Sulas, Oggi e Luca Telese Libero, 11 novembre 2015
001CCCSulas Oggi 11/11/2015 (n.47) Ci risiamo. Dopo aver consumato tutto il materiale genetico lasciato da Ignoto 1 sugli slip di Yara, pregiudicando la possibilità di ripetere altre analisi e quindi, se si rendesse necessario, una eventuale «superperizia», anche la seconda traccia, quella scoperta sul polsino destro del giaccone di Yara con il Dna di Silvia Brena, una delle istruttrici di ginnastica della palestra di Brembate, è andata distrutta
001CCC
Sulas Oggi 11/11/2015 (n.47) Ci risiamo. Dopo aver consumato tutto il materiale genetico lasciato da Ignoto 1 sugli slip di Yara, pregiudicando la possibilità di ripetere altre analisi e quindi, se si rendesse necessario, una eventuale «superperizia», anche la seconda traccia, quella scoperta sul polsino destro del giaccone di Yara con il Dna di Silvia Brena, una delle istruttrici di ginnastica della palestra di Brembate, è andata distrutta. Non è più possibile analizzarla per sapere con certezza da quale materiale biologico provenga. Gli interrogativi sul dna «Dubbi sulla saliva, positiva al sangue. Era una traccia, per quanto circoscritta, di un materiale corposo che conteneva sangue». Il capitano Nicola Staiti, uno degli ufficiali del Ris di Parma che ha firmato il testo delle analisi scientifiche sul corpo e sugli indumenti di Yara, ha ammesso con fatica che: «L’approfondimento decisivo sulla traccia lasciata da Silvia Brena non è stato possibile perché per risalire al Dna sono state distrutte le proteine». Come dire, o stabilivamo chi l’aveva lasciata oppure da quale fluido biologico provenisse. «Ma», ha rivelato, «analisi indicative sono state fatte in quattro parti del giubbotto vicine alla traccia più importante (quindi ce n’erano altre, ndr), dove avevamo notato degli aloni che ci hanno spinto ad approfondire. E in quei punti abbiamo scoperto la positività al sangue. Non ci sono dubbi: o è sangue o contiene anche sangue». Al di là di questo accertamento i carabinieri del Ris non sono andati. Eppure, a quanto risulta, due sole persone hanno lasciato sul corpo di Yara tracce ematiche. Massimo Bossetti e Silvia Brena, giovane e avvenente istruttrice di ginnastica ritmica nella palestra di Brembate Sopra che Yara frequentava. i troppi «non ricordo» Il primo è in carcere da un anno e mezzo ed è l’unico imputato per omicidio. La seconda invece è stata «attenzionata» (in pratica hanno messo sotto controllo il suo telefono e quelli del fratello e del padre) per un mese e poi è uscita di scena. Nessun sospetto sul suo conto. «Questa Corte d’Assise sta celebrando il processo nei confronti di Massimo Bossetti. Non si cercano piste alternative», ha detto il presidente Antonella Bertoja. Sono d’accordo anche i difensori di Bossetti, ma le piste alternative loro le stanno cercando, a maggior ragione dopo che il Ris ha detto che Silvia Brena avrebbe lasciato del sangue sul giaccone di Yara. Una traccia di un liquido biologico corposo, pieno di proteine che hanno resistito per tre mesi a pioggia, neve e vento nel campo di Chignolo. E non escludono, i difensori di Bossetti, di chiedere che la Brena un giorno torni in aula a fornire qualche spiegazione non solo sui suoi dieci «non ricordo» scanditi quando è comparsa come testimone, ma anche e soprattutto per spiegare come mai il suo Dna contenente sangue sia rimasto impresso sul polsino destro del giaccone della vittima. Una traccia importante, se il suo picco ha raggiunto gli 8 nanogrammi mentre il Dna di Bossetti sugli slip supera di poco un solo nanogrammo. Dovranno tornare in aula anche gli ufficiali del Ris a spiegare quante volte hanno ripetuto l’esame del Dna di «Ignoto 1» e quali kit (ossia i reagenti) abbiano usato per estrarlo. Dopo aver detto e spiegato infatti che il Dna lasciato da Bossetti «è perfetto» e non lascia spazio a dubbi («Anche se», ha detto il capitano Staiti, «in base alla mia lunga esperienza sulle violenze sessuali, non mi era mai capitato di trovare un Dna senza sperma negli slip di una donna»), sono andati in grave difficoltà quando hanno dovuto spiegare come è stato ottenuto quel risultato. «Quante amplificazioni del Dna avete fatto? Quali kit avete usato?», hanno chiesto i difensori di Bossetti. «Queste domande richiedono un enorme sforzo mnemonico. Adesso non siamo in grado di ricordare», è stata la risposta dei due ufficiali. In realtà la risposta a queste domande gli avvocati la conoscono già perché Marzio Capra, il loro consulente scientifico, ha esaminato i cosiddetti «dati grezzi», cioè la brutta copia degli esami fatti nei laboratori del Ris. Tanto è vero che l’avvocato Camporini si è permesso una battuta: «Noi lo sappiamo. Aspettiamo le vostre risposte che saranno sorprendenti…». Il presidente della Corte infatti ha concesso una settimana di tempo ai difensori di Bossetti per formulare per iscritto le domande e agli ufficiali del Ris un tempo ragionevole per dare le risposte. Giangavino Sulas *** BOX CAMIONCINO Se Yara non è stata rapita, non è stata trascinata con forza su un automezzo e, come sostiene il Pm Letizia Ruggeri, è salita volontariamente perché conosceva chi si è offerto di accompagnarla a casa, chi può essere quest’uomo al quale ha dato tanta fiducia? Oltre a quello di Massimo Bossetti, c’è un nome che è comparso marginalmente nelle indagini. A Brembate è sulla bocca di molti. E basta dare un’occhiata più attenta ai filmati delle telecamere di sicurezza distribuiti a giornali e televisioni dai carabinieri per notare che nelle stesse ore in cui hanno inquadrato il camioncino di Bossetti si scorge un furgone che incrocia quello del muratore di Mapello facendo lo stesso percorso attorno alla palestra. Gli avvocati di Bossetti stanno lavorando anche intorno a queste immagini, con indagini difensive per ora segretissime. Il pool di consulenti avrebbe individuato il colore del furgone e anche le scritte pubblicitarie sulle fiancate che aveva nel 2010 (adesso sono cambiate). L’uomo messo nel mirino dalla difesa di Bossetti doveva ispirare cieca fiducia a Yara. Perché? Per il lavoro che faceva, per il luogo dove lavorava e per il furgone di cui poteva disporre. Vivrebbe a poca distanza dalla palestra, spesso si lascerebbe andare ad apprezzamenti sconci verso le ragazze e pare si fosse invaghito di una donna molto vicina a Yara. In realtà l’uomo, sentito dagli inquirenti, ha dimostrato di avere un alibi ed è subito uscito dalle indagini. Ma il suo Dna è stato confrontato con quello emerso dai peli e capelli trovati sul corpo di Yara rimasto finora di un ignoto? È stato analizzato il furgone che guidava fra le 18.30 e le 19.35 del 26 novembre 2010, quando un testimone lo ha visto tornare a casa? È stata perquisita la sua abitazione? Conosce Bossetti? Ha facilmente accesso alla palestra? Forse c’è stato un buco nelle indagini, perché i Carabinieri, concentrati sul camioncino di Bossetti, hanno ammesso di aver trascurato tutti gli altri automezzi che appaiono nei video. Il colonnello Giampietro Lago, davanti alla Corte, ha detto che dai filmati realizzati da quattro telecamere su cinque è impossibile stabilire che il cassonato inquadrato sia quello di Bossetti. Tanto è vero che dopo averli esaminati e riesaminati li hanno scartati. E il Pm Letizia Ruggeri si è affrettata dire che non sono stati inseriti nel fascicolo processuale. Ma hanno accertato a chi appartengono tutti gli altri veicoli? L’hanno fatto i consulenti della difesa e pare siano imminenti sorprese clamorose. Il camion di Bossetti infatti appare chiaramente solo nel video della telecamera della Polynt 2 quando passa e ripassa nel giro di 40 secondi. Ma i video scartati, ha rivelato sempre il colonnello, sono stati distribuiti alle televisioni per «esigenze di informazione». La polemica è scoppiata su questo: quali esigenze di informazione? Perché con quei video, reali ma non utilizzabili per l’inchiesta, si è costruito un collage per creare una tesi molto suggestiva. Qualunque telecamera lo inquadrasse, su quel camionicino c’era sempre Bossetti. Ma quei video sono «illeggibili» e quindi non sono in grado di dimostrarlo. Così però è stata condizionata l’opinione pubblica. E probabilmente anche la giuria popolare. G.S. *** Sulas, Oggi 4/11/2015 (n.46) Bergamo, novembre L’incantesimo si è rotto. La dura realtà del processo ha sostituito la fantasia delle indagini. Il presunto predatore (Massimo Bossetti) che, col suo camioncino, girava come un indemoniato dalle 6 alle 7 della sera del 26 novembre 2010 attorno alla palestra per braccare la preda (Yara Gambirasio) non è mai esistito. I filmati che per un anno ci hanno mostrato su tutti i canali televisivi un profluvio di immagini con un camioncino bianco che andava e veniva davanti al Centro sportivo sono inservibili. Sono finiti nel cestino della carta straccia, perché la pessima qualità non consente alcun riconoscimento. Non lo ha detto uno che passava per caso davanti al Tribunale di Bergamo. L’ha ammesso, in un’aula di Corte d’Assise, nel tardo pomeriggio di venerdi 30 ottobre, il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma. E il Pm Letizia Ruggeri, che sostiene l’accusa contro Bossetti, è stata costretta a una secca marcia indietro: «Quei video non sono nella relazione del Ris che abbiamo consegnato e non sono nel fascicolo processuale». «Se non sono nel fascicolo non ci interessano minimamente», ha “sentenziato” il Presidente della Corte Antonella Bertoja. Così, in questo processo che promette tanti altri colpi di scena da qui a Pasqua 2016, quando è prevista la sentenza, la figura del predatore si è dissolta come un incantesimo. Ci hanno raccontato una favola. i cronisti protestano Perfino i giornalisti si sono infuriati: «Per quale motivo è stato confezionato un video a solo uso di stampa e tv? Forse per influenzare l’opinione pubblica?», chiede Cesare Giuzzi del Gruppo cronisti lombardi in una lettera aperta al Procuratore capo di Bergamo. Quei filmati non erano considerati fino all’altro giorno il secondo pilastro dell’Accusa (dopo il Dna) per portare Massimo Bossetti a una sicura condanna? Non ci hanno spiegato per un anno su tutte le emittenti televisive che non c’erano dubbi, che Bossetti aveva cominciato alle 18.01 a girovagare per le strade attorno al Centro sportivo (telecamere del distributore Shell), che era ricomparso alle 18.12 (telecamere di una banca) per proseguire con i video della ditta DG Mori e poi con le due telecamere della ditta Polynt e infine alle 18.51, di ritorno dal campo di Chignolo dove aveva abbandonato agonizzante la povera Yara, ancora sotto le telecamere della Shell? Eppure il colonnello, senza accorgersi, un’ora prima l’aveva predetto: «Non parlo mai in termini di certezza perché chi, nella scienza, dice “sono certo” fa dubitare del suo rigore scientifico». Altro che rigore scientifico. Ci hanno propinato come buoni dei filmati manipolati. L’ha riferito alla Corte il comandante del Ris: «Non li abbiamo realizzati noi. Li abbiamo ricevuti dai colleghi di Bergamo e ci siamo limitati a cercare di migliorarne la qualità». In un’aula di Corte d’Assise sfiancata da otto ore di dotte disquisizioni tecnico-scientifiche dell’inarrestabile colonnello Lago, posto davanti alle immagini dei numerosi filmati, l’ufficiale dei Carabinieri ha mormorato con un filo di voce: «Questi video li abbiamo scartati perché non consentono di identificare l’automezzo dell’imputato. L’unico filmato che ci mostra il camioncino su entrambe le fiancate è quello della telecamera della Polynt 2, un’azienda a fianco della palestra». Quindi Bossetti è transitato una sola volta alle 18.35 in via Caduti dell’Aeronautica, ha dovuto fare inversione di marcia, come ha sempre sostenuto, quando ha trovato chiusa per lavori la strada dietro la palestra ed è tornato in via Locatelli, davanti al Centro sportivo, per fermarsi all’edicola a comprare le figurine per i figli. «E tutti i filmati che oggi lei dichiara inutilizzabili, come mai li avete resi pubblici e distribuiti alle Tv?», gli hanno chiesto i difensori di Bossetti. «Per fare informazione. D’accordo con la Procura, di fronte alle pressanti richieste di chiarimenti abbiamo deciso di renderli pubblici», è stata la disarmante risposta. Informazione o disinformazione per condizionare l’opinione pubblica? Nessuno ha osato chiederlo. «È in gioco la vita di un uomo e ci si preoccupa dell’opinione pubblica. Avete esaminato i video di tutte le telecamere della zona?», ha chiesto il collegio difensivo di Bossetti. «Conosco solo i video di cinque telecamere», ha ammesso il colonnello. La battaglia in aula sui video del camioncino di Bossetti non è comunque finita. È probabile che il colonnello sia costretto a tornare davanti alla Corte per la quarta volta quanto meno a spiegare come mai tutti gli altri furgoni transitati sotto le telecamere quella sera non siano stati esaminati e non sia stato identificato il proprietario o chi era alla guida. E come mai non siano stati esaminati i due furgoni in dotazione alla palestra, uno bianco e uno azzurro. Eppure chi li guidava era noto anche agli inquirenti per gli apprezzamenti che faceva alle ragazze che frequentavano il centro sportivo. i vestiti mai esaminati Nelle ore precedenti, Giampietro Lago aveva reso noto che sugli indumenti, in particolare i leggings di Yara, sono state scoperte centinaia di migliaia di microsfere contenenti ferro, cromo, manganese e vanadio. Materiale che proviene dal mondo della metallurgia e dell’edilizia. Alcune di queste microsfere sono state trovate sul terreno del campo di Chignolo, sotto il corpo di Yara. Segno evidente, secondo l’ufficiale, che le aveva lasciate la povera ragazza. E le stesse microsfere erano presenti sui sedili dell’automezzo di Bossetti. Il colonnello ha riferito che a quel punto hanno fatto un lavoro sperimentale. Hanno esaminato gli abiti di quattro ragazzi, figli di Carabinieri di Parma. Non avevano microsfere. Hanno ripetuto la prova su due tornitori e due fabbri, sempre di Parma. E hanno trovato le stesse microsfere. È la prova che Yara è salita sul camioncino di Bossetti? «No, l’osservazione di queste microsfere supporta un’ipotesi, ma non è un lavoro statistico attendibile, solo una valutazione di buon senso», ha detto il colonnello. Ma, gli è stato chiesto, avete esaminato gli indumenti dei familiari di Yara? Fulvio Gambirasio passa le sue giornate nei cantieri edili per lavoro, avete esaminato le auto della famiglia Gambirasio? Magari quelle microsfere era presenti anche lì. «Non lo abbiamo ritenuto opportuno. In casa della vittima e sulle auto dei Gambirasio non abbiamo fatto prelievi», ha risposto. «Nessuno ha controllato se quelle particelle metalliche erano anche sul corpo nudo di Yara», hanno fatto notare i difensori di Bossetti. Che poi hanno chiesto: «Avete comparato le fibre scoperte sulle ferite di Yara con le 29 trovate sugli abiti?». «Mai comparate», ha risposto ancora il comandante del Ris. «Avete controllato se le stesse fibre erano presenti sull’autobus che Yara prendeva per andare a scuola?», ha incalzato la difesa. «Avevamo tantissimo lavoro», ha risposto Lago. «Non aveva senso fare questo esame. Abbiamo esaminato solo le fibre del camioncino dell’imputato e anche queste non ci hanno dato certezze. Ma tutti i parametri hanno portato alla compatibilità, anche se non abbiamo elementi per dire quanto sono compatibili». Giangavino Sulas *** Sulas, Oggi 28/10/2015 (n.45) Mentre si dibatte in Corte d’Assise per ricostruire il mistero della morte di Yara, emergono alcuni interrogativi che riguardano le indagini. Uno su tutti: la sera in cui Yara scomparve, qualcuno la cercò? Ovvero: che cosa accadde nella notte fra venerdi 26 novembre 2010 e sabato? Quando iniziarono le ricerche? Come furono organizzate? I medici legali sostengono che la ragazza è morta fra la mezzanotte di venerdì e le prime ore di sabato. E dunque ci si chiede: Yara poteva essere salvata se le ricerche fossero state tempestive? Si è perso tempo nella speranza che lei ricomparisse? Il lavoro di indagine per scoprire il presunto assassino di Yara è stato davvero colossale. Si pensi che sono stati fatti 20 mila prelievi di Dna; sono stati fotografati e analizzati in tutta l’alta Italia 4 mila camioncini Iveco e sono state monitorate per nove mesi 59 milioni di telefonate riferite a 118 mila utenze. Eppure resta nell’aria una domanda carica di angoscia: si può affermare, in coscienza, che la sera del 26 novembre è stato fatto tutto quello che si doveva e si poteva fare per ritorvarla viva? Ecco la ricostruzione di quella notte fatta sulla base delle dichiarazioni rese al processo. Ore 18.42. L’ultimo a vedere Yara viva è stato Fabrizio Francese, il papà di una compagna. È nell’atrio della palestra. Sembra diretta verso l’uscita ma nessuno la vede davvero uscire e nessuno la incrocia nei vialetti del centro sportivo o lungo la strada che porta a casa sua. Non esiste la certezza che abbia lasciato la palestra. Ore 18.44. Yara risponde a un sms dell’amica Martina Dolci e aggancia la cella di via Adamello a Ponte San Pietro che copre anche l’area del centro sportivo (quindi questa non è la prova che lei fosse uscita). Ore 18.49. Yara riceve il suo ultimo messaggino da Martina e aggancia la cella di via Natta a Mapello, cella che copre sia la zona della palestra sia l’abitazione di Massimo Bossetti. Ore 18.55. Per la Vodafone in quel momento il cellulare di Yara si spegne agganciando la cella di via Ruggeri, zona nord di Brembate. Il campo di Chignolo, dove sarà ritrovata tre mesi dopo, è a sud della palestra, in direzione dell’autostrada Bergamo-Milano, ed è coperto da 10 antenne Vodafone. Ore 19.11. Non vedendola tornare a casa, la mamma prova a chiamarla. Ma dopo tre squilli il cellulare della figlia si spegne. La chiamata è rimasta sul tabulato, quindi i tre squilli ci sono stati, mentre Vodafone assicura che il telefono era già spento alle 18.55 ma non sa dire quale cella abbia agganciato alle 19.11. Ore 20.30. Fulvio, il papà di Yara, si presenta ai Carabinieri di Ponte San Pietro: «Mia figlia non è tornata a casa. Ho paura che sia successo qualcosa di brutto», dice al brigadiere Santino Garro, il quale si fa dare il numero di cellulare di Yara, il nome del gestore, e si rivolge al Comando provinciale. «Hanno tentato di localizzare il telefonino di mia figlia», ha raccontato in aula Fulvio Gambirasio, «dicendomi che era forse nella zona di Calusco d’Adda o Cisano Bergamasco. Poi il brigadiere mi ha tranquillizzato: “Non si preoccupi, capita che i ragazzi a questa età si allontanino. Ma poi tornano. Ripassi domattina che facciamo la denuncia”». Il sottufficiale, davanti alla Corte d’Assise, invece ha dichiarato: «Con il numero di Yara interpellai il Nucleo investigativo che disponeva del sistema di geolocalizzazione “Carro” in grado di rilevare in tempo reale se il telefonino è acceso e in quale macroarea geografica si trova. Mi risposero che era acceso e si trovava fra Monza e Novara. Il sistema “Carro”, oggi in disuso, non era molto affidabile. Si trattava di un’informazione poco precisa. Per questo, su mandato del magistrato, ci rivolgemmo alla Vodafone con la procedura del “soccorso pubblico”. La risposta arrivò a mezzanotte e dieci: il cellulare di Yara si era spento alle 18.55 e aveva agganciato la cella di via Ruggeri, a Brembate». per cercare il telefono si usò un sistema inutile «Il sistema “Carro” era uno strumento che, lavorando sulle triangolazioni delle onde radio e sulle antenne, consentiva l’approssimativa localizzazione di un telefonino e quindi della persona che l’aveva con sé», spiega a Oggi Giuseppe Dezzani, ex ufficiale del Genio militare, informatico forense dal 1998 e consulente della difesa di Massimo Bossetti. «Non sempre era affidabile ma spesso ha dato indicazioni utili, tanto che con il “Carro” sono state fatte fior di operazioni anticrimine. Oggi abbiamo dei protocolli precisi. Le Forze dell’ordine che ricevono la segnalazione di una scomparsa si rivolgono direttamente al gestore del cellulare e hanno la risposta in tempo reale. Perché le compagnie telefoniche hanno un ufficio apposito con un tecnico presente 24 ore su 24 che è in grado di stabilire non solo l’antenna ma anche quale dei tre spicchi che la compongono ha agganciato quel telefono e addirittura a quale distanza si trova. In pochi minuti quindi sono in grado di localizzare chi si sta cercando», conclude Dezzani. Nessuno ha chiesto spiegazioni delle discordanti dichiarazioni