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 2015  novembre 12 Giovedì calendario

PRESTA E RADDOPPIA

Lucio Presta, l’uomo più potente della nostra televisione, l’agente di tutto lo star system italiano a cominciare da Roberto Benigni e Adriano Celentano, ha solo una debolezza: è scaramantico e odia il verde. Quando l’incauta cronista varca la soglia del suo ufficio, nel quartiere di Prati a Roma e a due passi dalla Rai, interamente vestita di verde, calze comprese, l’uomo, che dice di aver visto cose «che voi umani non potete nemmeno immaginare» sussulta, ma regge botta. È duro, Presta: da molti odiato, sa tenere le distanze, non ama parlare. Eppure per suo figlio Niccolò, 23 anni, barba da hipster e occhi azzurri, è disposto a mettere a confronto il suo mondo con quello del figlio, che dal 2012 lavora al suo fianco e ha aperto una web agency, la Contessi, come il cognome di sua madre Emanuela, scomparsa prematuramente, piattaforma sul web per trovare nuovi talenti, uno scouting digitale. Per suo figlio è pronto al sacrificio supremo: anche a passare un’ora seduto accanto a una persona tutta vestita di verde. «Quando cominci ad avere più anni del tuo calciatore preferito capisci che è iniziata la discesa e allora largo ai giovani. Hanno negli occhi quella luce, che riconosci, perché l’hai avuta anche tu». La sua generazione, quella dei cinquantenni, dice largo ai giovani, ma non si sposta di un millimetro. Lei è sempre qui: a che ora si presenta in ufficio? E Niccolò?
Lucio Presta. Alle 7,50 al massimo. Prima di arrivare faccio dieci, 12 chilometri di corsa. Esco alle 5,30: è ancora notte. Sono le ore più belle della giornata, non suona il telefono, ti senti il padrone del tuo tempo, della città. Non ci rinuncio mai, in nessuna parte del mondo mi trovi.
Niccolò. Per me il risveglio mattutino è un disastro. Io lavoro fino a tardi, alle 3 sono ancora al computer. E in ufficio arrivo alle 10. Lucio. Veramente prima delle 10,30 non si è mai presentato. Se arriva presto passa a salutarmi, se no scivola nel suo ufficio, pensando che io non sappia a che ora è arrivato. Come è stata la gavetta?
Lucio. Ho iniziato quasi quarant’anni fa. Era il 1978, allora facevo il ballerino. Poi Heather Parisi, una grandissima artista, mi chiese di accompagnarla come road manager per una sua tournée. Aveva lasciato Vincenzo Ratti, il suo storico agente. Decisi di partire e appendere le scarpette al chiodo: non ho mai più ballato, con grande gioia della danza, ma sapevo che non sarei mai diventato grande. Quando Heather mi affidò la sua vita, ero cosciente dei miei limiti. Così mi presentai da Ratti chiedendogli di lavorare insieme: tu ci metti l’esperienza, io le gambe. Lui accettò e poi mi chiese di restare. Così siamo diventati soci.
Niccolò. Io non ho fatto la gavetta, sono figlio d’arte. Ho mangiato pane e televisione fin da bambino e difficilmente avrei fatto un altro lavoro. A 16 anni a Firenze durante la prima tournée di Benigni mi sono seduto in piazza Santa Croce a guardarlo e lì ho capito cosa volevo fare: trovare un talento come il suo. Forse è impossibile, forse era presuntuoso, ma io non mollo mai.
Lucio. Che lui fosse predestinato, me ne sono accorto quando aveva 12 anni: provavamo uno spettacolo di Massimo Ranieri in un caldo torrido e mi accorgo che manca l’acqua. Mando i miei assistenti a cercarla e dopo un po’ di tempo vedo Niccolò, a cui non avevo detto nulla, tornare trascinando una cassa più grande di lui. Capii che forse ce l’avrebbe fatta.
Come era la tv dei suoi inizi e come è invece il web dove si muove Niccolò? Lucio. La tv degli anni Ottanta era bellissima. Ho lavorato con i grandi direttori della fotografia, i migliori scenografi, costumisti, cameramen. C’erano possibilità illimitate e non c’erano scorciatoie. Doveva far sognare: un balletto si provava anche per dieci giorni, le coreografie costavano anche 400 milioni di lire. Fu un momento di splendore. Poi dagli anni Novanta il mercato si è involuto. Abbiamo prodotto una televisione moderna, ma fatta di modelli, non di esempi. Come al Grande Fratello: quello fu un luogo dove uscirono modelli, e neanche tanto straordinari. Solo una quota ridicola di quanti sono passati da lì hanno raggiunto la fama. E quelli che sono arrivati, ce l’avrebbero fatta lo stesso, anche senza il reality.
