, mangiando grissini con le cuffie incollate alla testa per ore e ore, giorni e giorni, notti e notti, weekend e vacanze. Mentre i tuoi coetanei vanno in vacanza, si fidanzano, escono, vanno a ballare. E in questa solitudine tu invece inizi a viaggiare con la fantasia e costruirti un film sonoro in testa, dando un corpo e una scenografia alle parole che senti. Sono stata 25 anni nell’ombra. Ne sto uscendo ora, non accetto tutti i casi ma solo i più importanti, ho un fidanzato, ma ormai per una famiglia è tardi». Quanto è difficile non rivelare a nessuno, neanche ai propri cari, notizie su casi che sono sulla bocca di tutti. «È una vera impresa contro natura. Ha idea di cosa significhi non poter parlare del tuo lavoro con le tue amiche? Qualche conoscente ha scoperto solo ora cosa faccio. Ogni tanto agli estranei lo dico per tenerli distanza: quando capiscono che non sto scherzando, incute timore». E come si riesce a mordersi la lingua? «È inebriante la sensazione di essere dentro alla Storia, quando lavori a casi epocali come le stragi di mafia o Tangentopoli, oppure molto mediatici come Erba, Vallettopoli, il mostro di Firenze o Calciopoli, e vedere quello che gli altri non sanno. Ma si impiega una vita per essere rispettata e due nanosecondi per essere fatta fuori. Il senso di responsabilità deve vincere e per me è come il morbillo: quando ti affidano un caso, entri in quarantena ed esci dal mondo». Le intercettazioni più divertenti? «I reati finanziari sono noiosissimi. Quelli che invece riguardano le persone famose sono più interessanti. A volte noti in questi presunti vip il senso di onnipotenza e la totale assenza di senso di colpa e di rispetto. C’è chi sa di poter fare del male e lo fa coscientemente». Stupisce quanto straparli chi sa benissimo di poter essere intercettato... «Dopo dieci minuti nessuno si ricorda più di essere ascoltato o ascoltabile. E parla, chiacchiera, straparla. Spesso rovinandosi con le proprie mani nelle prime ore, appena circolata la notizia del proprio coinvolgimento. È assurdo ma è così». C’è un modo per non essere beccati? «Il pizzino è l’unica salvezza». Cosa ne pensa dei bavagli alle intercettazioni e alla loro diffusione? «Tutto ciò che è personale e non inerente al caso, non lo trascrivo nemmeno. Ah, che si sappia: tutti hanno un amante in Italia. Quanto alle anticipazioni e alle fughe di notizie, sono dannosissime: bloccano il lavoro nella fase calda, alterano i comportamenti. I cosiddetti processi mediatici, in cui si dà più importanza all’interpretazione che non ai fatti, influenzano gli intercettati. In altri casi, la registrazione della chiamata al pronto soccorso o al 113 da parte dell’assassino, quando nessuno sa ancora niente, è una testimonianza dalla quale non puoi tornare indietro. Una volta che ti sei tradito, non c’è avvocato che tenga». Come si vive con la sensazione di poter essere spiata e controllata da 25 anni? «Bene, mi dà sicurezza. Io vivo da sola e l’idea che qualcuno vegli su di me mi tranquillizza. Sto molto attenta alla mia immagine, anche sui social. È un attimo finire in un casino e non uscirne più». Quante cantonate ha preso, facendosi un’idea poi smentita dalla sentenza? «La mia idea di solito trova sempre conferma. Io non giudico mai: è la base dell’empatia. Bisogna partire dal presupposto che non siamo solo una cosa o buona cattiva. Senza questo approccio sarei come un chirurgo che deve operare a cuore aperto ma gli fa impressione il sangue. I comportamenti, il profilo umano degli intercettati che ho ricostruito senza conoscerne il volto corrisponde sempre, quando me li ritrovo davanti in aula». La odiano? «No, anzi. È successo che mi abbiano chiesto pareri o consigli, una volta scoperto che nessuno al mondo li conosce meglio di me. È come se fossero stati in analisi a loro insaputa per mesi e possano finalmente sentire il parere dell’analista». In fondo è anche psicologa. «Dal 2011 faccio la counselor, psicoterapia in ambito sportivo. Ma sono un tecnico, non una psicologa: so riconoscere e decodificare i comporta menti dal tono della voce, dai tic, dalle balbuzie, capire quando e se qualcuno mente, individuare lo stato d’animo». Come ti cambia questo mestiere? «È bellissimo entrare nelle vite altrui. Ma se ne esce ingombrati. Specie una donna, che è più disposta ad accogliere emozioni. Quel che non si sa e che racconto nel romanzo è l’atteggiamento protettivo che si ha nei confronti dell’intercettato, specie se tirato dentro suo malgrado. Il reato, se escludiamo le organizzazioni criminali, di solito rappresenta solo un episodio. A volte pensi che anche tu potresti ritrovarti nella stessa situazione». Come ha inciso tutto questo sulla sia vita sentimentale? «Il lavoro mi ha resa più attenta e meno intollerante, più portata ad accettare e rispettare la figura maschile. Gli uomini sì, sono bugiardissimi. Ma è anche colpa delle donne. Ne ho sentite certe...». L’umanità spiata è ancora peggio di come sembra? «No, è migliore. Non siamo autentici, non instauriamo mai relazioni vere. Eppure senza queste maschere saremmo più leggeri e potremmo anche essere aiutati».