rese da Gambirasio e il brigadiere Garro a proposito della localizzazione del telefono. Ma c’è di più: nessuno ha chiesto perché Giancarlo Mancusi, il Pm che era di turno la sera del 26 novembre 2010, non ha aperto un fascicolo sulla sparizione di Yara. A farlo, infatti, fu alle 8 del mattino dopo (sabato), il Pm Letizia Ruggeri. Questa è la conferma che l’allarme scattò solo il sabato. Il papà di Yara, infatti, non può essersi inventato che qualcuno in caserma gli parlò di Calusco d’Adda e Cisano Bergamasco. Sono due Comuni al confine con la provincia di Lecco, a nord-ovest di Brembate, come a nord-ovest è rivolto lo “spicchio” dell’antenna Vodafone di via Ruggeri che ha agganciato per ultimo il cellulare di Yara. E se il suo papà aveva capito bene non ci si può non porre qualche domanda. Perché il brigadiere di Ponte San Pietro non ha allertato i Carabinieri di Calusco o Cisano o dei paesi vicini? E ha sollecitato le ricerche al Comando provinciale di Bergamo? E poi: perché nessuno ha chiamato gli ospedali della zona o il 118 sospettando che Yara avesse avuto un incidente o un malore? Quella sera non c’è stata una sola chiamata ai Vigili urbani di Brembate o di Ponte San Pietro e neanche in questura a Bergamo. «Oggi possiamo dirlo: nessuno ha cercato Yara. Questo è emerso dal processo. Eppure, secondo i medici legali, almeno fino a mezzanotte la ragazza era ancora viva», dichiara il consulente Giuseppe Dezzani. Fulvio Gambirasio dopo le parole tranquillizzanti del brigadiere Garro è tornato a casa. L’unica a cercare Yara è stata la madre. «Anche i tre squilli che la mamma dice di aver sentito, sono una anomalia che va chiarita», sottoolinea Dezzani. «Il cellulare di Yara si è spento alle 18.55 o alle 19.11? Se la chiamata delle 19.11 figura sui tabulati perché la Vodafone non dice quale cella ha agganciato il telefono a quell’ora? Dov’era Yara? In realtà, forse c’è una spiegazione. Yara era in compagnia di un’altra persona che sentendo il telefono squillare le ha impedito di rispondere e ha tolto la batteria che poi, con la Sim, è stata trovata nella tasca del giubbotto della ragazza». Ma c’è un altro colpo di scena. Su quella batteria non è stata trovata una sola impronta digitale. Neppure di Yara. Qualcuno ha provveduto a una radicale pulizia. Perché? E l’unica che continua a cercarla è mamma Maura che prima telefona alle maestre e alle compagne della figlia, poi esce facendo via Rampinelli e in via Morlotti, le strade che Yara percorreva per tornare a casa. «Ma in palestra non c’era più nessuno», ha detto in aula Maura Panarese, «così ho chiamato mio marito per avvertirlo». Anche Fulvio Gambirasio fa un giro per le strade di Brembate ma poi rientra a casa e aspetta il mattino dopo per tornare dai Carabinieri a confermare: «Mia figlia è scomparsa». Inizia confusamente la mobilitazione ma i cani molecolari arriveranno a Brembate solo al lunedì, due giorni dopo, quando tragico destino di Yara si è già compiuto. Giangavino Sulas *** Sulas, Oggi 21/10/2015 (n.43) Caso Yara 9 nuovi misteri IL LUOGO DEL DELITTO È DAVVERO IL CAMPO DI CHIGNOLO IN CUI LA RAGAZZA È STATA TROVATA? LA DIFESA DI BOSSETTI ELENCA UNA SERIE DI ELEMENTI CHE RIAPRONO IL GIALLO. COME LA FAMOSA CALCE NEI POLMONI. DI CUI NON CI SAREBBE TRACCIA. LEGGETE QUI E GIUDICATE VOI di: Sulas Giangavino Bergamo, ottobre Srotolata da un tappeto. Capito? Come se l’avessero srotolata sul campo». L’avevo sentito dire la sera del 26 febbraio 2011 da un poliziotto impegnato nel recupero del corpo di Yara Gambirasio. Dopo quattro anni è arrivata la spiegazione. Ed è stato un colpo di scena. Forse è la prova che Yara su quel campo di Chignolo d’Isola, dove fu ritrovata, è stata trasportata dopo essere stata denudata e avvolta in un plaid o una coperta molto colorata. Solo dopo sarebbe stata rivestita. Ma dove è avvenuta questa fase del dramma? Da questa domanda nasce il primo di altri nove, e nuovi, dubbi e misteri che si aggiungono ai 22 elencati sul numero 41 di Oggi . Eccoli. 1) UN TAPPETO O UN PLAID Questo primo aspetto lo ha spiegato bene Dalila Ranalletta, medico legale e consulente della difesa di Massimo Bossetti: «Le nove ferite, quelle sulla schiena e quelle sul dorso, quelle sui polsi e quella sulla gamba di Yara, erano piene di filamenti di tessuto blu, azzurri, rossi, verdi, neri e bianchi, nessuno dei quali proveniente dagli indumenti della ragazza», ha detto Ranalletta. «I suoi vestiti non hanno lasciato tracce. Quindi non può essere stata in quel campo dalla sera in cui scomparve ( il 26 novembre 2010 , ndr). Ma è stata denudata e avvolta in un tessuto che ha depositato sulle ferite aperte quelle fibre. E ci sono rimaste anche quando è stata rivestita». Il Pm Letizia Ruggeri e Cristina Cattaneo, che ha fatto l’autopsia, non hanno dato una spiegazione. Silenzio di tomba in aula quando parlava Dalila Ranalletta durante l’ultima udienza. La Ranalletta ha ipotizzato l’avvolgimento del corpo in un tappeto, ma è anche probabile che sia stata una coperta di lana o di acrilico che, essendo più morbida, rilascia facilmente filamenti o residui di tessuto. «Queste fibre sono state analizzate dal Ris», ha assicurato il Pm. Evidentemente non sono state considerate importanti per l’inchiesta. Non è un problema secondario. Se in casa o sul camioncino dell’imputato Massimo Bossetti o di chiunque altro si trovasse una coperta dello stesso tessuto e con gli stessi colori, si potrebbe fare una comparazione delle fibre. 2) L’ORA DELLA MORTE Quando ha cessato di vivere Yara? «La morte risale a poche ore dopo la scomparsa. È collocabile fra le 19.00 e le 24.00 del 26 novembre. Ma potrebbe essere slittata alle prime ore del giorno dopo», ha scritto nella relazione Cristina Cattaneo. «Impossibile stabilire l’ora della morte», ha sostenuto Dalila Ranalletta. «Sappiamo però che Yara aveva concluso la digestione del suo ultimo pasto perché nello stomaco aveva solo 30 cc di liquido. Ma quando aveva pranzato? E cosa aveva mangiato? Non ha saputo precisarlo neppure la mamma. Ha riferito che nell’ultima settimana aveva cucinato pollo o coniglio, ma forse anche del pesce. E ha aggiunto che Yara spesso faceva merenda. Potrebbe quindi esser morta fra mezzanotte e le 6 del mattino. Nessuno può avere certezze. Solo ipotesi». 3) GLI ERRORI DEL CHIMICO Chi è il chimico, consulente della Cattaneo nell’autopsia sul corpo di Yara, che avrebbe scambiato l’ossido di calcio con l’idrossido di calcio? L’ossido è la calce viva, quella che ustiona per intenderci. L’idrossido invece è la calce spenta, inerte perché è rimasta esposta per almeno cinque giorni all’umidità e alle intemperie. Per quattro anni abbiamo letto, sentito e scritto che Yara nei bronchi e nelle vie aeree aveva tracce di ossido di calcio. Un elemento che porta dritto al mondo dell’edilizia, ai cantieri. A un muratore. Come Bossetti, appunto. Nella relazione autoptica di Cristina Cattaneo, in sette passaggi diversi, è citata la presenza dell’ossido di calcio. Oggi questa affermazione viene contestata. Altro colpo di scena rivelato e spiegato con estrema chiarezza dal medico legale Dalila Ranalletta: «Nei bronchi, nei polmoni e nelle vie aeree di Yara non c’era una sola traccia di calcio. Non l’ha mai inalato, non è mai stata costretta a respirare con il volto premuto contro un indumento sporco di calce. Tracce di calcio sono presenti invece sul suo corpo. Ma non è ossido. Forse idrossido, forse carbonato. Ma il calcio è il quinto elemento presente per quantità sulla Terra. Tutti abbiamo addosso tracce di calcio». Ennesimo silenzio di tomba e grande stupore in aula. Nessuna replica di fronte a queste rivelazioni. Eppure, proprio la presenza di ossido di calcio nelle vie aeree di Yara è considerata uno degli indizi più gravi contro Bossetti, come dice l’ordinanza di custodia cautelare. 4) IL CORPO MUMMIFICATO «Il corpo di Yara era in gran parte corificato», ha fatto sapere Dalila Ranalletta. La corificazione è un processo naturale simile alla mummificazione che si verifica nei cadaveri conservati in casse di zinco ermeticamente chiuse, a causa della carenza di ossigeno. «A voi sembra che nel campo di Chignolo ci fosse mancanza di ossigeno?», ha chiesto la consulente di Bossetti. E ha continuato: «Che fosse solo lievemente ventilato o scarsamente areato come sostiene nella sua relazione Cristina Cattaneo? Come è possibile che il corpo di Yara sia stato per tre mesi allÕaperto, esposto a tutte le intemperie e non ci sia stato il fenomeno della putrefazione?È. Quindi, dove • stato tenuto per tutto quel tempo? Al chiuso? E dove? E da chi? 5) DENUDATA E RIVESTITA ÇLe ferite sul corpo di Yara sono state inferte quando era vestita, ancora viva ma non in grado di muoversi e reagire. Per colpirla sul dorso lÕassassino ha sollevato gli indumentiÈ, sostiene la Cattaneo. Tutto sarebbe avvenuto sotto la pioggia, nel fango del campo di Chignolo tra rovi e cespugli e meno di unÕora dopo Bossetti, presunto assassino, sarebbe passato di nuovo sotto le telecamere di Brembate? ÇNo, Yara • stata denudata, colpita e rivestita in un secondo momento. La ferita al gluteo dimostra che i leggins erano calati, gli slip noÈ, sostiene la consulente della difesa. ÇLe lesioni sono state provocate da unÕarma importante, affilatissima che non pu- essere il coltellino Opinel di Bossetti. UnÕarma che • stata maneggiata con calma e precisione chirurgica. Le ferite sono lineari e mai profonde, tanto che non hanno leso organi vitali. Il corpo di Yara non aveva pi• alcuna reazione. Non cÕ• stato alcun inseguimento nel campo di ChignoloÈ. Andrebbe spiegato anche come mai la lunga incisione, che parte allÕaltezza della spalla sinistra e arriva quasi allÕombelico, ha lasciato intatta la spallina del reggiseno che • stato trovato slacciato. Le era stato sfilato prima? 6) L’ERBA È DI CHIGNOLO? In una mano di Yara • stato trovato un ciuffo dÕerba. Ç È la prova che lÕha afferrata in uno spasmo di agonia. Quindi • morta nel campoÈ, sostiene lÕaccusa. ÇQuellÕerba non era radicata al terreno come dimostrano le immagini ed • presente in moltissimi altri postiÈ, ha replicato la difesa. ÇPu- averla afferrata dovunque. Quindi, come possiamo dire che Yara ha cessato di vivere sul campo?È, si chiede la difesa. 7) LA FOGLIA DA ESAMINARE ÇNon esiste un video del ritrovamento dellÕunica foglia ben conservata, recuperata e repertataÈ, ha aggiunto la Ranalletta. Quella foglia • una ÒSolidago giganteaÓ e potrebbe appartenere alla stessa specie della fogliolina che • stata spedita al nostro giornale assieme a dei fiori gialli, nel settembre 2014, con una lettera anonima. Abbiamo consegnato tutto in Procura, al maresciallo Mocerino. Sarebbe logico esaminarla per scoprire se ci sono corrispondenze e decidere se quella lettera anonima deve essere presa in considerazione. Rivelava infatti che Yara era stata assassinata da un muratore polacco ubriaco in casa di una donna, alla presenza di altri operai che, in seguito, temendo che il polacco potesse parlare, simularono un incidente sul lavoro e lo uccisero facendolo precipitare da un ponteggio. 8) ANALISI DEL SANGUE 8) ÇPerchZ non sono state fatte le analisi sul sangue trovato sotto il corpo di Yara?È, ha chiesto la Ranalletta. ÇNon toccava a meÈ, ha risposto la Cattaneo. A chi spettava quel compito? Il Pm che ha coordinato le indagini ha taciuto. ÇQuellÕanalisi ci avrebbe aiutato a stabilire la causa della morteÈ, ha replicato la consulente di Bossetti. 9) TESTIMONE FANTASMA E cÕ• anche un testimone fantasma. È stato lÕex capo della Squadra mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini, a rivelarlo fra tanti Çnon ricordoÈ. Sarebbe un ragazzo allora minorenne che solo dopo lÕarresto di Bossetti avrebbe dichiarato di aver visto Yara, fra le 18.40 e le 18.45, uscire dal Centro sportivo e imboccare via Morlotti per tornare a casa. Dovrebbe chiamarsi Giovanni Ruggeri. Ma non figura nella lista dei testimoni presentata dallÕAccusa. Nessuno sa chi sia. Si materializzer^ al processo? Giangavino Sulas I DUE MEDICI LEGALI HANNO IPOTESI CONTRAPPOSTE Chignolo d’Isola (Bergamo). Sopra, a sinistra, il medico legale Cristina Cattaneo, 51 anni, che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Yara. Sopra, a destra, Dalila Ranalletta, 59 anni, consulente della difesa, che ha sollevato nuovi interrogativi durante il processo a Massimo Bossetti in corso a Bergamo.
I dubbi che per ora non hanno risposta
A destra, la copertina di Oggi dedicata ai 22 misteri del giallo di Yara. Dalla questione del Dna di Bossetti (sugli slip di Yara è stato rintracciato quello nucleare, non quello mitocondriale), ai tanti « non ricordo » delle amiche e delle insegnati di ginnastica di Yara. C’è poi la questione del fi lmati che riprendono il passaggio del furgone : l’accusa dice che è "compatibile" con quello di Bossetti, ma non è mai inquadrata la targa. E poi non c’è la prova che Yara sia uscita dalla palestra. Tra l’altro l’aeromodelllista che ha trovato il corpo di Yara, ha testimoniato che era impossibile correre in quel campo. L’accusa, invece, dice che Yara è fuggita correndo. E chi era l’uomo non identifi cato che si è allontanato da Chignolo quando è arrivata la Polizia? L’accusa poi, dice che Yara è stata accoltellata mentre fuggiva: allora perché non c’è sangue sui suoi vestiti? Un compagno di Yara ha scambiato con lei 109 messaggi ma al giudice ha detto che non ricordava di avere il suo numero. E che spesso prestava il suo telefono. A chi? E perché il papà di Yara 4 giorni dopo la scomparsa chiama la fi glia sul cellulare e lascia questo messaggio : «Sono passati quattro giorni....Eh.... Devo cominciare a preoccuparmi? Fatti sentire. Fatevi sentire»?< *** Sulas, Oggi 14/10/2015 (n.42) YARA , quanti dubbi al processo I TANTI «NON RICORDO» DEI TESTIMONI, I MANCATI ACCERTAMENTI SUL FURGONE BIANCO DEL CUSTODE DEL CENTRO SPORTIVO FREQUENTATO DALLA PICCOLA GAMBIRASIO, LE ANOMALIE LEGATE AL DNA... IN AULA I MISTERI SONO MOLTI. E LA DIFESA DI BOSSETTI PENSA DI CHIEDERE UNA PAUSA di: Sulas Giangavino Bergamo, ottobre La palestra frequentata da Yara aveva un custode. Di lui si è parlato, durante il processo a Massimo Bossetti, nell’udienza che ha visto le maestre e le amiche di Yara sul banco dei testimoni esibirsi in una serie di «Non ricordo» destinata a lasciare il segno in questa vicenda. Era stato uno dei difensori di Bossetti a chiedere a Silvia Brena, la bella istruttrice di ginnastica, se ricordava di aver ricevuto apprezzamenti e attenzioni in palestra. Naturalmente, la Brena è stata ermetica: «No, non ricordo». A quel punto, l’avvocato Claudio Salvagni aveva letto la sua deposizione a verbale che diceva il contrario. E lei: «Ah, adesso che me lo dice, mi ricordo». Più in là non si è andati. L’argomento stranamente è sembrato di scarso rilievo in un’inchiesta per un omicidio a sfondo sessuale. Ma nell’ultima udienza il custode del Centro sportivo è riapparso, virtualmente, sulla scena. La difesa di Bossetti ha fatto notare a Gianpaolo Bonafini, capo della squadra Mobile a Bergamo quando Yara scomparve, che quel custode all’epoca aveva un furgone bianco con la ricopertura dei sedili che avevano gli stessi colori delle microfibre del camioncino di Bossetti. « È stato esaminato quel furgone bianco?», è stato chiesto al poliziotto. «No», ha risposto. Sicuramente quell’uomo non ha niente a che fare con l’omicidio di Yara. Ma in una inchiesta ciclopica che è risalita fino al 1719 per ricostruire il ceppo familiare di Giuseppe Guerinoni, il padre biologico del presunto assassino, che ha setacciato la provincia con decine di migliaia di prelievi per scoprire il Dna della mamma di Bossetti, che si è affidata ai più famosi istituti scientifici d’Italia, si scoprono piccole-grandi falle che nelle indagini tradizionali avrebbero dovuto avere la precedenza e la soluzione. Perché è sfuggito ai controlli il furgone bianco di una persona che lavorava nella stessa palestra della vittima quando già pochi giorni dopo la scomparsa di Yara uno dei primi testimoni, una donna di Ambivere, in provincia di Bergamo, aveva riferito agli inquirenti di aver visto passare, a gran velocità, un furgone bianco e che le era parso di sentire una ragazza gridare "aiuto"? DUE LABORATORI DANNO RISPOSTE DIVERSE Con il procedere delle udienze i misteri e i dubbi sull’omicidio di Yara Gambirasio crescono anziché diminuire. Non a caso si parla di un crescente nervosismo del Pm Letizia Ruggeri e in particolare della sua preoccupazione soprattutto per il giorno in cui al processo dovrà deporre come testimone il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma. Perché si scoprirà che l’ufficiale dei carabinieri, e si spera anche la Procura, sapevano già dal febbraio 2013 che sugli slip di Yara, accanto al Dna nucleare di Ignoto 1, erano presenti due mitocondriali, nessuno dei quali apparteneva a Ignoto 1. Il primo è di Yara e l’altro di uno sconosciuto. Perché si è aspettato che questa inspiegabile anomalia la segnalasse nel giugno scorso Carlo Previderè, genetista dell’università di Pavia? Perché non si è fatto niente per capirne la causa? Al colonnello Lago, il 29 settembre 2011, fu affidata dal Pm Letizia Ruggeri una consulenza privata con l’incarico di scoprire la maggior quantità possibile di informazioni su Ignoto 1 proprio partendo dal suo mitocondriale. I carabinieri del Ris di Parma non hanno laboratori in grado di portare avanti una ricerca così avanzata e Lago si rivolse al dipartimento di Scienze forensi dell’istituto molecolare di Firenze e alla The George Wasghington University. Arrivarono alcune risposte interessanti, ma inutilizzabili al processo, come per esempio il colore degli occhi e alcuni possibili tratti somatici, ma sul mitocondriale i due laboratori fornirono risposte stranamente diverse. Per l’istituto americano sullo slip era presente un profilo mitocondriale non contaminato femminile (poi Previderè analizzando i capelli trovati sulla felpa ha scoperto che appartiene a Yara), mentre per Firenze quel profilo era misto, femminile e maschile. In realtà, sempre Previderè ha accertato che si tratta di un profilo maschile ignoto. Quindi nessuno dei due è di Bossetti. Usando il mitocondriale si cercò la madre di Ignoto 1 fra le famose 532 donne che negli anni avevano lasciato la Val Seriana. Fra loro c’era anche Ester Arzuffi, ma, come sappiamo, sfuggì al controllo perché il suo Dna fu confrontato con quello di Yara anziché con quello di Ignoto 1, che ancora oggi non è stato scoperto. «In natura, una traccia senza una delle due componenti non esiste», fa notare il genetista Marzio Capra, consulente della difesa. «Oltretutto manca la componente più resistente, quella che viene utilizzata persino nelle fossi comuni, dove la contaminazione è massima, per identificare i cadaveri. Perché si ha paura di dire la verità e cercare l’errore. Io chiederò che il processo venga fermato anche per due mesi pur di scoprire dove qualcuno ha sbagliato. Può capitare, non c’è niente di male, ma altrimenti il dato scientifico che abbiamo non è valido. Mi diranno: c’è il Dna nucleare che è stato analizzato da ben quattro laboratori. Non è vero! L’hanno certificato solo i capitani del Ris. Agli altri laboratori sono state fornite solo le tabelle per controllare la procedura. Certificare il Dna vuol dire rifare le analisi. Lo stesso Previderè, prima di ricavarlo con un frammento osseo di Yara, aveva avuto solo il risultato del boccaglio quando Bossetti fu fermato dai carabinieri. Il Dna di Bossetti non può essere un atto di fede. Deve essere provato scientificamente al di là di ogni ragionevole dubbio».Quei sorrisi Quei sorrisi prima del dramma A fi anco, Massimo Bossetti, oggi 44 anni, col bouquet in mano il giorno del suo matrimonio (con Marita Comi, nel 1999), accanto alla madre, Ester Arzuf , 67 anni. Sopra, Giuseppe Guerinoni (19381999): l’autista di Gorno è considerato il padre naturale di Ignoto 1, quindi di Bossetti. Nel tondo, nell’altra pagina, Yara Gambirasio, scomparsa a 13 anni a Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre 2010 e trovata morta il 26 febbraio 2011 a Chignolo d’Isola.Foto: A 5 anni dalla scomparsa A 5 anni dalla scomparsa A 5 anni dalla scomparsa A 5 anni dalla scomparsa A 5 anni dalla scomparsa A 5 anni dalla scomparsa si cerca sempre la v erità
Foto: Giampietro Lago, 51 anni, colonnello dei Carabinieri e comandante del Ris di Parma . Dovrà chiarire la questione del Dna nucleare di Ignoto 1 e dei due mitocondriali sugli slip di Yara.