Niccolò. Ho scelto il web perché ho fatto i conti con la mia generazione. Venendo dal mondo «analogico», dagli anni passati accanto a mio padre, ero avvantaggiato nel capire le nuove dinamiche: chi cresce e poi crolla, chi invece resta in sella. Il mondo digitale ha altre regole, decide il web stesso, chi naviga è giudice, può creare un talento come lasciarlo svanire.
Nella selva dei youtubers basta fare una scemenza per diventare star. Come riesce a selezionare nuovi talenti e come si trovavano prima? Lucio. Io sono cresciuto insieme con i miei artisti. Per riconoscerli ci vuole una forma d’istinto, il mio talento è vedere un po’ più in là. Quando incontrai Paolo Bonolis, da subito mi affascinò la sua capacità di rendere interessante anche qualcosa che non c’era. Gli artisti sono animali strani: hanno un grande fiuto per chi li sa guidare e mettono nelle tue mani la loro vita professionale.
Niccolò. In continuazione arriva materiale: giovani che vogliono cantare, recitare. Non cerco il talento da sfruttare, guardo oltre, alla qualità e non alla quantità.
È più facile arrivare oggi che una volta?
Lucio. Oggi, come ieri, chi ha davvero qualcosa da dire emerge. Niccolò. Forse oggi è meno difficile di prima arrivare al successo. Ma l’impresa è restare a galla. Come appari, velocemente puoi sparire.
Netflix è sbarcato in Italia e ora anche la Rai studia un progetto per offrire contenuti in rete. Cosa ne pensate? Lucio. Io sono basico, quando devo uscire da My Sky per vedere una partita, faccio un semplice gesto. Passo il telecomando a Paola (Perego, sua moglie, ndr), sono come un bambino di tre anni, ma non un bambino di oggi che tecnologicamente è più avanti di me. Niccolò. Il futuro sarà tutto on demand, i programmi verranno scelti da chi guarda, si faranno palinsesti personalizzati, la nuova tv verrà modellata su misura di chi la guarda. Sarà così, in parte del mondo è già così. Ma i giovani guardano ancora la televisione? Niccolò. La guardano in pochi. Lucio. Non è vero, la guardano in maniera diversa, nei tempi che decidono loro, si fanno il mytime, si riguardano le cose che interessano su youTube. Quali? Lucio. I grandi eventi, come i dieci comandamenti di Benigni, solo quelli aggregano ancora. Niccolò. Sono d’accordo, anche se credo che oggi la tv abbia perso molto del suo spirito pioneristico. Lucio. Sì, con la scusa dei soldi che non ci sono più, ed è una scusa, si riducono gli spazi per programmi come era una volta Indietro tutta. Abbiamo palinsesti di almeno dieci anni, sia in Rai Mediaset. Come è la concorrenza sul web e come era prima? Niccolò. Tanti si improvvisano agenti sul web. È un territorio selvaggio e sarà sempre peggio. Lucio. Io ce l’avevo, la concorrenza, poi si sono suicidati, quasi tutti. Hanno scelto loro di morire, mica è colpa mia. Lei ce l’ha fatta. Oggi cosa augura a suo figlio e cosa suo figlio le augura?
Lucio. Di continuare ad avere un sogno da inseguire. Niccolò. Che mio padre realizzi quello che è il suo desiderio da tempo. Cosa vorrebbe? Lucio. Da anni coltivo un sogno per la mia città, Cosenza. Voglio candidarmi a sindaco nell’aprile del prossimo anno. Sono andato via da bambino e ora voglio tornare. Cosenza è il mio nuovo talento da curare. Una candidatura e basta, poi torno al mio lavoro.
Lei ha scritto un’autobiografia. Perché un uomo così riservato ha sentito il bisogno di raccontarsi? Lucio. L’ho fatto per i miei figli Niccolò e Beatrice, volevo che sapessero chi era quel ragazzo nato con la camicia. Si intitolerà così, Nato con la camicia, perché mia madre dandomi alla luce è riuscita solo a infilarmi una camicina e poi è morta. E io l’ho persa senza conoscerla, sono stato cresciuto dai miei nonni e da mia zia, che poi è diventata mia madre. Da quella perdita è nata la mia forza, ma anche la mia fragilità. Niccolò. Ho letto il libro in treno mentre andavo a Milano e ho pianto per tutto il viaggio. Nel suo dolore ho ritrovato il mio, quando dieci anni fa ho perso mia madre. Lui mi ha aiutato a capire, mi è stato accanto, senza invadere mai i miei spazi, prendendomi per mano quando sbagliavo. È stato dolce. Presta dissimula la commozione, si riprende subito e ritorna chiuso nel suo abito scuro, si alza e dice: «Vado in Rai, che qui sono ancora io che devo lavorare». Sorride a Niccolò, e scivola via.