Foto: ���������? Il processo sull’omicidio di Yara è iniziato lo scorso luglio e si prevede possa continuare fi no alla primavera 2016
Foto: Gianpaolo Bonafi ni, 46 anni, ex capo della Mobile di Bergamo . Ha confermato che non si indagò sul furgone del custode della palestra frequentata da Yara. ���������? A fi ne mese, il sabato in seconda serata su Rai 3, tornano nuove puntate di Un giorno in pretura , con Roberta Petrelluzzi
Foto: IL GENETISTA: « CHIEDERÒ CHE IL PROCESSO SIA FERMATO, PER CAPIRE CHI HA SBAGLIATO» ���������? Il laghetto del parco San Valentino, dove è stata ritrovata la Beretta, è uno stagno melmoso di pochi metri quadrati
*** Sulas, Oggi 14/10/2015 (41) E SE POI IL MOSTRO NON FOSSE LUI? Bossetti e il caso Yara: i 21 misteri irrisolti (più uno) QUEL DNA SENZA UN PEZZO. I TANTI «NON RICORDO» DELLE AMICHE. LE DOMANDE MAI FATTE. I BUCHI DEL PROCESSO DI BERGAMO SONO MOLTI. A COMINCIARE DAL PRIMO, IL PIÙ INQUIETANTE. QUEL MESSAGGIO DI PAPÀ FULVIO ALLA FIGLIA CHE DICE: «COMINCIO A PREOCCUPARMI, FATEVI SENTIRE». BEN QUATTRO GIORNI DOPO CHE È SCOMPARSA di: Sulas Giangavino SOTTO TORCHIO Massimo Bossetti, 44 anni. Unico indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, è sotto processo a Bergamo. «Non è il mio destino che mi preoccupa, ma quello delle persone che più amo, mia moglie e i miei figli» Fulvio Gambirasio, 48 deteriorati. Lei ha avuto due relazioni extraconiugali e il marito avrebbe cercato altre donne. «I dissapori familiari potrebbero essere il movente dell’omicidio di Yara», dice il Pm. «Quei contrasti risalgono a tre anni dopo l’omicidio», replica la difesa. «Dal 21 al 28 novembre 2010, non c’è stato alcun contatto telefonico fra Bossetti e la moglie», insiste il Pm. «È accaduto anche in altri periodi e in altri anni, ma non avete controllato», rispondono i difensori. 2) L’INCOGNITA DI IGNOTO 2 Sugli slip di Yara c’è il Dna nucleare del muratore. Per l’accusa, è la prova regina. Per la difesa, è solo un indizio e un mistero. Perché manca il profilo mitocondriale di Bossetti (la parte di Dna ereditata esclusivamente dalla madre) e compaiono invece il mitocondriale di Yara e quello di uno sconosciuto. Esiste, quindi, un Ignoto 2. Bossetti ha avuto un complice? O qualcuno ha sbagliato le analisi? I consulenti della difesa sostengono che il Dna nucleare possa essere separato dal mitocondriale solo in laboratorio, insinuando che ci sia stata una "cancellazione selettiva" di parte del materiale genetico. Un’ipotesi di gravità inaudita, che in aula scatenerà una rovente battaglia. Ma non basta. Come si spiega, inoltre, che il prof. Emiliano Giardina dell’università di Tor Vergata, pur avendo a dispozione sin dal luglio del 2012 il Dna della mamma di Bossetti e quello di altre 531 donne, lo abbia confrontato con quello di Yara anziché con quello di Ignoto 1, la persona che si stava cercando di identificare? 3) DUE SOLI DNA CERTI Sugli indumenti di Yara hanno lasciato il loro Dna due sole persone: Bossetti e Silvia Brena, la maestra di ginnastica. Entrambi non hanno saputo dare spiegazioni. Ma uno è imputato di omicidio, l’altra è una testimone. Spiegano gli inquirenti: «La Brena e suo fratello sono stati controllati e non è emerso nulla». 4) LE ALTRE TRACCE Sulla felpa e sulla maglietta di Yara sono state trovate 150 formazioni pilifere umane. Da 49 di queste non è stato possibile ricavare il Dna, 94 sono di Yara, le altre sette non sono né di Yara né di Bossetti. Cinque sono ignote e due hanno dei punti di convergenza con il Dna di una delle 532 donne esaminate che non è Ester Arzuffi, madre di Bossetti. Il nome di questa donna non si conosce, ma si è scavato su di lei e sui suoi familiari? C’è una traccia di Dna anche sui guanti che la mamma aveva regalato a Yara una settimana prima. È rimasta ignota. 5) LE LETTERE ANONIME Giunte al nostro settimanale nel settembre 2014 e nel marzo 2015, raccontano di una morte accidentale provocata da un muratore polacco ubriaco in casa di una misteriosa signora e in presenza di altre persone. Prese dal panico, queste si sarebbero liberate del corpo di Yara a Chignolo d’Isola. Fra loro ci sarebbe stato anche Bossetti, che sarebbe svenuto. E il polacco, che parlava troppo, sarebbe stato eliminato facendolo cadere da un ponteggio. 6) TESTIMONI SILENZIOSI Come si spiegano i molti «non ricordo» di Silvia Brena, Laura Capelli e Daniela Rossi, le maestre di ginnastica di Yara, nonché quelli di Martina Dolci, «l’amica del cuore» che inviò e ricevette gli ultimi sms di Yara? Davvero hanno dimenticato tutto di quella tragica serata? O è successo qualcosa in palestra? Perché dai cellulari di Silvia Brena e di suo fratello sono scomparsi due sms che i due si sono scambiati mentre Yara era in palestra? 7) L’USCITA DALLA PALESTRA Ma Yara è davvero uscita dalla palestra per tornare a casa? È il dubbio emerso dopo la testimonianza di Fabrizio Francese, il papà di un’amica di Yara, l’ultima persona ad averla vista viva mentre si dirigeva verso l’uscita, ma che non l’ha notata varcare la porta. Nessuno, poi, ha incrociato Yara sulla strada verso casa. E se fosse stata aggredita in un locale del centro sportivo? Aveva visto forse qualcosa che non doveva vedere? 8) BOSSETTI? MAI VISTO Tutti, dai genitori di Yara alla sorella Keba, dalle maestre di ginnastica della ragazza alle sue compagne di scuola e di palestra, fino alla zia Nicla che accompagnava Yara al supermercato - dove una testimone sostiene di aver notato Bossetti mentre comprava della birra - tutte queste persone dicono di non conoscere e di non aver mai visto il muratore di Mapello. Sui loro telefoni e computer non è stato trovato alcun contatto fra i due. E tutti hanno escluso che Yara possa aver accettato un passaggio da uno sconosciuto. Ma il Pm non accusa Bossetti di rapimento: sostiene che Yara è salita di sua volontà sul camioncino. 9) LE RICERCHE SUL PC Nel suo Pc, Bossetti avrebbe digitato le parole «tredicenni» e «sesso» e avrebbe usato tre programmi molto sofisticati per eliminare la memoria del computer. Una scoperta che potrebbe inguaiarlo. La difesa dice: «È avvenuto tre anni dopo il delitto. E digitando quella ricerca su Google è impossibile ottenere risultati porno. In realtà quelle parole altro non sono che flash pubblicitari quando si fa una ricerca hard. I programmi sofisticati li ha voluti installare il tecnico, non Bossetti, e non sono mai stati utilizzati». 10) IL CAMIONCINO Per un’ora, dalle 17.42 alle 18.47, il camioncino di Bossetti ha girato attorno alla palestra in attesa di Yara, per poi ricomparire alle 19.51, dice l’accusa, mostrando le registrazioni delle telecamere di sicurezza di una banca, di un distributore e della ditta Polynt. Un orario che coincide con l’uscita di Yara e con la sua scomparsa. «All’inizio gli avvistamenti erano 16, adesso quelli rilevanti per gli inquirenti sono solo sei. Ma manca la targa, e gli stessi Carabinieri parlano di "compatibilità" del camioncino, non di identificazione certa», sottolinea il criminologo Ezio Denti, consulente della difesa. «Non hanno capito che i video della ditta Polynt mostrano quattro furgoni diversi che vanno tutti nella stessa direzione. Sono usciti da un parcheggio di quell’azienda perché la strada dietro il centro sportivo era chiusa, come ha confermato anche il papà di Yara; nessuno avrebbe potuto fare il giro della palestra. Bossetti transita una sola volta, alle 18.35’26" e trovando la strada chiusa inverte la marcia e ripassa alle 18,36’05" per fermarsi all’edicola». 11) L’AEROMODELLISTA Il 26 febbraio 2011, il corpo di Yara viene ritrovato nel campo di Chignolo d’Isola da Ilario Scotti, aeromodellista, che dichiara: «In quel campo pieno di cespugli e rovi spinosi era difficile camminare e impossibile correre». L’accusa sostiene invece che Yara abbia tentato di fuggire correndo con le scarpe slacciate. 12) L’UOMO MISTERIOSO Ilario Scotti aggiunge inoltre che mentre aspettava l’arrivo della Polizia a Chignolo, uno sconosciuto, basso, calvo e sulla cinquantina, lo abbia tenuto d’occhio per un quarto d’ora. Chi era l’uomo misterioso? Perché controllava il campo? «Se fosse stato solo un curioso, a maggior ragione si sarebbe trattenuto sentendo le sirene della polizia. Invece è sparito, sapeva che c’era il corpo di Yara?», si chiede il criminologo Ezio Denti. 13) QUELL’ERBA IN MANO «Yara è morta nel campo di Chignolo la sera in cui è scomparsa. La prova è quel ciuffo d’erba che stringeva in una mano», dice l’accusa. «Non esiste una fotografia che mostri quel ciuffo d’erba», ribatte la difesa, «e le nove ferite trovate sul corpo della ragazzina le sono state inflitte mentre era supina e inerme, non mentre correva. Infatti non c’è una goccia di sangue sui suoi indumenti, perché è stata spogliata, ferita e rivestita altrove. E solo dopo portata nel campo». 14) L’ELICOTTERISTA La Protezione civile e i Carabinieri, che hanno sorvolato diverse volte il campo di Chignolo, non hanno mai visto il corpo. Iro Rovedatti, elicotterista della Protezione civile che ha cominciato a cercarla il giorno dopo la scomparsa, ha riferito di aver fatto numerosi voli e spiegato che quel campo è un percorso obbligato per non passare sui centri abitati, ma non ha visto niente. «Volavo a 150 metri di altezza», ha rivelato in una intervista esclusiva a Oggi , «qualunque oggetto scuro notassi mi abbassavo per controllare». 15) IL GIARDINIERE Annibale Consonni, giardiniere di una ditta di fronte al campo di Chignolo, ha messo a verbale di aver lavorato allo sfoltimento dei rovi tutti i giorni nel periodo precedente al ritrovamento del corpo, di non aver notato nulla e di non aver mai avvertito cattivi odori. Così come il personale del Consorzio della Media pianura bergamasca, che controlla i pozzi d’irrigazione del campo». 16) IL TELEFONO Yara aveva nella Sim del suo cellulare 79 numeri telefonici: erano di amici e compagne di scuola, tutti sono stati interrogati. Ma un compagno di Yara con il quale, solo nel gennaio 2010, la ragazzina aveva scambiato ben 109 messaggi, si è mostrato sorpreso con la Polizia: «I messagcompagne di scuola, tutti sono stati interrogati. Ma un compagno di Yara con il quale, solo nel gennaio 2010, la ragazzina aveva scambiato ben 109 messaggi, si è mostrato sorpreso con la Polizia: «I messaggi? Non me li so spiegare... Non ricordo di avere mai avuto il numero di Yara... A volte prestavo il mio telefono». A chi? Non gli è stato chiesto. Il cellulare di Yara si è spento alle 18.55. L’ultimo aggancio con il telefono portatile lo fa la cella di via Ruggeri, proprio nel cono di segnale che guarda verso Nord. Quindi Yara era diretta verso Almenno e le 17) L’ULTIMO SEGNALE RECEPITO Il cellulare di Yara si è spento alle 18.55. L’ultimo aggancio con il telefono portatile lo fa la cella di via Ruggeri, proprio nel cono di segnale che guarda verso Nord. Quindi Yara era diretta verso Almenno e le montagne. Ma il campo di Chignolo è dalla parte opposta, a Sud. 18) I FILI DEL CAMIONCINO La seconda prova regina contro Bossetti sono i filamenti blu, gialli, grigi e celesti rimasti impigliati sul piumino DI MOHAMED FIKRI Mohamed Fikri, il muratore marocchino indagato e poi prosciolto, dieci giorni prima della scomparsa di Yara aveva acquistato un furgone bianco. È lo stesso imbarcato to un furgone bianco. È lo stesso imbarcato È lo stesso imbarcato to un furgone bianco. e sui leggings di Yara. Sono identici a quelli dei sedili del camioncino di Bossetti. Quindi, afferma l’accusa, Yara è stata su quel mezzo poco prima di morire. «Ma Yara tutti giorni prendeva l’autobus per andare a scuola controllati i sedili di quei mezzi?», ha chiesto la difesa. «No», ha risposto il comandante del Ros. furgone non è stato mai esaminato, si credeva anzi fosse stato rottamato. Eppure, due anni dopo il camioncino è rientrato in Italia, dove è stato rivenduto a un muratore di Treviso. Il criminologo Ezio Denti è riuscito a esaminarlo e ha scoperto che i sedili hanno le stesse microfibre del camioncino di Bossetti. da Brembate a Bergamo. Sono stati controllati i sedili di quei mezzi?», ha chiesto la difesa. «No», ha risposto il comandante del Ros. 20) LA CITRO E I DUE SCONOSCIUTI Tre testimoni, Enrico Tironi, Marina Abeni e una colf hanno messo a verbale che quella sera hanno notato due sconosciuti nella strada che porta a casa di Yara. Tironi li ha visti parlare con Yara accanto a una Citroën rossa ammaccata. La colf li ha visti fermi su due auto, una rossa e una bianca, ai tentato di fuggire? Nel cantiere di Seriate «c’è stato un accenno di fuga», ha detto in aula il colonnello Michele Lorusso, comandante del Ros. I difensori di Bossetti gli hanno chiesto: «Lei era presente?». E lui ha risposto: «No, me lo hanno riferito i miei uomini». Da notare che Bossetti in quel momento era scalzo, perché stava facendo una gettata di cemento. 19) IL FURGONE DI MOHAMED FIKRI Mohamed Fikri, il muratore marocchino indagato e poi prosciolto, dieci giorni prima della scomparsa di Yara aveva acquistato un furgone bianco. È lo stesso imbarcato sul traghetto diretto in Marocco sul quale Fikri fu arrestato. Quel furgone non è stato mai esaminato, si credeva anzi fosse stato rottamato. Eppure, due anni dopo il camioncino è rientrato in Italia, dove è stato rivenduto a un muratore di Treviso. Il criminologo Ezio Denti è riuscito a esaminarlo e ha scoperto che i sedili hanno le stesse microfibre del camioncino di Bossetti. 20) LA CITROËN E I DUE SCONOSCIUTI Tre testimoni, Enrico Tironi, Marina Abeni e una colf hanno messo a verbale che quella sera hanno notato due sconosciuti nella strada che porta a casa di Yara. Tironi li ha visti parlare con Yara accanto a una Citroën rossa ammaccata. La colf li ha visti fermi su due auto, una rossa e una bianca, ai lati della strada e Marina Abeni se li è trovati davanti mentre portava a spasso i suoi cani. Si è fatto qualcosa per scoprire chi fossero e cosa facessero? 21) IL TENTATIVO DI FUGA Quando Massimo Bossetti è stato arrestato, il 16 giugno 2014, ha davvero tentato di fuggire? Nel cantiere di Seriate «c’è stato un accenno di fuga», ha detto in aula il colonnello Michele Lorusso, comandante del Ros. I difensori di Bossetti gli hanno chiesto: «Lei era presente?». E lui ha risposto: «No, me lo hanno riferito i miei uomini». Da notare che Bossetti in quel momento era scalzo, perché stava facendo una gettata di cemento. Bergamo, settembre «Sono passati quattro giorni... Eh... Devo cominciare a preoccuparmi? Fatti sentire. Fatevi sentire». Sono le 9.16 del 30 novembre 2010 e Yara è sparita da quattro giorni quando suo padre, Fulvio Gambirasio, lascia questo messaggio vocale alla segreteria telefonica del cellulare della figlia. Di messaggi, papà Fulvio, divorato dall’angoscia, ne aveva già inviati altri, come ha raccontato lui stesso durante la sua deposizione in aula. Ma perché in questo dice « fatevi sentire», al plurale? Sospetta forse che Yara si sia allontanata con qualcuno? O che sia stata rapita? Nasconde qualcosa? Stranamente nessuno glielo ha chiesto, né il Pm Letizia Ruggeri e neppure i difensori di Massimo Bossetti. E questo è solo il primo dei 22 misteri ai quali il processo per l’omicidio di Yara dovrà dare una risposta convincente. Ecco cosa è emerso finora al processo contro il muratore di Mapello. E come lui si difende dalle accuse. 1) LA VITA CONIUGALE L’accusa sostiene che i rapporti fra Bossetti e la moglie Marita si fosseroSOSTENGONO I ROS, MASSIMO AVREBBE TENTATO LA FUGA AL MOMENTO DELL’ARRESTO NEL CANTIERE DI SERIATE, SOSTENGONO I ROS, MASSIMO AVREBBE TENTATO LA FUGAFoto: IL PAPÀ DI UN’AMICA DI YARA L’HA VISTA CHE SI ALLONTANAVA, MA NON L’HA NOTATA MENTRE VARCAVA LA PORTA ���������? Lewis Fogle, in carcere da 34 anni per l’omicidio di una 15enne, è stato scagionato dal Dna
Foto: L’ARRESTO: È CIRCONDATO E TRATTENUTO PER UN BRACCIO Due immagini del video dell’arresto di Massimo Bossetti, avvenuto il 16 giugno 2014 (da Quarto grado ). A sinistra, il muratore trattenuto per un braccio da uno degli agenti in borghese. Sopra, mentre chiede di potersi mettere le scarpe prima di seguire le autorità: stava lavorando scalzo. Martina Dolci, 18 e Silvia Brena, 25
Foto: «HO VOLATO SUL CAMPO MOLTE VOLTE: NON C’ERA NULLA» Sopra, Iro Rovedatti, 53, l’elicotterista della Protezione civile che subito dopo la scomparsa di Yara fece molte ricognizioni sul campo di Chignolo d’Isola. «Volavo basso per controllare, ma non ho visto nulla», ha detto a Oggi . ���������? Le "celle telefoniche" sono le stazioni ricetrasmittenti che dif ondono il segnale telefonico in una certa area geografi ca
Foto: «POTESSI, LA FAREI FINITA» Sopra, Massimo Bossetti con i suoi cani e il gatto. «Se non fosse per la mia famiglia la farei fi nita», ha detto al suo legale. ���������? I Ros sono il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, la struttura anticrimine dell’Arma
*** Sulas, Oggi 30/9/2015 (n.40) E se Yara non fosse mai uscita dalla palestra? NESSUNO L’HA NOTATA VARCARE LA PORTA DEL CENTRO SPORTIVO PER DIRIGERSI VERSO CASA. UN SUPER TESTIMONE CHE L’HA INCROCIATA, DICE: «SI DIRIGEVA VERSO L’ESTERNO MA NON HO SENTITO LA PORTA CHIUDERSI». SANNO QUALCOSA LE AMICHE E LE ISTRUTTRICI CHE AI GIUDICI HANNO RISPOSTO A TUTTO: «NON SO, NON RICORDO» ? E CHI ERA L’UOMO APPOSTATO VICINO AL CAMPO DI CHIGNOLO, DOVE È STATO RITROVATO IL CORPO, FUGGITO ALL’ ARRIVO DELLA POLIZIA? di: Sulas Giangavino Il 7 ottobre ci sarà la sentenza per l’omicidio di Elena Ceste che vede imputato il marito, Michele Buoninconti Bergamo, settembre Yara è uscita viva dalla sua palestra? Ecco un altro dubbio senza risposta. Nessuno sa se la sera del 26 novembre 2010 Yara ha imboccato i 700 metri di strada che dividono il centro sportivo da casa sua. E se fosse scomparsa all’interno della palestra? Chi può dimostrare il contrario? Da tempo questo dilemma era un tarlo che disturbava i pensieri di chi difende Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio della giovanissima ginnasta. Oggi è diventato un buco dell’inchiesta perché nessuno ha visto Yara uscire dalla palestra. Malgrado il via vai di adulti e ragazzi a quell’ora, nessuno l’ha notata attraversare i vialetti del centro sportivo, varcare il cancello d’ingresso, arrivare all’angolo di via Morlotti per entrare in via Rampinelli, verso casa. In cinque anni di indagini non è comparso un solo testimone. È stato fortunato l’assassino o la storia di questo crimine è da riscrivere? E poi: potrebbe esistere una relazione tra l’ipotesi che Yara non sia mai uscita dalla palestra e le reticenze, gli infiniti «non ricordo», delle sue istruttrici e delle amiche più care? È dietrologia o loro sanno qualcosa? TROPPI SILENZI Come può Martina Dolci, oggi 18 anni, la ragazza che la mamma di Yara ha definito «l’amica del cuore» di sua figlia, aver dimenticato che è stata lei, alle 18.44 del 26 novembre 2010, a ricevere l’ultimo messaggio di Yara? Come può non ricordare che alle 18.25 di quella tragica serata, ha inviato l’ultimo sms all’amica per chiederle a che ora dovessero trovarsi per la gara della domenica? Come spiegare la raffica di «non ricordo» (15 in una sola udienza) di Silvia Bresia na, l’unica persona, oltre a Bossetti, ad aver lasciato il suo profilo genetico sul piumino di Yara? Ha dimenticato tutto di quella sera la bella istruttrice che, invece, in un verbale del 14 dicembre 2010 ai Carabinier i aveva dichia rato di essere entrata in palestra alle 18.30 mentre le colleghe Daniela, Laura e Ilaria tenevano la loro lezione e di aver notato Yara «vestita in borghese senza tuta ginnica seduta accanto a Ilaria»? Nello stesso verbale, qualche pagina dopo, Silvia Brena, si smentisce: «Voglio precisare che sono venuta a conoscenza della presenza di Yara in palestra solo dopo la scomparsa della stessa, direttamente da Laura Capelli, quando mi ha avvisato del suo mancato rientro a casa». Ma allora: ha visto Yara o ha saputo da un’amica che era stata in palestra? «Non ricordo». Non ricorda neppure dove è stato trovato il corpo della ragazza e ha dimenticato che la sera del 26 novembre è stata vista ballare alle «Sabbie mobili», la discoteca di fronte al campo di Chignolo. «IO L’HO INCONTRATA» Anche Laura Capelli era una maestra di Yara e anche lei quando ha testimoniato non ricordava. «Sa, è passato tanto tempo...», ha detto. Non hanno avuto vuoti di memoria, invece, due supertestimoni che hanno messo in crisi l’accusa. Il primo è l’ultima persona ad aver visto Yara viva, nell’atrio della palestra, non fuori. E non alle 18.30 come si è sempre sostenuto, ma fra le 18.40 e le 18.45: «Anzi», ha precisato, «più vicino alle 18.45». Il secondo è l’aeromodellista ginnastica, tornava da Milano la sera del 26 novembre 2010. Davanti alla Corte ha ricordato gli orari come un bancario svizzero: «A Milano ho preso il treno delle 17.39. Sono arrivato alla stazione di Ponte San Pietro alle 18.24. Dieci minuti dopo, alche ha trovato il corpo di Yara nel campo di Chignolo il 26 febbraio 2011. Fabrizio Francese, compagno della mamma di Ilaria, una ragazza che seguiva i corsi di ginnastica, tornava da Milano la sera del 26 novembre 2010. Davanti alla Corte ha ricordato gli orari come un bancario svizzero: «A Milano ho preso il treno delle 17.39. Sono arrivato alla stazione di Ponte San Pietro alle 18.24. Dieci minuti dopo, alle 18.34, mi ha chiamato la mia compagna per chiedermi di andare a prendere Ilaria in palestra. Sono salito in auto, (l’avevo lasciata davanti alla stazione), e sono corso a Brembate. Ho impiegato meno di 10 minuti. Sono entrato. Nell’atrio, all’altezza della colonna che fa da bacheca, l’ho incrociata. Io entravo, lei andava verso l’uscita. "Ciao Yara", l’ho salutata. Lei mi ha risposto con un sorriso». «Ma l’ha vista uscire?», gli hanno chiesto. «No. Avrei dovuto voltarmi e non l’ho fatto. Ma non ho sentito sbattere la grande porta a vetri». L’ha vista andare da un’altra parte? «No. Se l’avesse fatto probabilmente con la coda dell’occhio l’avrei notata». Che ore erano? «Fra le 18.40 e le 18.45. Più vicino alle 18.45». Nel parcheggio c’era qualcosa di sospetto? «No. Non ho visto furgoni, camioncini o persone strane. Era tutto tranquillo». Conosce Bossetti? «Mai visto in vita mia». Ecco il vero fantasma in questo processo: Massimo Bossetti. Tutti, dai genitori e la sorella di Yara, alle maestre e alle amiche, hanno giurato di non conoscerlo. che ha trovato il corpo di Yara nel campo di Chignolo il 26 febbraio 2011. Fabrizio Francese, compagno della mamma di Ilaria, una ragazza che seguiva i corsi di ginnastica, tornava da Milano la sera del 26 novembre 2010. Davanti alla Corte ha ricordato gli orari come un bancario svizzero: «A Milano ho preso il treno delle 17.39. Sono arrivato alla stazione di Ponte San Pietro alle 18.24. Dieci minuti dopo, alle 18.34, mi ha chiamato la mia compagna per chiedermi di andare a prendere Ilaria in palestra. Sono salito in auto, (l’avevo lasciata davanti alla stazione), e sono corso a Brembate. Ho impiegato meno di 10 minuti. Sono entrato. Nell’atrio, all’altezza della Ma se Yara non è uscita dalla palestra dove è andata? Aveva due alternative: alla sua sinistra, c’è l’ingresso degli spogliatoi e alla sua destra, quello dei bagni. Furono controllati? Furono cercate tracce di Yara? Non risulta. Tutti convinti, malgrado non ci fosse un solo testimone, che fosse stata rapita lungo la strada di casa. I 10 MINUTI DEL MISTERO Ma con le dichiarazioni di Fabrizio Francese, i tempi si restringono, quasi si dimezzano perché vanno incrociati con la relazione della Vodafone. La compagnia telefonica, a mezzanotte e dieci del 27 novembre, comunicò ai Carabinieri di Ponte San Pietro, che il cellulare di Yara si era spento alle 18.55. Dieci minuti dopo l’ultimo avvistamento. Il buco nero che l’inchiesta non è riuscita a coprire è in questo breve spazio di tempo. In 10 minuti Yara è sparita senza lanciare un urlo, chiedere aiuto, tentare una difesa o la fuga malgrado fosse un’atleta agile e forte, e senza che nessuno la vedesse, in un’ora di punta, uscire dalla palestra. L’altro testimone è Ilario Scotti: con il suo aereoplanino era un habitué del campo di Chignolo. Ci andava due giorni alla settimana. A gennaio e febbraio 2011, c’era stato una decina di volte. Non aveva mai notato nulla, ne avvertito cattivi odori. Eppure doveva esserci il corpo di Yara in decomposizione. CHI È L’UOMO CHE SCAPPÒ? L’aeromodellista poi ha rivelato qualcosa che può mettere in difficoltà l’accusa: «Quando ho perso il mio aereoplanino ho impiegato almeno 10 minuti per ritrovarlo perché quel campo fangoso era infestato da rovi e cespugli pieni di spine che si conficcavano nelle gambe e mi impedivano di camminare. Ho fatto tanti giri prima di ritrovare il mio modellino e in quel punto ho scoperto il corpo di Yara. Ho chiamato la Polizia che è arrivata dopo 15 minuti. Durante l’attesa, ai bordi del campo, un uomo misterioso sulla cinquantina, calvo, in piedi su un panettone di cemento, non mi ha mai perso di vista, salvo poi fuggire quando ha sentito le sirene della Polizia». Chi era? Cosa voleva? Sapeva del corpo di Yara? Una cosa è certa: dalla descrizione non sembra Bossetti. I suoi difensori si sono fregati le mani: a questo punto non regge il teorema che Yara abbia tentato di sfuggire al suo aguzzino correndo nel campo pieno di fango e rovi, con le scarpe slacciate. Avrebbe perso gli scarponcini e i suoi vestiti si sarebbero strappati. «Il corpo di Yara è stato portato a Chignolo pochi giorni prima del ritrovamento», sostiene il criminologo Ezio Denti. «Lo dimostra anche la natura delle ferite. Sono state fatte su un corpo esanime, senza reazioni. Non su un corpo che correva».Qui è stata vista viva l’ultima volta
In questa foto vedete la palestra che frequentava Yara. Qui, all’altezza della colonna centrale, un testimone dice di averla incontrata verso le 18.45. È l’ultima volta che è stata vista viva. Non si sa, però, se ha varcato la porta a vetri dell’uscita. 1. LÌ C’È LA PALESTRA Quel corridoio porta alla palestra, da dove Yara probabilmente stava provenendo. 2. LE PORTE DEI BAGNI A sinistra, ci sono i bagni. È entrata lì Yara? 3. VERSO LO SPOGLIATOIO A destra, c’è lo spogliatoio delle ragazze. Si è diretta lì? 4. PORTA D’INGRESSO In quella direzione c’è la porta d’ingresso.durante un allenamento. chiamata a testimoniare genetico è stato ritrovato LA SUA MAESTRA FA SCENA MUTA Sopra, Yara fa una spaccata perfetta durante un allenamento. A destra, Silvia Brena, una delle sue istruttrici: chiamata a testimoniare in Tribunale ha ripetuto per 15 volte «non ricordo». Il suo profi lo genetico è stato ritrovato sulla giacca di Yara.Le strane amnesie di amiche e istruttrici
Silvia Brena, istruttrice Persino alla domanda su dove è stato ritrovato il corpo di Yara risponde: «Non ricordo» Daniela Rossi, istruttrice «Quando mi chiamò la prima volta la mamma di Yara non mi preoccupai» Ilaria Ravasio, ex compagna di squadra di Yara. Il compagno di sua madre è un testimone importante Le amiche, le compagne di palestra, insomma le ragazze che per ultime hanno visto in vita Yara prima che scomparisse, al processo contro Bossetti sono state le ultime a salire sul banco dei testimoni. Gli avvocati dell’imputato hanno provato a "torchiarle" alla ricerca di particolari che potrebbero essere utili alle indagini ma di fatto si è tutto concluso con un generale «non ricordo». Anche chi di loro nel 2010 aveva messo a verbale alcuni episodi, davanti ai Carabinieri, dice di aver dimenticato. Quando a Silvia Brena chiedono: «Si ricorda di aver pianto, a casa, la sera della scomparsa, come ha raccontato suo padre?». Lei replica: «No, ma se lo ha detto lui è possibile». Perché questo clima poco collaborativo? Laura Capelli, istruttrice «È passato tanto tempo», dice al giudice a fronte di alcune domandeFoto: Le foto mai viste Le foto mai viste del centro sportivo
Foto: Martina Dolci, la migliore amica di Yara. Ha ricevuto il suo ultimo sms. Ai giudici ha detto: «Non ricordo». I LEGALI DI BOSSETTI Nel tondo, Massimo Bossetti, 44, unico imputato per la morte di Yara. Qui sopra i suoi legali: Paolo Camporini, a sinistra, e Claudio Salvagni.
Foto: ���������? Raf aele Sollecito in gennaio sarà processato per dif amazione nei confronti del magistrato Giuliano Mignini
*** Sulas, Oggi 23/9/2015 (n.39) Dna, non è finita SETTE CAPELLI SUGLI ABITI DI YARA , SETTE TRACCE GENETICHE SU CUI LAVORARE. GLI ESPERTI SANNO A CHI APPARTENGONO? LA DIFESA CERCA NUOVI INDIZI PER SCAGIONARE BOSSETTI di: Sulas Giangavino Bergamo, settembre Non c’è solo il mistero del secondo Dna mitocondriale di uno sconosciuto scoperto sugli slip di Yara del quale il vostro settimanale ha dato notizia in esclusiva la settimana scorsa e sul quale il genetista Marzio Capra pretenderà molte spiegazioni. Ce n’è un altro altrettanto incomprensibile. Riguarda i sette capelli ritrovati sugli abiti e all’interno del giubbotto di Yara. Dal profilo genetico ricavato si è escluso che appartengano a Massimo Bossetti e a parenti della vittima. Ma la Procura ha confrontato i Dna di questi capelli, ognuno di una persona diversa, con i 18 mila prelevati nei tre anni durante i quali ha operato uno screening di massa in tutta la Bergamasca? Mi risulta che il mitocondriale di alcuni di questi sette profili genetici abbia diverse corrispondenze con quello di sette persone sottoposte a prelievo. Chi sono queste persone? La loro posizione è stata vagliata? O c’è stata una falla nell’inchiesta? Certo quello del Dna in questo processo sta diventando un problema. Ed è l’unico indizio contro l’imputato». Luca d’Auria, avvocato milanese, docente di Diritto al Master di psicopatolgia forense e criminologia clinica al San Raffaele, ha anticipato la sua scoperta in un convegno organizzato da Justice of Mind , il progetto scientifico che ha avviato con Ilaria De Pretto e Claudia Pavanelli per offrire nuovi spazi interpretativi sull’operato degli operatori di giustizia. Una anticipazione raccolta da Crimen , il mensile di cronaca curato dal nostro collaboratore Edoardo Montolli, e dai difensori di Bossetti. Un problema e un mistero quello sul Dna che avrà una soluzione solo fra alcuni mesi. Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori del muratore di Mapello, hanno infatti chiesto e ottenuto dalla Corte d’Assise di poter acquisire dal Ris di Parma i cosiddetti «dati grezzi» della traccia genetica trovata sugli slip di Yara dalla quale è stato ricavato il Dna nucleare di Bossetti. Si tratta dei dati tecnici di partenza sui quali il Ris ha lavorato per arrivare a «Ignoto 1». Questi dati consentiranno ai consulenti della difesa di esaminare la procedura con la quale si è arrivati a ricavare il Dna di Bossetti, per poi chiedere la famosa superperizia. Invano il Pm Letizia Ruggeri si è opposta alla richiesta dicendo che prima di 45 giorni il Ris non potrà consegnare questi dati. «Abbiamo tempo», ha replicato l’avvocato Salvagni. Ed è in arrivo un altro colpo di scena: la richiesta di una superperizia anche sulle fibre sintetiche prelevate dagli abiti di Yara che, secondo l’accusa, corrisponderebbero a quelle dei coprisedili del camioncino di Bossetti. Ma quei prelievi e quelle analisi risultano fatti «senza contradditorio», cioè in assenza di tutte le parti interessate, compresi i difensori del muratore. Per questo chiederanno che siano invalidate e ripetute. Sono convinti che le stesse fibre siano presenti in migliaia di sedili di automezzi. «Bossetti non aveva i sedili del camioncino personalizzati», ha ironizzato il criminologo Ezio Denti.Foto: UN SOLO IMPUTATO A sinistra, il momento dell’arresto di Massimo Bossetti in un cantiere di Seriate il 16 giugno 2014 in un fi lmato di Quarto Grado . Sopra, Yara Gambirasio: è in corso il processo contro Bossetti per il suo omicidio.
Foto: LO SCOOP SU «OGGI» Il nostro articolo su Oggi n. 38 in cui svelavamo le novità dell’inchiesta sul delitto della bambina di Brembate.
*** Sulas, Oggi 16/9/2015 (n.38) Yara, nuovo inghippo: ora spunta un altro Dna NON SOLO IL DNA INCOMPLETO DI MASSIMO BOSSETTI. SUGLI SLIP DELLA RAGAZZA UCCISA, È STATA TROVATA UNA TERZA TRACCIA GENETICA. SCONOSCIUTA . E LA DIFESA ATTACCA di: Sulas Giangavino Tre Dna di tre persone diverse. È un pozzo dei misteri la traccia genetica trovata sugli slip di Yara che ha portato alla incriminazione di Massimo Bossetti. Oggi scopriamo che in quella traccia non c’è solo il Dna nucleare di Bossetti inspiegabilmente privo del suo mitocondriale, sostituito, non si capisce come mai, da quello di Yara. Una anomalia impossibile in natura. Ma è comparso anche un terzo Dna. Si tratta di un altro profilo mitocondriale. Non si sa a chi appartenga. Nessuno si è preoccupato di scoprirlo. E il nucleare che lo doveva accompagnare dove è finito? La stessa traccia genetica contiene quindi un Dna nucleare e due mitocondriali di tre persone diverse. Una mostruosità scientifica mai vista perché contro natura. C’è una sola spiegazione: la cancellazione selettiva. Fatta da chi? Qualcuno ci ha messo le mani? Perché? No, mi rifiuto di pensarlo». Marzio Capra, ex vicecomandante del Ris di Parma, genetista forense, docente alla Statale di Milano, già consulente scientifico della famiglia di Chiara Poggi, è l’ultimo arrivato nel pool difensivo di Massimo Bossetti, ma gli è stato affidato il compito più ingrato. Demolire l’asse portante dell’accusa contro il muratore di Mapello in carcere dal 16 giugno 2014 per l’omicidio di Yara Gambirasio. E alla vigilia della ripresa del processo prevista per venerdì 11 settembre con la testimonianza in aula di mamma Maura e papà Fulvio, i genitori di Yara, il genetista annuncia l’ennesima sconcertante scoperta. Un terzo profilo genetico del quale nessuno aveva mai parlato. «Il Dna è uno strumento potentissimo per le indagini», dice Marzio Capra a Oggi. «Ma non può essere la colonna che da sola regge l’accusa. Sbaglia chi lo sostiene. Il Dna deve e può integrare gli altri elementi. L’esperienza ci insegna che da solo porta in un vicolo cieco. Se poi, come nel caso di Bossetti, i risultati delle analisi, anziché fare chiarezza, accrescono dubbi e misteri, tutto diventa più difficile. Non si arriva alla verità». Lei e il suo ex comandante Luciano Garofano parlate di anomalie scientifiche. Quante e quali sono? «È o non è inspiegabile - quindi è una anomalia - che sugli indumenti di Ya ra siano stati trovati 11 profili genetici diversi ( tra giaccone, leggins, felpa e maglietta ; si aggiungono ai tre profili trovati sugli slip, ndr), e nessuno appartenga ai suoi familiari? Alla mamma, al papà, alle sorelle. Non è possibile per una ragazza che viveva in famiglia. Qualcosa doveva rimanere». Il criminologo Ezio Denti sostiene che Yara • stata spogliata, ferita e rivestita prima di essere abbandonata nel campo di Chignolo. Quindi qualcuno ha toccato, lasciando le sue tracce genetiche, i suoi abiti. «È un’ipotesi, forse qualcosa di più, manca la certezza». Torniamo al Dna, la parte pi• complessa di questa vicenda. «Si è andati avanti tre anni a cercare l’identità di "Ignoto 1". Sono stati prelevati e confrontati 20 mila profili genetici e, stranamente nessuno, né Ris né i più qualificati laboratori d’Italia, si è accorto che in quella traccia trovata sugli slip di Yara c’era un Dna nucleare di una persona e un mitocondriale di un’altra! Ci si è accorti solo quando è comparso Bossetti. Come è possibile?». Come si fa a scoprirlo? «Se i risultati che ci hanno dato sono giusti, se sono stati ottenuti seguendo tutti i protocolli di ricerca, ci troviamo davanti non a un’anomalia, ma a una mostruosità. Perfino in laboratorio è difficilissimo separare i profili genetici. Il Dna mitocondriale è molto pesante ed è sempre presente nelle tracce. La cancellazione totale non esiste. Neppure se quella traccia è stata all’aperto per tre mesi. I due profili, il nucleare e il mitocondriale, avrebbero dovuto cancellarsi o degradarsi in modo uniforme, tenendo presente che il mitocondriale è più resistente del nucleare. E invece ci dicono che il Dna nucleare è bello, fresco e abbondante mentre quello mitocondriale è addirittura sparito. Ed è stato sostituito da quello di Yara e da un altro ancora di uno sconosciuto». Bisogna pur trovare una spiegazioneÉ «Le analisi su quella traccia biologica sono state fatte tutte al chiuso delle indagini. Nessun contradditorio. Non sappiamo cosa è successo in laboratorio. Non voglio insinuare niente ma solo una superperizia potrà risolvere questo enigma». La traccia genetica • stata consumata tutta. Impossibile rianalizzarla. «La superperizia dovrà accertare come hanno fatto le analisi. Dovrà ricostruire tutto il lavoro. Solo così si potrà scoprire l’errore e chiarire il mistero». PerchZ ha parlato di cancellazione selettiva? Cosa vuole dire? «Vuol dire che qualcuno potrebbe aver cancellato, volutamente, un profilo. In questo caso il mitocondriale. Ma mi rifiuto di pensarlo». CÕ• chi parla di un possibile inquinamento della traccia. «Se c’è stato inquinamento vuole dire che da qualche parte hanno sbagliato. Chi e quando ha inquinato il reperto? Una traccia inquinata è da buttare». CÕ• chi sostiene che il mitocondriale di Bossetti • sparito perchZ si • degradato. «E perché il Dna nucleare è rimasto bello, fresco e abbondante? Il degrado avrebbe dovuto essere uniforme. C’è una sola possibilità: che i campioni fossero due e siano stati depositati in tempi diversi. Poi ci sarebbe stata una cancellazione selettiva del mitocondriale di Bossetti. Ma, se vogliono condannarlo, mi debbono dire, convincendomi, dove è finito il profilo mitocondriale di Bossetti.». IL PERITO HA CERCATO LA VERITÀ ANCHE A GARLASCO Marzio Capra, genetista forense, ex vicecomandante del Ris di Parma, già consulente della famiglia Poggi: è nel pool difensivo di Massimo Bossetti, 44 (a destra). «Se vogliono condannarlo devono dirmi dov’è fi nito il suo profi lo mitocondriale», dice. ���������? Il Dna nucleare racchiude quasi tutto il patrimonio genetico, il Dna mitocondriale è solo quello ereditato dalla madreIL SUO DOLCE SORRISO CHIEDE GIUSTIZIA Il sorriso di Yara Gambirasio, sparita il 26 novembre 2010 e ritrovata il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d’Isola. Per la sua morte è indagato il muratore Massimo Bossetti.LE TRACCE Il resti del giubbotto nero di Yara. Sui vestiti sono stati trovati 11 profi li genetici diversi. ### Luca Telese, Libero 14/11/2015 Secondi. Solo pochi secondi dall’inizio dell’udienza e la Pm si infiamma: esattamente mentre scuote il ciuffo argenteo brizzolato e pronuncia la terza parola. È come quando in una partita di serie A, alla prima azione ci si picchia in area e tutti alzano le mani invocando il rigore. «Scusi Presidente, ma l’istanza (...) :::segue dalla prima LUCA TELESE (...) della difesa non va bene! Non va bene proprio!». - In cosa, pubblico ministero?. -Fin dalla premessa! - E perché, cos’ha la premessa? Scusi Pubblico ministero, non capisco. - No, avvocato Salvagni, lei lo sa benissimo! Già nella premessa chiedete che «tutti» i dati grezzi relativi all’indagine siano consegnati alla difesa. Cosa vuol dire «tutti»? - (Braccia aperte, sorriso) Ehhhh… «Tutti» vuol dire «tutti»... - (La Ruggeri scuote la testa). Eh no! Questo non è possibile! - (Smorfia di Salvagni) Purtroppo mi aspettavo questa resistenza, da lei… Ma è necessario che sia fatto. E lo sa bene! - (la Ruggeri alza la voce) Non è necessario per niente, avvocato! - (Salvagni ora grida) È stato prescritto da questa Corte, lei lo sa. Ma me l’aspettavo! Me l’aspettavo! - Anche noi ce lo aspettavamo avvocato Salvagni! Tant’è vero che lei è arrivato a dirlo persino in televisione che voleva tutti dati. Ed è impossibile! - Non si permetta. Io sono la difesa e vado dove mi pare. Non si permetta di dirmi dove devo andare, chiaro? Cosa è possibile e cosa no, per fortuna, non lo decide lei! Di nuovo guerra sul Dna. Di nuovo i capitani dei Ris - quelli che hanno fatto l’esame più importante - che si ritrovano a fare scena muta, davanti alle richieste della difesa (e in parte anche della Corte). Di nuovo una proroga sulla richiesta di consegna dei dati (la terza!) questa volta sostenuta con forza, come avete visto, dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri. Sembra Ricomincio da capo, quella meravigliosa commedia dove Bill Murray si sveglia tutte le mattine nella stessa sperduta cittadina di provincia, e rivive la stessa festa della marmotta. Mentre accusa e difesa si scambiano fendenti con il consueto sovrappiù di acrimonia, i due ufficiali, pietrificati nella stessa posa in cui si trovavano sette giorni fa, restano muti, senza proferire parola. Per un attimo li guardo negli occhi, i due capitani dei Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile, seduti e immobili sul banco dei testimoni: a dirla tutta mi sembrano più imbarazzati, che sollevati, per questa granitica difesa. Non dicono nulla. Fanno parlare la Ruggeri, ma si vede che la linea che la pm segue, evidentemente per prendere tempo, in qualche modo li imbarazza, perché la Pm deve lasciare intendere che i due non siano in grado di trovare i dati dei loro stessi esami, nei referti che essi stessi hanno fornito: «Presidente» dice infatti la Ruggeri, «voglio spiegare questo: per i due capitani, andare a recuperare tutti i dati grezzi è davvero impossibile!» (brusio dell’aula). La pm continua: «Ne hanno consegnato una parte alla difesa, nel dischetto. Ma non è escluso che ce ne siano altri…. che possano saltare fuori dall’archivio dopo la data che verrà fissata per l’udienza». Pausa. La Ruggeri tiene per ultima la cosa più importante: «Dovete sapere che i laboratori dei Ris svolgono un numero importante di analisi, di tanti diversi casi, e per questo motivo è difficile estrarre tutti i Raw data relativi a quel caso. I Ris custodiscono insieme i referti di oltre 16mila Dna!». Altra pausa, poi l’affondo: «Dunque chiedo che sia tolto questo aggettivo - “tutti” - dal documento della Difesa!». La richiesta della pm è questa: «Deve essere a cura e discrezione del laboratorio mettere a disposizione della Corte gli altri dati grezzi che eventualmente dovessero emergere». Perché è così importante questo ennesimo battibecco? Perché il venerdì prima la testimonianza dei due ufficiali dei Ris si era interrotta proprio su questo punto, quando Stati e Gentile, giunti al controinterrogatorio, avevano alzato le mani sostenendo che per rispondere alle domande che gli venivano poste dalla difesa, sarebbe stato necessario «uno sforzo mnemonico sovrumano». Mi era sembrata una scusa, e proferita - per di più - a denti stretti. Ieri, poi, per un puro caso, una ufficiale del reparto della polizia scientifica, la dottoressa Paola Asili, poco dopo, nel corso della propria testimonianza, esaltando con legittimo orgoglio l’efficienza del suo laboratorio, aveva involontariamente ridicolizzato le asserite difficoltà dei Ris: «Siamo uno dei quattro laboratori che ha il massimo accreditamento riconosciuto a livello internazionale», dice con legittimo orgoglio. «Ogni caso da noi diventa un fascicolo, di cui facciamo doppia copia, perché a ogni documento elettronico aggiungiamo una stampata cartacea». Non solo: «Abbiamo realizzato la tracciabilità totale di ogni reperto, ogni dato viene catalogato attraverso un software dedicato, attraverso un numero e un codice a barre». Fantastico. Ecco il quadretto: i cugini della polizia super efficienti, mentre due dei più stimati ufficiali scientifici di Parma non riescono a trovare tutti i dati richiesti nemmeno in sei mesi? Impossibile. Evidentemente la settimana prima di questo racconto picaresco, l’immagine dei dati del delitto Yara introvabili perché confusi con quelli degli altri casi, come nel retrobottega di una drogheria, era un male necessario: serviva a prendere tempo perché in quel momento gli avvocati stavano martellando sul nodo decisivo, il cosiddetto “campione G20”, ovvero il campione preso sulla mutandina della ginnasta di Brembate dove è stata trovata la traccia di ignoto numero uno: è il reperto più importante, la chiave di volta di tutto il processo. Possibile che in quella udienza i Ris non ricordassero nemmeno quante volte avevano esaminato la traccia? Possibile che non potessero ricordarlo nemmeno ieri? Il perito della difesa, Marzio Capra, aveva letto nei “dati grezzi” che i Ris avevano fatto “solo” quattro amplificazioni sulla traccia di Ignoto numero uno. Il che - con i kit dell’epoca - a suo parere bastava a fare un esame, ma non una controprova di adeguato valore processuale. Ieri, mentre volavano questi fendenti (con tanto di battuta caustica sul fatto che Salvagni avesse auspicato pubblicamente in tv - secondo la Ruggeri in modo inopportuno - che i dati arrivassero senza intoppi), i capitani sembravano quasi rassegnati. Così, tra un colpo e l’altro deve intervenire la presidente, Antonella Bertoja. La presidente è una donna elegante, bionda, con le mani affusolate, gli orecchini d’oro e l’aria angelica di una dama ottocentesca. Che però, quando serve, tira fuori una grinta da sceriffo nel saloon: «Io desidero che in questo tribunale siano seguite fino in fondo tutte le regole della convivenza! Se sento un altro mormorio, di qualsiasi tipo, faccio svuotare l’aula e procedo a porte chiuse!». E poi, sulla contesa, dando per una volta ragione agli avvocati: «Quello che accade fuori da qui non ci interessa!». Prende la palla al balzo Salvagni: «Sono d’accordo con lei. Ma tutti noi» dice l’avvocato, «siamo rimasti sconvolti dalle affermazioni circa la conservazione precaria di questi dati, stupefatti dal caos totale che a detta della Pm regnerebbe nel laboratorio dei Ris! Questo» conclude, «è di una gravità assoluta. Non possiamo accettare che l’accusa produca i dati a rate! Vogliamo tutte le radiografie che spiegano i referti contenuti nella consulenza di Staiti e di Gentile!». L’atmosfera è così grave che si alza anche Paolo Camporini, l’uomo che tra i due avvocati è “il poliziotto buono”. Camporini è un “proceduralista” convinto che non mette mai in discussione il processo. Stavolta il più adirato sembra lui: «Siamo» esordisce, «a una lesione gravissima del diritto di difesa! Abbiamo accettato una limitazione alle nostre domande. Abbiamo accettato, responsabilmente di circoscrivere le richieste a slip e leggins…». Camporini prende un respiro, come per rallentare il ritmo dell’invettiva: «Per ben cinque volte, cinque! - leggete a pagina 111 del verbale - a mia domanda specifica, i capitani hanno risposto che quelli erano tutti i dati! Tutti! Lo hanno detto loro, non io!». Anche l’avvocato si tiene un petardo per la fine: «Voglio credere che su questa traccia non sia possibile far apparire dati diversi. Se questo accadesse domanderemo una perizia per verificare i sistemi informativi. È chiaro?». Camporini prende un altro respiro: «La pazienza l’abbiamo avuta finora, adesso è finita!» (Gong). La Bertoja sospende ancora una volta l’udienza, per consultarsi. Presidente e giuria si ritirano in Camera di consiglio per pochi, lunghi minuti. Poi torna, con una nuova mediazione. I Ris dovranno rispondere solo alle domande sui campioni che contengono ignoto numero uno. Ma sulla consegna dei dati grezzi il suo tono non pare conciliante: «I consulenti si pronunceranno su tutti i dati, che allo stato attuale sono tutti quelli esaminati. Il loro ruolo di pubblici ufficiali imporrà loro di render noti tutti i dati che troveranno. La Corte giudicherà». A chi ha datto ragione? Lo scopriremo solo nell’udienza clou, perché da lei arriva anche la data dell’ultimo duello: «I capitani faranno in modo di consegnare la risposta alle domande della difesa per il nove dicembre. L’undici verranno controinterrogati». Così, tra poco meno di un mese, per la terza volta, i Bill Murray dei Ris si risveglieranno in Aula per rispondere sui loro esami. Se arriveranno nuovi Raw-data la difesa salirà sulle barricate e potrebbe impugnare i verbali delle testimonianze rese sotto giuramento, e contestare dati grezzi nuovi e quindi ai suoi occhi “sospetti”. Ma questa volta sarà l’ultima, niente tempi supplementari. Una partita decisiva per il processo. Si attendono nuovi colpi di scena. ### Luca Telese, Libero 8/11/2015 «Avvocato, lei mi chiede di risponderle sui test che riguardano il campione G20. Ma io in questo momento non posso...». - «Cerchi tra le sue carte, fra i dati che ci avete fornito voi stessi». - «Purtroppo adesso non sono in grado di farlo. Ho bisogno di tempo. Quei dati vengono immagazzinati nel nostro sistema insieme ad altri dati, che appartengono a pratiche relative ad altri processi. Adesso non siamo in grado di distinguere, ci serve tempo». Così parlò Fabiano Gentile, superesperto dei Ris per gli esami sul Dna. Non solo a caldo, dunque, durante l’udienza di venerdi pomeriggio quando per la prima volta - durante un controinterrogatorio della Difesa di Massimo Bossetti - i due ufficiali scientifici dei carabinieri aveva chiesto una sospensione per provare a trovare il modo di rispondere in modo esatto alle domande agli avvocati. Ma anche alla ripresa, in serata, prima che a fine udienza la Presidente Bertoja, con un ennesimo colpo di scena, proponesse una nuova sospensione e un accordo di tregua: la difesa ha sette giorni di tempo per scrivere le sue domande, i Ris altrettanto per rispondere. Così è suonato il gong, ma proprio sul più bello del match, mentre la partita è aperta e ancora in corso. La Difesa è convinta di aver trovato la prova di quello che ripete da un anno, l’accusa frena i dubbi rispondendo che alla fine di questo «contest» tutto sarà chiarito. I RIS TEMPOREGGIANO Ma cosa vuol dire quella frase sibillina dell’ufficiale dei Ris sui dati non reperibili? Perché i Ris prendono tempo? È solo una tattica o ci sono delle ragioni? Per capire cosa sta accadendo davvero, in queste ore concitate è necessario provare a rispondere a queste domande. Enrico Mentana, parlando del caso Yara nel suo tiggì, pochi giorni fa, ha coniato questo titolo carlogaddiano: «Quel Pasticciaccio brutto dei furgoni dei Ris». Bene, quello che si è verificato in aula venerdi, durante la battaglia sul Dna di ignoto uno è un nuovo pasticciaccio ancora più complesso, ma forse anche un punto di svolta del processo. Riassunto delle puntate precedenti per chi se l’è perse: i due ufficiali dei Ris che hanno fatto la perizia più importante, quella sugli indumenti di Yara - Nicola Staiti e Fabiano Gentile - mentre erano controinterrogati dalla difesa, hanno alzato le mani dicendo che non erano in grado di rispondere alla domande sugli stessi dati che avevano fornito, il cosiddetti Raw data degli esami sul Dna, la «brutta copia» dei test decisivi che hanno incastro Bossetti. I due super esperti dei Ris, che fino a quel momento erano stati chiari ed efficaci, si sono come impallati mentre venivano interrogati sul numero di esami che avevano fatto sul campione G20, quello ormai noto a tutti, il frammento di mutandina dove gli esperti dei carabinieri dicono di aver trovato il dna del muratore. Fino a venerdì sopravviveva una leggenda metropolitana diffusa dall’accusa, e scritta persino in alcuni documenti ufficiali. Uno dei motivi per cui quell’esame era attendibile, dicevano gli inquirenti, è che era stato ripetuto, con risultati concordi, in ben quattro diversi laboratori (quelli che si erano occupati delle diverse analisi del caso). Ebbene, Staiti e Gentile ieri hanno dissolto questa leggenda. Domanda di Salvagni: «Siete voi l’unico laboratorio che ha lavorato sul campione G20?». Risposta di Staiti: «Sì, solo noi». Quindi gli altri laboratori non possono aver lavorato né sulla materia dei reperti, né sui dati grezzi delle analisi, ma solo sulla sequenza del Dna isolata dal nucleo scientifico dei carabinieri. IL SUPER DOCUMENTO E qui si arriva al primo problema che, comunque la si pensi sul caso, tutti si devono porre. I Raw data studiati da Marzio Capra, il superesperto della difesa (a sua volta un ex ufficiale dei Ris, un vero mago dei numeri e dei digrammi) secondo il genetista, dicono che i carabinieri hanno realizzato in laboratorio «solo» quattro «Amplificazioni». Ovvero: quattro diversi esami per mettere a fuoco la sequenza del Dna. Persino su quel «solo» c’è stata battaglia: un aggettivo contestato con una obiezione dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri perché lo trovava già tendenzioso. E aggettivo perfettamente calzante invece, secondo Capra, perché a suo parere quel numero limitato di prove metterebbe in discussione la validità dell’esame. Proviamo a capire perché. Gli avvocati Claudio Camporini e Claudio Salvagni brandiscono da mesi un documento importante, partorito da un altro processo. Si stratta della sentenza di Cassazione sul processo che ha coinvolto Salvatore Sollecito e Amanda Knox. In quel testo, che per ora fa giurisprudenza, i magistrati dell’alta Corte hanno fissato un principio di garanzia, per rispondere ai tanti problemi aperti dai molteplici casi di errore nella fase analitico emersi in questi anni (a partire dal ribaltamento della prova del reggiseno, grazia a cui l’avvocato Giulia Buongiorno ha vinto il processo). Secondo la Cassazione, perché un esame del Dna sia valido deve essere ripetuto almeno tre volte. Qual è il grande problema dello slip di Yara, il reperto che incastra Bossetti? Che quando è stato esaminato il muratore di Mapello, come è noto, non era nemmeno stato individuato. Quindi l’esame non è avvenuto (non era possibile) né alla presenza dei suoi avvocati, come si dice, «in garanzia». Ma nemmeno alla presenza dell’uomo che all’epoca era indagato, l’operaio Mohammed Fikri, che dopo quella data è stato riconosciuto innocente, prosciolto, e risarcito per ingiusta detenzione. Chi e cosa, dunque, si chiedono gli avvocati, può garantire Bossetti dall’idea di un possibile errore? Contrariamente a tutte le altre prove, quel test del dna non è stato nemmeno filmato. È diventato, insomma, un dogma di fede dei Ris. Ed è per questo stesso motivo che la Corte ha riconosciuto agli avvocati il diritto di visionare i dati grezzi. Incalzati sulla base dalla dinamica che Capra ha ricostruito su quei documenti, gli uomini dei Ris hanno preferito non rispondere alle domande sul numero di prove effettuate. Prima di quel momento, però, avevano spiegato le loro metodologie, raccontando di aver adoperato otto diversi kit di analisi, «i migliori reperibili sul mercato». Vero: ma quelli reperibili all’epoca. I kit più moderni - ci hanno spiegato sempre Staiti e Gentile - arrivano ad individuare oltre venti elementi distintivi di un Dna. Quelli che hanno adoperato i Ris all’epoca, perché gli altri non essitevano ancora, non più di 17. Ma per tracciare tutta la sequenza servivano almeno tre esami: uno che disegnasse la struttura del Dna in almeno tredici elementi, uno che stabilisse il sesso, uno che individuasse l’aplotipo X, ovvero quello che nella sequenza distingue l’identità che proviene dal genitore. I Ris, agendo correttamente, ma seguendo la priorità di allora (che era tracciare un profilo di un possibile sospetto), hanno fatto tutto questo con quattro esami, senza porsi il problema che tre anni più tardi avrebbero dovuto rispondere ai diritti di un indagato. E adesso quella risposta su «solo» quattro esami diventa cruciale: se dicono che sono «solo» quelli salta il processo, se dicono che sono di più ma non risultano dai Raw Data, rischiano che salti lo stesso (perché non li hanno forniti alla difesa malgrado la prescrizione della presidente). IL MISTERO ESAMI E qui arriviamo agli altri risultati, e alla difficoltà di distinguerli, che Capra chiarisce con un esempio illuminante. «È legittimo che i Ris stessero facendo anche altre analisi e anche su altri casi, e anche in contemporanea. È come se tu porti la macchina dal meccanico, e scopri che quello adesso lavora sulla tua Multipla, e in serata si dedica alla Mercedes del tuo vicino di casa...». E allora? «Allora - spiega Capra - il problema è che deve avere ben chiare e distinte tutte le operazioni: se vai a riprendere la macchina e tu gli chiedi se ti ha sostituito la frizione, non ti può rispondere: so che ho cambiato una frizione, ma adesso non so dirti se alla tua macchina o ad un’altra. Perché nel primo caso ha fatto bene - conclude Capra - nel secondo ha fatto un pasticcio». Ecco, adesso i Ris dovranno chiarire come hanno lavorato senza venire meno al registro fatture dei Raw Data. Tutti pensano a Bossetti, ma quello che accade in questa officina meccanica farà scuola sui casi dei prossimi venti anni. LA SCOMPARSA Yara Gambirasio, 13 anni, scompare venerdì 26 novembre 2010 alle 18.44. La ragazzina lascia da sola il Centro Sportivo di Brembate di Sopra (provincia di Bergamo) dove si allena in ginnastica ritmica, ma non arriva a casa, che dista solo 700 metri. Alle 18.47 il suo telefonino viene agganciato dalla cella di Mapello, a tre chilometri da Brembate, dopodiché il segnale scompare IL RITROVAMENTO Il corpo di Yara viene ritrovato casualmente tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011, da un aeromodellista in un campo aperto a Chignolo d’Isola, distante 10 chilometri circa da Brembate di Sopra L’ARRESTO Il 16 giugno 2014 viene arrestato Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore incensurato di 44 anni. A lui si è arrivati per la sovrapponibilità del suo DNA con quello di “Ignoto 1”, rilevato sugli indumenti intimi di Yara e ritenuto dall’accusa riconducibile all’assassino IL PROCESSO Il 26 febbraio 2015 vengono chiuse le indagini e per Bossetti, che resta l’unico indagato, viene chiesto il rinvio a giudizio, mentre la difesa ne chiede ripetutamente la scarcerazione. Il processo di primo grado al tribunale di Bergamo si apre il 3 luglio 2015: Bossetti è accusato di omicidio volontario aggravato e calunnia (nei confronti di un collega) ### Luca Telese, Libero 7/11/2015 CAOS SUL DNA: BLOCCATE LE TESTIMONIANZE DEI RIS Bergamo, ore 16.10, nuovo, ennesimo, incredibile colpo di scena sul Dna al processo per Yara: seduta sospesa, corte riunita per decidere se, e come, il processo può riprendere. Ore 16.20, tutti col fiato sospeso mentre sul banco dei testimoni i due supertesti dei Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile invocano una sorta di tregua dicendo: "Presidente, la risposta alle domande della difesa non possiamo darle, perché… in questo momento, per noi comporta un incredibile sforzo mnemonico". Incredibile sforzo mnemonico sui due reperti più importanti del processo, sulle domande a cui, in teoria, si erano preparati da un anno, addirittura sudati presentati da loro stessi. Possibile? Sì, perché si parla proprio della famosa traccia di Ignoto uno sullo slip, e della traccia di Silvia Brena (l’ex insegnante di Yara) sulla manica. Una traccia che ieri - stando alle parole dei due ufficiali - è risultata appartenere a un fluido biologico: una macchia lasciata da un fluido che, o è sangue, o contiene sangue.Ma quando, come e perché la Brena avrebbe dovuto avere un contatto di questa natura con Yara? Bel dilemma. Dopo alcuni minuti di raccoglimento la risposta arriva dalla presidente Bertoja che concede ai due una delazione, dettando, però,delle condizioni: "La difesa presenterà le domande che vuole fare, poi i Ris risponderanno in tempi brevi". Un esito imprevedibile. Come se nella finale di coppa Roma o Juve, dopo aver giocato i primi venti minuti (e incassato due goal) chiedessero la sospensione della partita perché i giocatori dicono che devono migliorare la loro condizione atletica. Eppure è quello che è accaduto ieri. Per capire questa conclusione (una mediazione dopo l’ennesimo duello a muso duro Accusa- Difesa) bisogna ripercorrere la cronaca di una giornata convulsa in cui non doveva accadere nulla, ed è successo tutto. La partita degli esami del Dna è decisiva, in particolare di quelli del cosiddetto "Reperto G20", la famosa porzione di mutandina di Yara (dov’è la traccia di Bossetti), e il cosiddetto "Reperto 27-62" (la manica del giubbotto dove è rimasta il Dna di un’altra persona: la sua ex istruttrice). Questa traccia, hanno ammesso i due Ris (a denti stretti) rivelava una intensità di reazione agli esami e una quantità addirittura superiore a quello di Ignoto uno. Così durante il punto più bello del controinterrogatorio, sul banco sedevano i due supercarabinieri che hanno materialmente eseguito gli esami che erano considerati prova regina. Gli avvocati Claudio Salvagni e Claudio Camporini, coadiuvati da un consulente tecnico che in quel laboratorio dei Ris ci ha lavorato una vita,Marzio Capra, hanno tempestato i due di domande su una materia che in teoria avrebbero dovuto padroneggiare: i cosiddetti "Raw data", ovvero "la brutta copia" degli esami con cui hanno inchiodato il muratore di Mapello. Erano stati loro stessi (due settimane fa, dopo un tira e molla durato dieci udienze) a consegnare questi "dati grezzi" che nel processo sono diventati cruciali: "Perché esaminare quei numeri? L’analisi - diceva la Pm Ruggeri ha già prodotto risultati!". Ma poiché l’esame sul Dna è irripetibile per esaurimento del campione, la "brutta copia" era stata riconosciuta dalla presidente Bertoja,nella prima udienza, un dato da far vagliare alla difesa. Inizia la seduta. Guardo Staiti e Gentile, che chiedono di sedere vicini per una testimonianza congiunta: "Abbiamo lavorato spalla a spalla", spiega Gentile. Non hanno divisa, giacca e cravatta: fanno a tutti una ottima impressione. Sono calmi, parlano chiaro, si concentrano - nella loro esposizione - sulla gerarchia delle cose importanti. Gentile, ha un filo di barba e baffi folti, spiega che hanno lavorato all’inchiesta fin dal primo giorno. Spiega la metodologia che hanno adottato. Spiega con molta linearità una cosa importante: "La traccia di ignoto uno sullo slip non è e non può contenere sperma". Spiega come hanno lavorato sui reperti, con grande scrupolo investigativo.Mentre racconta pare di vederli, i due, chini su quei poveri stracci con la lampada a lunghezza d’onda varabile (l’abbiamo imparata a conoscere nelle serie Crime) che battono il tessuto millimetro per millimetro. Gentile dice che quel Dna è lì "Senza margine di errore". Aggiunge che Ignoto uno è anche su un altro lembo di mutandina,quello laterale (in codice si chiama "31 G1 ext"). Staiti è esperto di violenza sessuali: racconta che alla luce della sua lunga esperienza, la presenza del Dna senza sperma, in quella posizione, è strano: "Io, in tanti anni questa cosa non l’avevo mai rilevata". Gentile, dice ancora che su quegli indumenti ci sono almeno tre tracce di altri Dna non ricostruibili. E da una misura alla traccia di ignoto uno sullo slip: "Un nanogrammo e due". Poi i due illustrano un dato da capogiro. "La possibilità che quella traccia sia di un uomo con Dna simile è un numero enorme: "3700 miliardi di miliardi di miliardi, di miliardi". Bene, penso,mentre scrivo sul taccuino: partita chiusa, ce ne torniamo a casa. E invece. Salvagni inizia a controinterrogare con pacata e cortese fermezza (ma la tensione si taglia con il coltello) e subito le certezze vacillano. Per esempio, quando fa una domanda semplice semplice, e cioè "Ricorda se la traccia Brena fosse visibile a occhio nudo?", Statimipare subito nervoso, fa lunghe perifrasi per non dare una risposta netta. Capisco perché poco dopo: "C’era una alone", dice. E qui entra in un tunnel che cambia la sua espressione della mattina pietrificandogli il volto: - Salvagni: "Avete fatto una indagine su quel fluido biologico che era sulla manica?". - (Silenzio). - Salvagni: "Fatta o no?". - Gentile: "Non mi risulta sia stata fatta" (brusio). - Salvagni: "E perché?". - Gentile: "Perché…gli esami sono distruttivi…. E prima non era stata fatta". Eppure, spiega il carabiniere, di questa traccia distrutta negli esami del Dna, c’è una misura indiretta: la risposta di fluorescenza: "Da Mille a diecimila", sulla scala di misurazione del picco. E’molto. Salvagni un po’ si arrabbia: "Ma scusate, avevate una traccia di una persona nota, era in una quantità che definite copiosa, e non verificate con gli esami del caso di che fluido corporeo si tratti?". Staiti è in imbarazzo. Si regge il mento con la mano, terreo: "Non aveva cromaticità". Cioè colore: dice proprio così. Direbbe George Orwell: "Tutti iDna sono uguali, alcuni più uguali". Ma il ritmo in aula accelera ancora. Da dove sono vedo di profilo il sorriso raggiante di Capra, che dà indicazioni all’avvocato mentre i suoi ex colleghi rispondono. Corpo a corpo: -Salvagni: "Non è curioso non aver fatto questi test?". - Staiti (seccato): "Non si fanno tutti i test su tutti i reperti!". - Salvagni: "Su quello forse sì, che dice?". -Staiti: "E’ la mia risposta". -Salvagni: "Accetto risposte che hanno logica! Qui non c’è". - Staiti: "No!Non è così…!". Salvagni: "Ma quanti Dna completi avete trovato?". Staiti (incerto): "Devo andare a leggere il rapporto…". Qui, forse, il nervosismo tradisce l’uomo dei Ris che incalzato sulla traccia della Brena ad un tratto esclama: "Era, per quanto circoscritta, di un fluido corposo". Ipotizza: "Noi sapevamo che la manica era un punto sensibile: si può trasportare un corpo,o sotto le ascelle, o per i polsi". L’avvocato chiede all’esperto: "Non le pare incredibile questo? Interessante per l’indagine?". Sulla suggestione del carabiniere, immagino una mano che stringe un polso per tirare un braccio: non vola una mosca. Salvagni: "Con la sua esperienza come si spiega la mancanza di tracce dei familiari di Yara sul suo corpo?". Staiti: (...)"Non si spiega". Salvagni: "Quella traccia può imprimersi per contatto?". Staiti: "Lo escluderei". Salvagni? "E allora?". Staiti: "Penso che fosse qualcosa di più corposo che conteneva sangue. Forse… muco?". Forse vomito? E qui si arriva alla domanda apparentemente astratta che crea il putiferio. Si parla dei kit che servono per fare le "estrazioni" del Dna. All’ epoca, per capire il sesso, l’aplotipo distintivo della madre, e le caratteristiche basiche, bisognava usarne almeno tre, con tre esami. Per questo il campione si è consumato nei ripetuti passaggi in laboratorio.Chiede l’avvocato: "Secondo lei,per essere scientifico, come dev’essere un esame?". Il supercarabiniere: "Ripetibile". L’avvocato: "In astratto o in concreto?". L’uomo dei Ris: "in concreto". Il problema è qui: se a Capra risultano solo quattro "amplificazioni" (ovvero esami) del più importante dei reperti (ignoto uno sullo slip) è evidente che non può essere stato ripetuto: Salvagni: "Le risulta che abbiate fatto solo quattro amplificazioni del G20?". Staiti: "Non ho modo". La Pm Ruggeri: "Mi oppongo! Non può dire ’solo’!!!!". Salvagni: "Io sono la difesa, dico quel che voglio! Mi risponda, se può". Staiti: "Non ricordo!" Salvagni: "Può controllare sulla sua relazione?". Staiti: "Non ricordo!". Salvagni: "Guardi le carte!". Staiti: "L’operazione è complessa, va letta una mole esorbitante di dati". Qui,come un deus ex machina - ultimo colpo di scena - si alza Marzio Capra con un dischetto: "Per aiutarla a trovare questo dato essenziale le posso dare la date degli esami. Io le ho trovate". Domanda: "Dove?". Sorriso: "Nei rawdata che mi avete dato voi!". Il perito ora è davvero è in difficoltà: "Sì, ma anche con la data io non posso… Quei dati sono misti ad altre pratiche" Salvagni: "Che pratiche?". Staiti: "Quelle di altri esami di altri casi…". La sala rumoreggia di sconcerto (anche io). La Ruggeri ruggisce girandosi verso il pubblico: "Silenzio!Vi faccio identificare dai carabinieri ed espellere dall’aula!!". I due esperti gettano la spugna: chiedono un’ ora per trovare le cifre. Questo particolare può invalidare l’esame e quindi il processo? LaBertoja ha polso e pragmatismo: "Va bene, La pausa pranzo è di un’ora: diamoci un’ora emezza". Ma non basta nemmeno quello:alla ripresa i due ufficiali sembrano le ombre degli uomini che erano entrati in aula. Le domande ripartono, e loro: "Lo sforzo è enorme, il tema delicato, serve più tempo". La Pm: “Aggiorniamo”. Camporini: "No,questo è il nodo decisivo di tutto il processo. E’ interesse di tutti!".Così si arriva a quella seconda, surreale, interminabile pausa. Sangue, giacche, mutande, fluidi corporei: giunto al giorno decisivo il processo si incaglia. Adesso la difesa ha sette giorni per mettere nero su bianco le domande. Guardo ancora una volta Massimo Bossetti. Una sfinge. Scruta Staiti e Gentile come fossero due fantasmi. Mastica chewingum lento. Darei qualsiasi cosa per capire se dietro quella maschera di impassibilità ha capito che per la prima volta,nella sua cella, avrà sette giorni di speranza da vivere. ### Matteo Pandini, Libero 6/11/2015 Il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago, ha lavorato sul caso di Yara Gambirasio in una doppia veste. Uomo dell’Arma e biologo di fiducia del pm. Incassando, oltre al normale stipendio, un’altra «liquidazione» che né l’interessato né la Procura di Bergamo intendono rivelare. Mentre Lago guidava il reparto di investigazione scientifica che dava la caccia al killer della 13enne, aveva infatti ottenuto un incarico dalla titolare della stessa inchiesta, Letizia Ruggeri, per «espletare consulenza tecnica genetica». Come chiarisce a Libero il pubblico ministero, Lago è stato scelto in qualità di scienziato, come se fosse un vero e proprio perito esterno. Una decisione analoga ha premiato la competenza del laboratorio di genetica forense dell’Università di Pavia, il cui responsabile è Carlo Previderè: anche lui ha dovuto scandagliare le tracce di ignoto 1, che secondo l’accusa corrispondono al profilo genetico del muratore di Mapello, Massimo Bossetti. Yara era scomparsa fuori dalla palestra di Brembate Sopra, Bergamo, il 26 novembre 2010 ed è stata trovata cadavere tre mesi dopo, in un campo a Chignolo d’Isola. Ricorderete. Per scovare il colpevole era stata avviata una ricerca a tappeto sul Dna rinvenuto sul corpo della vittima: una sfida difficile ma stimolante, tanto che il dottor Previderè ha accettato l’incarico di consulenza facendosi pagare solo le spese vive. È successa la stessa cosa col comandante dei Ris? Quest’ultimo, per effettuare approfondimenti, ha avuto carta bianca dal pm. Come scrive lui stesso in una relazione depositata negli atti dell’inchiesta, il magistrato gli ha concesso di «utilizzare le strutture del Ris e, ove necessario, anche altre strutture, pubbliche o private, anche al di fuori del territorio nazionale» e di «avvalersi per gli spostamenti del mezzo proprio» e di altri «ausiliari tecnici». L’indagine del dottor Lago è stata delicatissima: doveva ricavare «ogni informazione tecnicamente possibile dal materiale genetico estratto dai reperti (...) relativamente al profilo della vittima e al profilo maschile individuato come “ignoto 1” con particolare riferimento a dati diversi da quelli già tipizzati dal Ris di Parma». Un lavoraccio. Infatti Giampietro Lago, tenente colonnello dei carabinieri, biologo, dottore in scienze forensi e comandante dei Ris si è avvalso di strutture «specializzate e in particolare la “The George Washington University - Department of ForensicSciences” per le applicazioni sperimentali sulla determinazione dei tratti somatici» e l’università degli studi di Firenze «per le applicazioni relative alla tipizzazione del mtDna da traccia complessa (degradazione e mistura)». L’incarico a Lago è stato conferito il 26 settembre 2011 negli uffici della Procura di Bergamo, e si è messo al lavoro due giorni dopo, a Parma. «Ho fatto una consulenza tecnica come mi è stato chiesto dall’ufficio conferente l’incarico» spiega a Libero il comandante dei Ris. Domanda: è stato pagato per questa consulenza? «Non intendo rispondere, perché riguarda la mia persona e l’ufficio che mi ha dato l’incarico». Non si sbottona neanche il procuratore della Repubblica di Bergamo, Francesco Dettori: «Mi astengo da qualsiasi commento, anche perché è in corso il dibattimento. Parliamo di cose arcinote, ma la sede per discuterne è il processo». D’accordo, ma si può sapere se il dottor Lago è stato pagato anche come consulente? «Non commento» ribadisce Dettori. Letizia Ruggeri, invece, sottolinea a Libero che «ho conferito l’incarico al dottor Lago come biologo, quindi come consulente tecnico sugli aspetti che avete sentito. Quanto attiene alla liquidazione è di rilievo soltanto per i diretti interessati, non vedo un interesse pubblico alla conoscenza di questo aspetto». Tutte le spese per il caso di Yara sono elencate nell’ultimo di 60 faldoni che sono stati depositati come atti dell’inchiesta. Snocciola tutti gli interventi effettuati e i relativi costi. Costi che sono stati sostenuti dallo Stato. ### Luca Telese, Libero 1/11/2015 BOSSETTI, IL CARABINIERE AMMETTE: TAROCCATO IL VIDEO DEL FURGONE L’avvocato e il supercarabiniere, Claudio Salvagni e Giampiero Lago: un duello spettacolare. Nella giornata più importante del processo (fino ad oggi), Salvagni e Lago stanno discutendo di una prova decisiva: un filmato visto in tutte le televisioni, in tutti i programmi, in tutti i notiziari, quello in cui i carabinieri hanno montato i fotogrammi ripresi dalle telecamere di sorveglianza, in cui a detta degli inquirenti (fino ad oggi) appariva il furgone di Massimo Bossetti che gira freneticamente intorno alla palestra di Brembate la sera in cui è scomparsa Yara. Si è detto tante volte, lo hanno spiegato gli inquirenti: «È il predatore che si mette in caccia della sua preda». È una immagine che ha colpito molto, chiunque, anche me. Una di quelle che ronzano nella testa di chi è convinto che Bossetti sia un mostro che andava in cerca delle bambine, come i pedofili dei film. È il filmato che ha fatto litigare in carcere Marita e Massimo: «Tu quella sera erì li! Ti ho visto con il furgone! Che cosa facevi?». Anche lei aveva visto il filmino dei Ris e lo aveva creduto vero. Ieri ho scoperto dalla bocca del supercarabiniere più importante d’Italia due cose stupefacenti. La prima: che quel documento è stato confenzionato dai Ris e diffuso ai media, ma che incredibilmente non compare nel fascicolo processuale. E subito dopo ho scoperto un secondo elemento che non so come definire altrimenti: questo filmato, immaginifico e decisivo, è un falso. Un filmino tarocco. Tenete a mente questo botta e risposta, poi ci torniamo: _- «Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?»._- «Perché dice questo, avvocato?»._- «Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane!»._- «Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa»._- «Cosa vuol dire colonnello?»_- «È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa». La risposta di Lago mi lascia di stucco. Pensateci per un attimo. Giampietro Lago, il superpoliziotto, il comandante del Ris, l’uomo che dopo Luciano Garofalo è diventato il numero uno di tutte le indagini scientifiche coordinate dai carabinieri in Italia, sta dicendo che una delle immagini più suggestive di questo processo è stata assemblata dai suoi uffici non per dimostrare una tesi, o per documentare una verità, ma per condizionare i media con elementi di cui già si conosceva la non autenticità. Incredibile. Guardo Lago sul banco dei testimoni, con la sua montatura leggera, il vestito scuro, la cravatta, il tono cattedratico del carabiniere che parla come se fosse un professore universitario. Lago viene ascoltato, e sta raccontando dell’inchiesta sul delitto Yara, nell’aula di Bergamo, da tre lunghi giorni: nove ore solo venerdì pomeriggio. Un tempo infinito, soporifero, incomprensibilmente dilatato. Assisto per tutta la mattinata di venerdì alla sua deposizione, e penso che quasi quasi mi sta convincendo. Non per efficacia persuasiva: per sfinimento. Quando alle ultime battute del terzo giorno gli avvocati delle parti civili gli fanno delle rispettose domande, l’aula mormora di panico perché teme altre risposte prolisse, autorevoli e vacue: tutti guardano l’orologio. Tuttavia, in questi tre lunghi giorni, Lago mi ha quasi convinto dei capisaldi della sua tesi: _1) che le fibre del sedile del furgone di Bossetti sono inequivocabilmente sui vestiti di Yara _2) che il Dna è quello del muratore di Mapello_3) che sugli stessi panni ci sono delle minuscole sferette di metallo che quasi sicuramente provengono dal furgone di Bossetti. Poi improvvisamente la fiammata arriva il controinterrogatorio e, in un solo pomeriggio, il lavoro persuasivo di tre giorni crolla come un castello di carte, proprio per via di questo bombardamento di Salvagni. L’avvocato comincia chiedendo pazientemente come sia identificato il furgone di Bossetti. Poi chiede in quali fotogrammi Lago sia inequivocabilmente certo che il furgone sia quello. Ed è a questo punto che il colonnello commette il suo vero passo falso, ammettendo che nella maggior parte dei fotogrammi non c’è nessuna certezza che sia il suo. Il resto è una scena così veloce che la maggior parte delle persone, nel pubblico, non si rende conto di cosa stia accadendo. Salvagni fa collegare lo spinotto del computer al monitor dell’aula e trasmette quel video. Lago inizia a discuterne. E fa quelle incredibili ammissioni. A questo punto, mentre gli avvocati stanno gridando mentre le voci degli avvocati Salvagni, Camporini e del colonnello si sovrappongono si alza il pubblico ministero Letizia Ruggeri: «Presidente, questo video non è nella relazione che abbiamo consegnato! Presidente!!!». E Camporini, girandosi di lato: «E allora?». La Ruggeri, arrabbiata: «Non è nel fascicolo, non lo potete mostrare in questa aula». Risposta: «Lo avete fatto voi! È un vostro documento». La Ruggeri: «Non è nel fascicolo!». Putiferio. Camporini: «Chiedo che sia messo a disposizione della Corte l’intero materiale acquisito con le telecamere di videosorveglianza!». A questo punto interviene la presidente Bertoja che, in qualche modo, accetta le obiezioni del Pm: «Se non è nella relazione del Ris non ci interessa minimamente». Adesso: se dal punto di vista processuale questo può avere un senso, questo significa solo che bisognerebbe acquisire subito agli atti quel video. Ripenso infatti alle parole di Lago: «Il video è stato concordato con la procura a fronte delle numerose richieste di chiarimento». Tradotto in parole povere: siccome bisognava convincere la stampa della colpevolezza di Bossetti, «per fini di comunicazione» i Ris hanno «confezionato» quel video. Il Reparto fiction che serve a smussare i dubbi dei giornalisti? Sono sempre più perplesso, quando il controinterrogatorio arriva alle famose sferette. Lago, la mattina, con i suoi tempi, quando nessuno gli faceva domande, ci aveva spiegato questo: c’erano tante microparticelle ferrose, presenti sui vesti di Yara «centinaia» al momento dei ritrovamento del corpo, secondo lui provenivano dal furgone di Bossetti. Per farlo è partito alla sua maniera spiegando cos’è un microscopio elettronico, come funziona, le unità di misura… Ci ha spiegato che «le sferette», «hanno forme ben precise», che sono «tipiche delle attività antropioche che hanno a che fare con il ferro». Che «sui sedili del furgone di Bossetti di queste sferette ce ne sono migliaia». E poi ha aggiunto un dettaglio che dovrebbe conferire un crisma di indubitabile scientificità all’inchiesta: per capire se Yara poteva avere o meno sul suo corpo queste benedette sferette di metallo, i Ris sono andati a prendere addirittura quattro studenti di terza media di una scuola di Parma, che hanno più o meno la stessa età e la stessa vita che aveva Yara, li hanno testati con gli stessi strumenti, e hanno scoperto questo: su di loro solo due hanno addosso quattro sferette. Gli altri due ne hanno zero. Conclusione del professor-colonnello Lago: «La cosa più probabile è che queste centinaia di sferette sui vestiti di Yara arrivino dalle migliaia di sferette sui sedili di Bossetti». Chiaro, no? E invece, poi, in un pugno di minuti, ancora una volta il controinterrogatorio di Salvagni ha effetti devastanti sulle certezze dei Ris. «Colonnello, i quattro ragazzi che avete esaminato sono stati scelti con criteri statistici?». Lago fiuta la trappola: «Io non ho mai parlato di criteri statistici». Ma questo è un dato che lei ritiene statisticamente significativo?». E il colonnello: «No, non è significativo statisticamente». Salvagni: «Ma voi avete fatto questo stesso esame delle sferette sugli abiti della sorella di Yara, su quelli dei genitori?». Risposta: «No, non lo abbiamo fatto». Salvagni: «I ragazzi esaminati venivano dal vostro territorio?». Lago: «Dal parmigiano, sì». L’avvocasto di Bossetti, osa, e fa centro: «Appartenenti all’arma?». Lago: «Sì, parenti di appartenenti all’arma». Salvagni: «Avete verificato se ci sono acciaierie sul territorio?». La presidente si spazientisce: «Sarebbe stata una perdita di tempo!». E invece quello che capisco da questo controinterrogatorio è clamoroso, e si ripeterà pari pari anche sulle famose fibre dei furgoni. I Ris non hanno cercato dei ragazzi che frequentavano ambienti simili, ma sono andati, per comodità, a prendere qualcuno vicini alla loro sede: ma è ovvio che a Carrara i ragazzi avranno più probabilità di avere addosso polvere di marmo, così come è chiaro che a Dalmine potrebbe essere più facile avere residui ferrosi. Domanda chiave dell’avvocato: «Avevate a disposizione la macchina della famiglia Gambirasio, avete fatto un test su quei sedili?». Risposta di Lago: «No». Altra domanda: «Avete preso in considerazione dei muratori?». Risposta laconica: «No». Ancora l’avvocato:«Avete esaminato il furgone della palestra?». Risposta del supercabinieire: «No: è stata fatta un’altra scelta investigativa. Stavamo seguendo la ragazza». Salvagni: «Ma dopo avete controllato?». Risposta: «No. Sarebbe stato interessante, dal punto di vista investigativo. Ma dal punto di vista delle risorse…». Mi chiedo: ma se si tratta di ferro, l’assassino non potrebbe essere un fabbro, o un tornitore? Chiudo il taccuino e penso: in una inchiesta costata un paio di milioni di euro in cui si è risaliti al Dna di Batta Guerinoni nell’anno di grazia millessettecento, il supercarabiniere è andato ad esaminare dei ragazzi a Parma, ma nessuno ha avuto l’idea geniale di fare l’esame sulle fibre e sulle sferette delle macchine che Yara frequentava tutti i giorni. E nessuno ha pensato di esaminare l’unico furgone che è stato sicuramente avvistato da testimoni a Brembate, la sera della scomparsa. Forse non sarebbe emerso nulla. Chissà. Ma me ne vado da Bergamo pensando ai tre lunghi giorni di deposizione di Lago, e al video tarocco: essere noioso, quasi mai significa essere autorevole. Ma in questo caso significa sicuramente non esserlo. di Luca Telese ### Luca Telese, Libero 18/10/2015 YARA, L’ESAME DELLE CELLE TELEFONICHE DÀ UNA MANO A BOSSETTI- «Presidente! Presidente!». Ormai sto imparando a riconoscere i momenti in cui in questo processo la Pm Letizia Ruggeri sta per muovere guerra. Accade in ogni udienza, all’improvviso, in modo sempre imprevedibile. Ma accade sempre. Succede proprio quando il dibattito sembra avvolgersi nel più sonnolento e ovattato dei ritmi tribunalizi. La Ruggeri si accende, si innesca come un ordigno a comando remoto. Ad un tratto alza la testa come un predatore che punta la preda, si aggiusta la toga, come un moschettiere con il suo mantello. Da dietro vedi i riccioli che iniziano ad ondeggiare mentre fa No-No con la testa, ed è come un segnale, il drappo di una bandiera di guerra che inizia a sventolare. Poi il pubblico ministero prende un respiro, alza la tonalità della voce di un semitono. E infine inizia a caricare a testa bassa contro uomini, avvocati e cose senza risparmiare nulla e nessuno. In questo periodo, il predatore d’aula predilige la caccia ai consulenti della difesa. «Presidente, cosa è quella roba!?». La Ruggeri sta indicando il monitor dell’aula con una smorfia di disgusto dipinta sul viso, i riccioli già vibrano: ed ecco cosa succede al malcapitato consulente della difesa, Giuseppe Dezzani, reo di aver predisposto e fatto proiettare alla giuria, senza il suo consenso, una mappa della bergamasca che serve a capire dove e come agganciano le famose celle telefoniche che monitorano segretamente le nostre vite. Io, preso dalla suggestione del momento, stavo già chiudendo gli occhi per immaginare meglio, e - siccome in questo processo c’è l’inventario del contemporaneo - pensavo di raccontare tutta l’iniziatica discussione della mattinata prendendo in prestito la celebre matrice di “Matrix”, il capolavoro fanta-cinematografico dei fratelli Walchowsky. Chiedevo gli occhi, ascoltavo i periti parlare, immaginavo il mondo come ce lo raccontano loro: solo un enorme flusso di dati elettronici, di impulsi che ognuno di noi trasmette attraverso il suo telefonino, quasi in ogni momento. Siamo tutti tracciabili, ognuno di noi un puntino intermittente nella rete. Io, mentre guardavo la mappa di Dezzani, pensavo che ancora una volta il processo a Giuseppe Bossetti ci squaderna davanti il Grande fratello tecnologico in cui siamo immersi, la battaglia fra chi pensa razionalmente che in questa matrice ognuno di noi possa essere sempre incastrato e la lotta con la forza indomabile del caos che rompe ogni schema. Tutto questo mentre la mappa di Dezzani ci doveva far capire dov’era Yara quando manda il suo ultimo sms, e dove Massimo Bossetti, quando il suo telefonino aggancia l’ultima volta dalla cella di Mapello in via Natta. Capire il raggio di azione delle celle serve a spiegare se il muratore, la sera della scomparsa di Yara, poteva essere davvero ad un passo dalla palestra di Brembate vicino alla ragazza o - come abbiamo scoperto questa settimana - a casa sua. Ma proprio allora la Ruggeri inizia a ruggire: _- «Presidente, cosa sono quelle linee rosse su quella mappa?»._- «Non lo so, lo chieda alla difesa»._- «Presidente, posso rispondere io: sono delle linee rosse». _- «Grazie avvocato lo vedo da me che sono rosse! Ma chi le ha tracciate, cosa indicano? Chi le ha fatte!?»._- «Caro pubblico ministero, le ha tracciate il nostro tecnico. Indicano il campo di ricezione delle celle telefoniche»._- «No avvocato, quelle linee non dicono nulla! Quali tecnici le hanno tracciate? Lei sarebbe il tecnico della difesa?»._- «Sì, il tecnico che le ha tracciate sono io: sono un informatico»._- «Lei è un informatico? Lei non sa niente di celle!»._- «Sono una mia specializzazione»._- «Che titolo accademico ha? Che sarebbero quelle linee? E quei cerchi avvocato?»._- «Sono come il simbolo di una Mercedes. Il nostro perito le ha disegnate sulla base dei dati della Vodafone, per dimostrare il campo di irradiazione delle onde e...»._- «Ma che dice? Sono disegnate a capocchia, non vogliono dire nulla! Sono disegnate a capocchia!». Bergamo, udienza settimanale del venerdì: nel giorno in cui il teste principale è Giuseppe Gatti, un compassato tecnico delle celle telefoniche, in teoria non dovrebbe accadere nulla. Invece, come sempre al processo per l’omicidio di Yara, la polemica avvampa: fuochi d’artificio, dispute senza fine, battaglia criminologica tra accusa e difesa in cui ogni dettaglio infinitesimale può orientare il processo. Mentre sono seduto in mezzo al pubblico, mi viene in mente che per divertirsi questa giornata va raccontata come un esercizio di stile alla Raymond Queneau. 1) Articolo colpevolista - Sul banco dei testimoni c’è Gatti, un poliziotto senza qualifiche tecniche, ma con enorme esperienza sul campo. Uomo sobrio, di poche parole, senza grilli per la testa. Ci spiega che le celle telefoniche sono una rete invisibile che ci circonda ovunque: una rete elastica, che si flette e si dilata, a cui nessuno sfugge. Anche nel punto del mondo in cui state leggendo questo articolo, proprio adesso, c’è una cella titolare. Ma se c’è troppo traffico, o in condizioni climatiche particolari, il vostro telefonino può spostarsi su un’altra cella. Queste celle, se interrogate con sapienza, ci dicono tutto delle nostre vite, e ci dimostrano anche perché Bossetti è colpevole. Queste celle conservano i dati per due anni, e gli inquirenti, quando è scomparsa Yara - spiega Gatti - hanno chiesto alla Vodafone di congelare tutto il traffico di tutta la bergamasca. Parliamo di un numero che quasi non si può pronunciare, 118mila utenze, 52 mila milioni di chiamate e di traffico dati. Da questo mondo Gatti e gli inquirenti hanno iniziato a isolare due puntini: Yara Gambirasio e Giuseppe Bossetti. Certo, quei dati sono numeri, non intercettazioni, ma un buon inquirente quei numeri li può far parlare. Scavando in questa montagna, per esempio, può scoprire che «Bossetti prima della scomparsa di Yara era andato a Chignolo solo 13 volte. Mentre nei sei mesi successivi ci torna ben 195 volte!». Questo numero di Gatti in Aula colpisce tutti. Chignolo, luogo di morte: perché Bossetti ci torna così spesso dopo il delitto? Non è finita. Il consulente tutto sa, tutto può vedere. Scava nei punti luminosi della matrice, li incrocia con il calendario, ci racconta che il giorno in cui la signora Ester Arzuffi viene chiamata per l’esame del Dna c’è un gran traffico di telefonate. Da casa Bossetti alla signora Ester, dalla signora Bossetti alla polizia, poi dalla signora Ester a Fabio Bossetti, infine da Bossetti alla signora Ester. Che cosa si dicevano? Perché tanta agitazione? Già. C’è persino lo spazio per un po’ di simpatico pettegolezzo: lo sapevate che Marita Bossetti, mentre accompagna il marito, trova il tempo di scambiare un sms con un certo signor Massimo Bonalumi, che l’accusa ha individuato come un possibile amante della signora? E infine, il colpo di scena del poliziotto Gatti. In quel novembre in cui Yara muore, non è strano che «Tra il 21 e il 28 non ci sia nessun contatto telefonico tra Marita Bossetti e suo marito Massimo»? I numeri della matrice, interrogati, hanno parlato. Ci raccontano una famiglia in cui si nasconde qualcosa, dove ci si agita per un test del Dna, una moglie che manda messaggini agli amanti ma non al marito, di un marito che non parla con la moglie, ci raccontano che Bossetti era lì, a Brembate, come un lupo che cerca la sua preda. Tracciato fino alle 17.45, ultimo aggancio al settore tre della cella di via Mapello. Poi telefono muto. Un’ora prima di rapire Yara. 2) Articolo innocentista - Giuseppe Gatti ha i suoi rapporti davanti a se, tutti addobbati di ordinati pizzini che lo aiutano a trovare i punti e i dati. È un uomo calmo, pacato, ma quando inizia il controinterrogatorio dell’avvocato Paolo Camporini si perde un po’._- «Lei è un perito?»._- «La mia unica formazione è l’esperienza, ho un diploma tecnico». Camporini è affabile ma malizioso: nel rapporto di Gatti vede che cita come riferimento un libro di un certo professor Pozzato di Pordenone. Un testo del 2008, un po’ vecchiotto. Chiede: «È questo il suo riferimento?». Gatti vacilla, non ricorda, balbetta, non risponde. La Ruggeri capisce l’insidia e si arrabbia: «Presidente, lo ha spiegato a pagina 8!». Camporini sorride: «Guardi che Gatti non ha bisogno di un difensore, ma di una risposta!». E inizia a tempestarlo. Da questo controinterrogatorio, scopriamo ancora una volta alcune clamorose novità rispetto all’inchiesta. E cioè che alcun indizi considerati come certezze, certezze non sono. Ad esempio Camporini chiede: «Il telefonino di Yara era sicuramente in movimento, perché aggancia diverse celle, oppure potrebbe essere rimasto fermo, e solo le celle variavano?». Gatti risponde: «Non è possibile stabilire con certezza se era in movimento». E quanto è il campo d’irradiazione di una cella? «Una ventina di chilometri, credo», dice il perito. Camporini incalza: «Ma lei qui ha scritto 35 chilometri!». E il perito: «Non glielo so dire con esattezza!». L’avvocato: «Quindi potrebbe essere che io faccio una telefonata, la mia cella non mi riceve, e allora vengo agganciato da un’altra?». Gatti: «Non le so rispondere, io mi baso sui tabulati». Scopriamo che queste celle sono divise in tre settori, ognuno dei quali copre 120 gradi. Ecco l’immagine del mirino della Mercedes. Quindi una cella può intercettare un telefono a Brembate, ma anche in direzione opposta, per un raggio di 30 chilometri? «Non so. Per me è possibile, ma improbabile». Camporini: «Lo può escludere?». «Non lo posso escludere». Scopriamo che quando l’accusa dice intercettato «a Chignolo», in realtà, indica una delle dieci diverse celle che insistono sulla zona di Chignolo (ma anche per venti chilometri in direzione opposta!). Scopriamo anche che Bossetti, dopo quel 26 novembre, aveva un cantiere che era a poca distanza, a Bonate. E che quindi poteva agganciare una cella che copriva sia Chignolo che Bonate. Scopriamo che la cella di Mapello, via Natta, «Poteva agganciare anche a casa di Bossetti». Quindi il lupo poteva essere a Brembate, ma anche a casa sua, a falciare il prato? Il periodo di buio nei contatti con la moglie, non è il solo nel lungo periodo monitorato. Per giorni e giorni solo un contatto. Infine, l’ultimo colpo di scena: Bossetti ha un telefonino Nokia 3220, molto arcaico, rispetto agli smartphone di oggi: «Quindi - chiede Camporini - non è sicuro che lo avesse spento?». Gatti risponde, con tono di voce molto bassa: «Poteva essere in una zona non servita, o spento, o inattivo». Il lupo può essere lupo, ma anche pecora. Le celle sono uno strumento esatto, ma con un raggio molto incerto. Il telefonino che avete in tasca vi può portare alla sedia elettrica. Ma anche no. Per fortuna. di Luca Telese ### Luca Telese, Libero 11/10/2015 «Lei ha dei problemi con i tribunali?». «Nessun problema». «Lavora per l’Asl, ma quali sono le sue reali competenze?». «Se le interessa ho lavorato su circa 2.500 cadaveri nella mia vita». «Lei si occupa di medicina legale previdenziale?». «Sì, ma ho sempre fatto il medico legale autoptico». Tribunale di Bergamo, ore 12.00 e un pugno di minuti che corrono, rumore di vetri infranti, cortesia formale e scintille di odio. La Pm ha appena dato alla perita della difesa della “Parafangara”: quel “previdenziale”, cioè, vuol dire che si occupa di incidenti d’auto. Non so se riuscite a immaginare l’asettica e chirurgica ferocia, la spietatezza di un duello tra donne che avvampa come una fiammata di acetilene compresso dentro la liturgia severa, e apparentemente ignifuga, del processo penale. Bene, non basta. Era più che un duello, quello che si è celebrato nell’aula: uno scontro antropologico, un corpo a corpo di sciabola e fioretto, combattuto - però - con le lame intinte nel curaro. La prima spadaccina, la Pm Letizia Ruggeri, ve l’ho già raccontata. Volto affilato, capelli ricci, occhi come due tizzoni neri e cipiglio da maestra severa. Una donna tutta casual che arriva sempre in Tribunale con un sorriso furbo apparecchiato sul viso, i pantaloni corti da marinaretto che mostrano i polpacci, e la toga infilata in una busta plasticata (quelle che al supermercato un euro): solennità e anticonformismo in un incarto spesa e frullate con ritmo rock. La Ruggeri finì sui giornali per essere arrivata in carcere, per gli interrogatori, a bordo di una rombante moto Honda. La seconda duellante, invece, esordiva come perita della difesa, ma è nota al pubblico televisivo per la sua carriera, costellata di processi importanti. Eppure Dalila Ranalletta non potrebbe essere più lontana dalla Ruggeri. Bonaria e imperturbabile, una voce profonda al punto da sembrare radiofonica, un sorriso tanto serafico da sembrare ineffabile, capelli corti e bruni, una che guarda le giurie e le ipnotizza, tende a prenderle per mano, con la dolcezza di una pedagoga da scuola primaria. Collocate la prima sul banco dell’accusa, la seconda su quello dei testimoni, immaginate che fino a quel momento i taccuini dei cronisti erano candidi come lenzuola, e poi assistete a questa deflagrazione come quando dopo il silenzio del buio i fuochi d’artificio iniziano a infiammare i cieli delle sagre di paese con luci e detonazioni: - «Lei ha lavorato come consulente per il Tribunale di Viterbo?», chiede la Ruggeri. - «Sì», risponde pacata la Ranalletta. - (Affondo) «Mi conferma che ha avuto problemi?». - (Pausa) «No, nessun problema». - «Mi conferma che la commissione Antimafia ha avuto dei problemi con lei?», chiede ancora la Pm. - «Assolutamente no», risponde la Ranalletta. - «Lei non ricorda che una sua perizia è stata definita negligente e insufficiente? E...». E a questo punto si vede l’avvocato di Bossetti, Paolo Camporini che fa quasi un salto sul banco, assume una colorazione rosso gambero, e si mette letteralmente a gridare: «Mi oppongo! Signor giudice mi oppongo!». La Pm continua: «Negligente e insufficiente...». Camporini è esterrefatto: «Ma tutto questo è inaccettabile! Inaccettabile signor giudice!». L’avvocato aggiunto allarga le braccia e si gira verso la presidente. I giurati, imbanditi nelle loro sfavillanti fasce tricolore, girano la testa da un capo all’altro come se seguissero una partita di ping pong. Lei, la perita accolta dal fuoco di contraerea dell’accusa, guarda solo la Ruggeri, sempre apparentemente serafica, anche se dovrebbe essere furibonda. Però mostra le unghie lanciando una stoccata alla principale perita dell’accusa, à la guerre comme à la guerre: «Ripeto: non ho nessun problema con nessuna procura. Ma se lei è appassionata ai contenziosi giudiziari le chiederei qualcosa sull’autopsia della Cattaneo sul caso Cucchi...». La Ruggeri, granitica: «Non ha problemi?». La Ranalletta, con un filo di rabbia che si insinua nella sua voce: «Se lei riporta dei giudizi offensivi farò partire denunce per diffamazione». Camporini, gridando: «Se tutto questo viene tollerato chiederò di acquisire quell’autopsia!!!». Ed è a questo punto che la presidente della corte, Antonella Bertoja, suona il gong e ferma la Pm: «Nei fatti che stiamo citando non c’è nessuna rilevanza ai fine del processo». Se ci fosse la diretta televisiva sarebbe un fermo immagine spettacolare. I capelli biondi e il tono elegante della Bertoja, il sorriso della Ranalletta, che ora pare scolpito. I ricci elettrizzati della Ruggeri, che per un attimo si ferma. Bisogna solo aggiungere rudimenti di anatomia, botanica, entomologia, un pugno di dettagli raccapriccianti dal film horror, foto dell’autopsia e del cadavere che hanno costretto la Bertoja a far uscire il pubblico, per capire come mai sembra improvvisamente di essersi infilati dentro il copione de Il silenzio degli innocenti, per spiegare come mai tutto questo era maledettamente importante per stabile cosa sia veramente accaduto a Yara. E dire che, dopo cinque udienze, doveva essere una giornata tranquilla. Nessun testimone. Nessun poliziotto. Nessun parente. Nulla di rilevante nella lista audizioni, e addirittura il supertecnico delle celle telefoniche che salta. Insomma, venerdì, guardando l’ordine del giorno del processo, tutti pensavano: «Non accadrà nulla». La Ranaletta aveva già parlato in apertura, convocata dagli avvocati della difesa. Claudio Salvagni e Paolo Camporini facevano testimoniare la loro esperta, con tono apparentemente piano. Eppure qualcosa faceva preoccupare la Ruggeri, che intuiva subito quello che agli altri in aula non era chiaro. L’esperta di anatomopatologia, infatti, introduce un termine specialistico che per i più suona ostrogoto: corificazione: «Vuole spiegare cosa significa questa parola?». La Ranalletta è paziente, chiara, quasi didascalica: «Si tratta di una particolare forma di decomposizione del cadavere. L’epidermide assume la consistenza del cuoio...». Ma mentre la spiegazione prosegue, la Ruggeri intuisce tutte le conseguenze. Infatti la Ranalletta spiega che la corificazione si produce in condizioni climatiche particolari, al chiuso, e poi aggiunge che i campioni di piante trovati sul corpo - in particolare il filo di erba e una foglia - possono appartenere al campo di Chignolo ma anche ad un altro, quindi si dedica alla datazione e aggiunge che ciò che la rende certa è il processo digestivo della vittima, ma subito dopo spiega che non si sa cosa abbia mangiato esattamente Yara - la testimonianza della madre era discordante con i primi referti - e infine si dedica alle ferite, spiegando che non possono essere state inferte alla ragazza con i vestiti indosso. In meno di mezz’ora, con questa lezione apparentemente serafica, La Ranalletta ha demolito tre pilastri del teorema accusatorio: Yara potrebbe essere morta molto più tardi delle 20.00, ma anche delle 24.00, potrebbe essere stata uccisa e conservata in un altro luogo, con un clima diverso dal campo, è stata svestita e rivestita. Gli avvocati della difesa finiscono, si va in pausa, i dubbi iniziano a materializzarsi, davanti agli occhi della giuria, con un ritmo ipnotico, ma costante, in un alternarsi ritmato di scienza e didattica. La perita sta modellando la perizia della Cattaneo, fino a quel momento pilastro dell’accusa, come una vaso di creta al tornio: «Sono d’accordo con lei quando vi dice: “Io non ve lo so dire...”». La Ruggeri mostra notevole prontezza di riflessi, e grande capacità di intuire il pericolo: le stanno sbullonando il processo. Ed è così che quando alle 12.00 si riprende rovescia sull’anatomopatologa il suo possente fuoco di contraerea. È asciutta, dura, algida ma impeccabile: «Lei è una botanica?». E poi: «Lei ha una cattedra?». E poi: «Lei ha competenze tossicologiche?». Ancora Camporini: «Ma basta! questo non è un processo alla consulente!». Sta di fatto che, quando apparentemente si parla dei succhi gastrici di Yara, in realtà la Ranalletta sta combattendo sull’ora del decesso: «Come fa a dire che non c’è azione combinata di freddo e acetone?». Sottotitolo: tu non ne capisci nulla. La Ruggeri va all’attacco: «Lei dice che aveva molto liquido acido nello stomaco?». La perita: «Si parla di 30-40 centilitri» La Pm: «E come fa a dirlo?». La Ranalletta stavolta esibisce un sorriso trionfante: «Lo dice la perizia!». Ancora la Ruggeri: «Ma come fa a dire che il decesso si colloca in un’ora diversa da quella di cui parliamo?». La Ranalletta: «Lo dice la perizia della Cattaneo». Adesso, nell’aula, il gioco è chiaro a tutti: la Ranalletta, evitato l’affondo mortale, sta girando le carte che la mattina aveva calato coperte. Tutte le sue tesi le sostiene usando il documento principale dell’accusa, la perizia della Cattaneo (che fra l’altro è presente). Il segnale che l’accusa incassa il colpo è l’entrata in scena della Bertoja, e una sua battuta, che arriva come un sigillo sulle tesi della Ranalletta: «Non ci cono contraddizioni con quanto afferma la Cattaneo». Adesso i fendenti volano, è la Ranalletta ad attaccare, spiegando che la fibra vegetale che era nella mano di Yara è molto comune: «Questa mattina ho visto quella stessa erba nei prati vicino al mio albergo». La Ruggeri: «Nel mio giardino non c’è!». La Ranalletta sgrana il suo sorriso, e assesta il colpo: «Se avessi trovato un’orchidea sudrafricana sarebbe stato significativo... In questo caso no». La Pm chiede: «Ma allora come si spiega il materiale botanico nella mano della vittima? È anche in quel campo». La perita per la prima volta alza la voce: «Io un’idea ce l’ho! Il cadavere è stato buttato lì!». Spostate lo sguardo, per un attimo, su Bossetti. Muto, impassibile. Ha visto tutti i reperti fotografici senza mostrare un solo filo di emozione. Unico dettaglio: ha smesso di masticare il chewin gum. Orco o innocente, di certo un enigma. Si combatte sui vestiti, e stavolta la Ruggeri si lascia prendere dalla rabbia: «Lei dice che il taglio lungo il leggins è lungo 25 millimetri. Ma sa quanti sono 25 millimetri!?». La perita, prende una pausa, e poi sospira con perfido candore: «Sì: sono due centimetri e e mezzo». Il pubblico rumoreggia. «Ma dove lo vede?», dice la Pm. Di nuovo la Ranalletta recita la parte della professoressa preparata che riprende la studentessa distratta: «Lo trova a pagina 168 della relazione». Quando si parla dei famosi leggins la Ranalletta prende due fogli per dimostrare che non possono corrispondere: «Non è uguale!», sussurra la sostituta alla Bertoja. Come dire: «Ha ragione». Ma il colpo definitivo, per l’accusa, arriva dalla presidente, con una domanda che contiene già un rimprovero: «L’accertamento dell’infiltrazione ematica nel suolo avrebbe aiutato a stabilire il ruolo della morte?». Non è ostrogoto nemmeno stavolta, ma un boomerang che volteggiava in cielo dall’altra udienza, perché nei processi accade anche questo. Durante la deposizione della Cattaneo era emerso che non erano stati fatti rilievi sul sangue sotto il corpo. A lei non spettava, a chi spettava? Non importa più, non è stato fatto, e la responsabilità è di chi conduceva le indagini, cioè la Ruggeri. La Ranalletta lo sa, ed è spietata: «Se non avessimo trovato sangue si sarebbe potuto sicuramente dire che il corpo è stato portato». La Ruggeri ha una buona idea. Riporta sul banco dei testimoni la Cattaneo. Ma la luminare - a parte uno spiraglio sulla corificazone - non può che confermare che tutti gli elementi della Ranalletta sono contenuti nella sua perizia. Quindi il colpo di scena ha funzionato: se l’ora slitta, non può essere stato Bossetti, che secondo i carabinieri alle 19.52 era già a Brembate. E se Yara non è stata uccisa a Chignolo non è stato il muratore, che secondo la polizia non aveva un luogo dove tenerla e ha agito per un raptus. L’udienza è finita, la folla sciama. Se questa battaglia si combatte sul corpo, cosa potrà accadere quando si parlerà del Dna? ### Luca Telese, Libero 3/10/2015 L’INDAGINE SU BOSSETTI è COMINCIATA NEL… 1719- E poi, dal banco dei testimoni, come un colpo di scena silenziato, con una frase in codice quasi criptata, arriva - per la prima volta in aula - l’ ammissione di una notizia che circolava da mesi in modo carsico, o correndo sottotraccia, o affiorando di rimbalzo dalle perizie. Sta parlando l’ ex capo della squadra mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini. È il momento del controinterrogatorio degli avvocati di Bossetti, siamo nel primo pomeriggio di una giornata terribilmente lenta, tra i banchi del pubblico del tribunale di Bergamo qualcuno addirittura sonnecchia. Anche la domanda arriva un po’ schermata, con calcolata furbizia processuale, in questa eterna partita tra accusa e difesa, dove nessuno dei duellanti vuole mai girare le proprie carte. L’ avvocato Claudio Salvagni sta parlando d’ altro, ma poi lascia cadere la domanda con apparente noncuranza: «E quindi ho capito bene quello che lei ha detto stamattina? L’ esame del Dna di Ester Arzuffi, non era andato a buon fine?». Bonafini prende un respiro lungo, rallenta con perizia il ritmo spedito del suo eloquio precedente. E poi, misurando ogni sillaba, dice con termini quasi asettici: «Sì, è vero.... l’ esame della traccia mitocondriale aveva dato esito negativo». Ovvero, tradotto in italiano: la polizia era già arrivata alla madre di Massimo Bossetti, ben due anni prima (!) dell’ arresto del muratore di Mapello. L’ aveva inserita in un gruppo di trentatré persone individuate sottoposte all’ esame del Dna, con intuizioni investigative degne di un romanzo poliziesco. Ma poi in laboratorio, per quanto possa sembrare incredibile (scopriremo presto per colpa di chi, forse dei carabinieri) erano arrivati i campioni sbagliati, e la donna non era stata individuata. Infatti il Dna della signora Ester non era stato confrontato con quello del sospettato, «Ignoto numero uno» (come era ovvio fare) ma con quello della madre di Yara (che nulla aveva a che vedere con lei). Tra cronisti e giornalisti era già noto, certo: ma sentirlo ripetere nel processo, in questo modo diagonale, fa impressione, soprattutto al termine di un interrogatorio avvincente, che a tratti sembra una lezione di criminologia del terzo millennio. Guardo per un attimo l’ ex capo della Squadra mobile di Bergamo, ora a Venezia, seduto davanti alla Corte. Bonafini ha un bel viso regolare, dimostra meno di quarant’ anni, ha un filo di barba perfettamente curata, veste di grigio, ha una cravatta blu con pallini bianchi, mani veloci, all’ occorrenza le lascia pescare tra i faldoni che squaderna davanti a se, come un pianista che le fa correre sulla tastiera. Come un concertista esperto che non ha bisogno di controllare lo spartito, Bonafini non guarda mai in basso. Si sta parlando di un fascicolo, per esempio, e la presidente lo sventola: «Le serve la sigla?». E lui, senza abbassare lo sguardo alza la mano stringendolo tra le dita: «Grazie ma l’ ho già trovato». In una giornata in cui non ci sono apparenti colpi di scena, dentro le architetture squadrate di acciaio e vetro del nuovo tribunale, si può restare per un attimo incantati di fronte a questo paradosso. Individuare il filo tenace e certosino di una indagine che a tratti assomiglia ad un censimento sociologico, intravedere il disegno imponente e ambizioso degli investigatori, capire la cura attenta e maniacale dei dettagli. Ma poi rimanere di stucco di fronte a questa constatazione: avevano in mano Ester Arzuffi due anni prima dell’ arresto di Bossetti, ma non si erano accorti che era proprio lei la donna che stavano cercando ovunque. Questa prima ricerca ieri, nel racconto di Bonafini, ha anche trovato una data esatta: «Seguendo il filo logico della nostra inchiesta eravamo arrivati ad isolare un gruppo di trentatré soggetti emigrati negli anni dalla zona della Val Seriana a quella dell’ Isola di Bergamo. Ester Arfuffi aveva preso residenza nel 1966 a Parre, e nel 1969 a Brembate, e quindi rientrava pienamente in questi criteri. Abbiamo prelevato il suo campione il 27 luglio del 2012». Ma come si era arrivati a quel gruppo? Anche quello che pensavamo di sapere già, difronte al racconto dell’ ex capo delle indagini di Polizia quasi impallidisce. Bonafini ripercorre l’ incredibile mole di ipotesi e di tentativi, i numeri davvero impressionanti di questo censimento poliziesco. Ad esempio: «Uno dei primi numeri con cui ci siamo confrontati è quello degli iscritti alla discoteca Sabbie Mobili». È il primo bandolo dell’ indagine, il locale che sta di fronte al campo dove è stato trovato il cadavere: «Si trattava di 31.926 nominativi, una cifra da capogiro, per provare a controllarli tutti. Dovevamo restringere il campo». Come? «Abbiamo isolato i campi di indagine. Ad esempio prendendo tutti quelli che avevano i telefonini accesi tra le 17.30 e le 18.55,nelle celle telefoniche della zona dove è scomparsa Yara». Quanti? «120mila». E poi? «Tutti quelli che erano nelle liste dei telefoni captati dalle celle e che avevano anche la tessera delle Sabbie Mobili». In questo modo quanti se ne selezionano? «Altri 6mila soggetti». E poi quelli con precedenti penali per reati sessuali (provate a indovinare? Ben 47!). «Oppure - continua Bonafini - cercando, con l’ incrocio dei database, tutti quelli che abitavano a Brembate di sopra». E così «si arriva ad altri 476 nomi». Intuizione giusta, perché fra questi nomi c’ è quello di Damiano Guerinoni, il ragazzo che è nipote del padre naturale di Bossetti, l’ autista Damiano Guerinoni. Ma per poter risalire, da lui fino a quello zio, si deve imbastire una indagine nell’ indagine, quasi una ricerca genealogica. Spiega ancora Bonafini: «Siamo partiti da lontano....». Dice il poliziotto. «E cioè?», chiede la presidente. Risposta: «Da Batta, cioè Battista Guerinoni, il capostipite della famiglia, nato nel 1719». Per quanto possa sembrare strano, per la seconda volta, in questo incredibile processo, in aula si ride. Ma Bonafini sembra uno specialista in Araldica e snocciola nomi e date: «Siamo scesi dritti lungo l’ albero genealogico a Fantino Guerinoni nato nel 1751. Poi a Girolamo nato nel 1788... Poi a Gioangelo nato nel 1905 e Giogaetano nato nel 1912 ...». Guardo per un attimo il viso allibito di Bossetti: sta scoprendo per la prima volta l’ elenco dei suoi trisavoli. Giuseppe Guerinoni autista è del 1935. Ha lo stesso aplotipo Y del ragazzo Damiano, ma nessuno - all’ epoca - ha il suo Dna completo. Apprendiamo da Bonafini che prima questo Dna è stato prima ricostruito desumendolo in laboratorio da quello dei figli legittimi, poi da due cartoline miracolosamente conservate dalla figlia Daniela, che il papà le aveva inviato da Salice Terme (lasciando tracce del suo dna salivale sui francobolli che aveva leccato nel lontano 1980). «Poi una seconda conferma arriva dalla marca da bollo staccata da una patente conservata dal figlio Pierpaolo, e infine dal Dna viene definitivamente confermato - spiega Bonafini - con la riesumazione, a nostro parere nemmeno opportuna della salma». Avevano il padre, ma come è noto mancava il Dna del figlio. «Allora, per non lasciare nulla al caso - spiega l’ ex capo della mobile mentre sale un brusio di stupore - abbiamo cercato tutti i Guerinoni dell’ isola bergamasca, tutti quelli dei dodici nuclei familiari Guerinoni censiti, tutti i Guerinoni di tutti i paesi della provincia, tutti i Guerinoni che possedevano un furgone o una utenza telefonica che fosse accesa il giorno della scomparsa». Ma anche in quel caso non trovano nessuno: «Così ci mettiamo a cercare un figlio naturale, illegittimo, o non riconosciuto». E, contemporaneamente, tutte le donne che potrebbero avuto a che fare con Damiano Guerinoni. Ovvero: «Tutte le donne nate dopo il 1938, e tutte quelle che risulta avere incontrato dopo il 1952». Mormorio. «Perché proprio quella data?», chiede l’ avvocato Camporini. Altra risposta sicura, altra risata in aula: «Abbiamo immaginato che partisse da 17 anni la.... data della potenziale fertilità». Vengono sottoposte a tampone tutte le donne che nelle due valli frequentate da Guerinoni nella sua vita hanno lavorato, fatto le cameriere nei bar, servito nei night club, tutte le donne di Salice Terme in quella fascia di età, persino chi ha esercitato la nobile arte della prostituzione. E intanto si scandagliano anche tutti gli ex bambini nati tra il 1953 e il 1975 tra Isola bergamasca e Val Brembana. Quanti? Di nuovo le mani del pianista corrono tra i faldoni: «Per l’ esattezza 1715 persone». Il raggio della ricerca delle potenziali parenti si estende fino a 28 comuni. «Poi ci si concentra su 539 soggetti, 252 maschi, 287 femmine nati tra il 1920 e il 1970 e emigrati fuori. Testavamo il Dna mitocondriale - spiega Bonafini - cercavamo la linea di discendenza matrilineare». E così che si era arrivati, scrematura dopo scrematura, ai famosi «33 soggetti emigranti verso Brembate», è così che, nel 2012, avevano già rintracciato l’ ago sottile di Ester nello sterminato pagliaio della bergamasca. Solo che chi deve mandare il campione del mitocondriale di Ignoto numero uno al laboratorio si sbaglia. Incredibile ma vero. La provincia stratigrafata, prima con le anagrafi, poi con i tabulati delle compagnie di telefonia mobile, in una folle corsa contro il tempo. Perché una volta individuati i nomi, ci voleva tempo per acquisirli, e bisognava far presto «perché sapevano che dopo due anni i tabulati sarebbero stati cancellati». Quanti ne avete esaminati, alla fine? «Tantissimi. Più di 17mila. Non era mai accaduto che le compagnie telefoniche facessero ricerche di quel tipo, è stata la prima volta», spiega Bonafini. Già: ma dopo questo processo, capiterà sempre. Esco dal Tribunale sempre più convinto che - nel bene e nel male - questo processo cambierà il modo di indagare, di giudicare, e persino qualcosa delle nostre frenetiche vite. di Luca Telese ### Luca Telese, Libero 19/9/2015 Il colpo di scena della seconda giornata del processo Gambirasio, arriva nel tribunale di Bergamo quando meno te lo aspetti. Arriva in maniera quasi casuale, dopo un fitto batti e ribatti, quando la sorella di Yara, Keba, risponde alle domande degli avvocati dicendo: «Era nato un battibecco, per modo di dire, su chi tra noi due avrebbe dovuto portare la radio in palestra». L’ avvocato Camporini le chiede: «Da quando?». Keba prende un respiro, ci pensa: «Da tanto. Ma non mesi… Meno di una settimana… diciamo… tre giorni». E, incalza l’ avvocato, «quando si è risolto il dilemma?». «Quello stesso pomeriggio». Come per tutti i particolari di questo processo, anche il minimo dettaglio ha grandissime conseguenze sulle ipotesi e sull’ impianto accusatorio di tutta l’ indagine. È così anche stavolta. Nello stesso giorno, infatti, il perito dell’ accusa, Mattia Epifani, racconta che Yara non aveva accesso a nessun social network. Che non aveva profili Facebook. Che quel giorno non c’ è stato traffico, telefonate o sms dal suo cellulare. Sintesi: «Non abbiamo trovato prove di comunicazioni con soggetti terzi». Un bel problema. Keba aggiunge anche che subito dopo questa discussione, dopo pranzo, Yara non ha parlato con nessuno, ed è rimasta a casa a fare i compiti, nella stanza che condivide con lei. La conseguenza di quella discussione, in apparenza innocente, tra due sorelle che vogliono andare in palestra, e una madre chiamata a dirimere la questione, la capisco solo dopo un po’. Ancora Keba: «Non abbiamo detto a nessuno che sarebbe andata lei». Ma allora, se non ci sono sms, mail, telefonate, vuol dire che nessuno fuori della famiglia Gambirasio poteva sapere che Yara sarebbe stata in palestra, né tantomeno a che ora sarebbe uscita da lì. Cade l’ idea dell’ appuntamento, cade, di conseguenza, l’ idea che conoscesse il suo assassino. Eppure gli inquirenti ne sono così convinti che l’ unico capo di imputazione che hanno risparmiato a Bossetti è «sequestro di persona». Yara sarebbe salita in macchina di sua spontanea volontà, e la perizia sulle fibre dei sedili presenti sui suoi leggings prodotta dall’ accusa, proverebbe addirittura che è rimasta seduta «in posizione eretta», senza dimenarsi. Ma Bossetti come avrebbe potuto sapere quello che era stato deciso nella famiglia Gambirasio, se nulla era uscito dalla porta della casa di Brembate? Quella di ieri, apparentemente, sarebbe dovuta essere una giornata di interrogatori calma, senza colpi di scena. E invece, come per magia, a fine giornata, mille informazioni si compongono nel taccuino, regalando diverse sorprese. E – per un nonnulla – la tensione tremenda che sempre aleggia in aula esplode, regalando meravigliose contese da trial movie. Come quando, proprio discutendo della perizia sul telefonino di Yara, l’ avvocato Camporini prova a chiedere al tecnico: «Questo telefonino che funzioni ha?». La Ruggeri salta sulla sedia come un puma: «Mi oppongo, signor giudice, non pertinente! Il mio perito ha lavorato sul contenuto del telefonino, non sul telefonino!». Camporini risponde con una flemma quasi ostentata: «Vostro onore, sono consapevole che qualcuno possa non capire, ma la difesa spiegherà solo alla fine il perché, e l’ estrema importanza di alcuni elementi». La Ruggeri: «Ehhh…». Camporini: «Non glielo anticipo: pazienti…». Qui, sorprendendo tutti, la Ruggeri vede rosso e alza la voce: «Io non capisco perché l’ accusa debba girare tutte le sue carte, e la difesa pretenda di mantenere ogni cosa coperta!». Camporini gongola: «Sarà una sorpresa, eh eh». La pm è furibonda, ricorre al sarcasmo: «E certo, come no? Adesso salterà fuori che Yara ha fotografato il suo assassino e lo scoprono loro». Sono seduto proprio alle spalle dei banchi delle parti. Per un attimo mi perdo nella meraviglia dei dettagli. La difesa è decisamente dandy: Camporini, scarpe Duilio in pelle a tre colori; Claudio Salvagni calzini monotinta con ranocchie verdi fosforescenti. La Ruggeri, invece, sbarazzina: sotto la severità della toga e la gorgiera di pizzo bianco, pantaloni a pinocchietto verde pisello. Un conflitto antropologico, una tempesta perfetta, incomunicabilità tra pop-inquisizione e difensori liberal-chic. Anche Keba Gambirasio, come tutte le ragazze di questa storia, è una ragazza bella. Mentre parla, seduta in equilibrio sulla punta della sedia, mentre si morde le labbra nei momenti morti, provo indovinare il colore dei suoi occhi, a metà tra il verde chiaro e il grigio. Il perfetto taglio delle arcate sopracciliari regala luce allo sguardo. Anche Keba dice di non ricordare molte cose. Si dimentica addirittura che negli interrogatori aveva indicato un fidanzatino: «Io e mia sorella non parlavamo molto di queste cose». Però, quando Camporini le dice che lui, «maggiore» come lei doveva sorvegliare il proprio fratello, Keba rivela: «Le guardavo il diario per controllare se aveva fatto i compiti». E Bossetti? Lo riconosce, per caso? «Mai, mai… mai visto no». Alla domanda su perché abbia cambiato il suo account sul computer proprio la mattina dopo la scomparsa, Keba scuote il capo: «Non lo so. Non ricordo». Anche il dettaglio sugli autobus diventa importante: «Per andare a scuola – dice la sorella di Yara – prendevamo quelli di linea blu. I più vecchi avevano i sedili di pelle rossa. Gli altri di stoffa… grigia». Gli avvocati di Bossetti si scambiano sguardi soddisfatti: i sedili di stoffa, infatti, possono giustificare le fibre. Ma il tempo della battaglia su questo elemento di prova deve ancora venire. Quando entra Matthias Foresti, il cosiddetto «fidanzato di Yara», mi domando perché l’ accusa lo abbia convocato. È un ragazzo molto carino, con il viso regolare, un ciuffo fantastico. Racconta che lui e Yara hanno avuto «una simpatia un po’ accesa» (risate in sala), ma che (per un anno!) questa relazione si è potuta sviluppare «solo per telefono». Come mai? «Le chiedevo “Dove ci vediamo?”, e lei mi rispondeva: “Mia madre non mi lascia uscire”». Fabrizio Francese, l’ ultimo uomo che ha visto Yara viva, è il testimone che ogni inquirente sogna di incontrare. Preciso, meticoloso, esibisce una memoria di ferro, e se c’ è qualcosa che non torna sa spiegare perché. La sua precisione sposta anche ora la datazione del delitto di Yara, e forse avrà delle conseguenze. Ecco perché. Francese sta tornando da Milano, in treno. Arriva alla stazione alle 18.24. Perché? «Perché ricordo che sono partito alle 17.39». Ricorda di aver ricevuto una chiamata della compagna alle 18.34. Perché? «Perché mi chiedeva se riuscivo a prendere la bambina in palestra, ho guardato l’ ora». E perché? «Dovevo capire se facevo in tempo ad arrivare. Ero nel parcheggio, ho detto sì». E allora prende la macchina corre in palestra. Parcheggia lontano: «Ci avrò messo in tutto dieci minuti. Non vedo nessuno, non incontro nessuno, entro dall’ ingresso principale. All’ altezza di un colonnino di cemento del corridoio incrocio Yara». È sicuro: «Sicurissimo. La conoscevo». Come mai? «L’ avevo conosciuta alle gare». E che succede? «Le faccio: “Ciao Yara!”. Anche lei mi saluta. O meglio, voglio essere preciso. Mi risponde con un sorriso. Aveva il passo spedito di chi sta andando da qualche parte». Perché è molto importante questa testimonianza? Perché ci dice che «Alle 18.44 Yara è ancora lì». Salto sul taccuino, fino alla testimonianza del poliziotto che raccoglie la denuncia di papà: «L’ ultimo aggancio del cellulare è alle 18.55, a Brembate, in via Ruggeri». Penso all’ inchiesta, alla perizia sui furgoni secondo cui Bossetti sarebbe corso fino a Chignolo (almeno 45 minuti andare e tornare), e faccio due conti. Secondo l’ accusa era alla stazione di servizio alle 18.40, avrebbe dovuto caricare Yara pochi minuti dopo, uscire da Brembate non prima delle 19.00, andare e tornare in venti minuti a viaggio. Quindi gli restano solo venti minuti per uccidere Yara nel campo di Chignolo. E qui tutto si incastra con l’ aspetto più interessante della testimonianza di Ilario Scotti, l’ aeromodellista che ritrova il corpo di Yara. Scotti è un altro bergamasco fantastico: dice solo quello di cui è certo. Ma conosce benissimo quel campo. Tutti restano colpiti dal dettaglio pittoresco del «guardone» che rimane a fissarlo un quarto d’ ora, da lontano, quando trova il corpo, «e fugge via quando sente le sirene». Ma su questo forse ha ragione la Ruggeri: «Non mi pare un comportamento furbo – dice mentre mette via la toga – per un assassino». Scotti, però, dice un’ altra cosa. In tre mesi è stato a Chignolo non meno di dieci volte. Scopre Yara solo perché deve recuperare un suo aeromodello bianco e rosso caduto nel campo. È la seconda volta che gli succede, e deve fare una fatica incredibile per ritrovarlo. Perché? «Perché in quella stagione c’ erano cespugli irti e pieni di aculei, era impossibile avanzare dritti». E quindi? «Ho dovuto fare diverse serpentine per aggirare gli ostacoli». Ha impiegato quasi dieci minuti per fare i duecento metri che lo separavano dal suo aereo: «Solo dopo averlo recuperato ho visto il corpo». Quindi Bossetti in una sola ora avrebbe dovuto immobilizzare Yara, andare a Chignolo, portare il corpo in mezzo a quei rovi, mutilarlo in modo osceno, correre per tornare indietro entro le 20.00. La testimonianza di Ippoliti fa cadere l’ ipotesi che Yara sia arrivata lì con le sue gambe. Ne porterebbe i segni, come minimo, sui vestiti. Il tempo, adesso è un elastico: più si ritarda la partenza, meno tempo c’ è per uccidere e tornare alle 20.00. La prova delle fotocamere che deve incastrare Bossetti, potrebbe diventare, per paradosso, il suo alibi. Luca Telese ### Luca Telese, Libero 13/9/2015 «Sa che cosa c’è? Non so cosa risponderle: non mi ricordo». Silvia Brena è bella. Ma Silvia Brena è terribilmente evasiva. Silvia Brena sorride e allarga le braccia, sul banco dei testimoni del Tribunale di Bergamo, e tutti i riflettori si stringono su di lei. Se in questo processo non fossero vietate le riprese televisive, oggi sarebbe già diventata una star dei programmi del pomeriggio. È la quindicesima volta consecutiva che Silvia ripete di non ricordare quello che lei stessa aveva testimoniato agli agenti. Gli avvocati Paolo Camporini e Claudio Salvagni la stanno sottoponendo a un quarto grado di quelli che nemmeno Perry Mason. La domanda è una di quelle importanti: «Ricorda di essersi scambiata un messaggio con suo fratello, alle 18.35?». Risposta: «No». Domanda: «E ricorda di averlo cancellato subito dopo?». E lei: «No, non ricordo». Domanda: «Ma non è strano che sia lei che suo fratello abbiate entrambi cancellato solo quello?». Risposta: «Sì, forse. Ma se io non ricordo….». Le chiedono: «Ricorda di aver visto Yara, seduta in palestra?». «Se l’ho detto doveva essere così». Ancora gli avvocati: «Ma si ricorda almeno di aver detto di aver ricevuto delle avances in palestra?». «No, non ricordo». Salvagni cela nei toni garbati uno moto di stizza: «Ma come può aver dimenticato? Le leggo la sua deposizione!». E allora lei: «Ah, sì, adesso che me lo dice, mi ricordo». Si ricorda di aver pianto, a casa, la sera della scomparsa, come ha raccontato suo padre? «No, non ricordo. Ma se lui l’ha detto è possibile». È come un giallo, un mistero, ma anche come un film. È come un labirinto in cui si perde, come una lavagna cancellata. Le amiche di Yara, le sue compagne di palestra. Tutte carine, tutte sveglie, tutte capaci di esprimersi in un italiano compito, forbito, prive di qualsiasi inflessione dialettale. Sono l’altra faccia di questo processo: nulla a che vedere con la bergamasca tribale, segreta, talvolta torbida, rivelata dall’inchiesta: sono perfette, si assomigliano, potrebbero essere uscite dal casting una serie americana, hanno i capelli giusti, gli occhi che brillano, un look acqua e sapone. Solo che c’è anche questo dettaglio: dicono tutte di non ricordarsi nulla. Silvia Brena ha un sorriso solare, disarmante, che non corrisponde con l’espressione corrucciata del suo viso, a tratti terreo e pietrificato. Silvia in tribunale a Bergamo usa quel sorriso come un soldato spartano incastrato in una falange userebbe il suo scudo: per proteggersi. Silvia è una delle testimoni chiave che sfilano tra il pomeriggio e la sera della seconda giornata del processo per il delitto Yara. Silvia è l’unica persona – oltre a Massimo Bossetti – che ha lasciato il suo Dna sui vestiti di Yara. Sulla manica del giaccone, per l’esattezza. Tutte le testimonianze dicono che quando lei è entrata in palestra Yara non aveva la giacca, lei non ricorda di averle parlato, e dice di essere andata in un altro piano a fare degli esercizi. Ma allora quel Dna da dove arriva? «Non lo so». È un processo strano, quello di Bergamo: la mattina di venerdì si faceva a pugni per entrare in aula, il recinto dei giornalisti era affollato, le parabole dei tiggì hanno fatto gli straordinari per coprire le testimonianze del padre e della madre. Ma quando dopo una maratona devastante iniziano a sfilare le amiche e le ex compagne di corso di Yara, a sentirle non c’è quasi più nessuno. Ecco Daniela Rossi, una delle maestre: «Quando la mamma di Yara mi chiamò la prima volta non mi sono preoccupata, pensavo che Yara si fosse fermata a salutare qualcuno». Ecco una ex compagna, Ilaria Ravasio, due di loro sono ancora minorenni. Durante l’udienza la testimonianza della Brena diventa il pretesto per un corpo a corpo tra legali e presidente della corte degno di un capitolo di Grisham: «Signorina Brena, vorrei chiederle. Lei ha usato la macchina tornando a casa?». E la presidente: «Avvocato Salvagni, questa domanda non è attinente!». E il legale di Bossetti: «Mi oppongo, signor presidente: se non è attinente la testimonianza dell’istruttrice di Yara, che cosa lo è?». Risposta: «Allora faccia domande su Yara, non sul privato della teste». Mugugno: «Allora riformulo: Signorina Brena, dopo aver lasciato Yara, che mezzo ha usato per uscire…?». E si continua così, con toni da legal thriller, ma con l’inesorabile consequenzialità di ogni mossa, come se si trattasse di una partita a scacchi. Avevo letto le testimonianze rese nel 2010 da Silvia e dalle altre ragazze. Ma fino a che non ho sentito il racconto della mamma di Yara, e fino a che non le ho viste in Aula, non avevo capito quanto potessero essere importanti. Intanto c’è un dato anagrafico: leggevi maestra, nei fascicoli, ma solo con il processo capisci che le «maestre» non erano donne fatte, ma ragazze di diciotto-venti anni, che imparavano dai grandi e insegnavano alle piccole. Oggi le amiche di Yara sono appena diventate maggiorenni, e hanno l’età che il giorno del delitto avevano le loro istruttrici: anche Yara oggi avrebbe diciotto anni. Le prime e le seconde, e la media tra ieri e oggi è il punto medio di una generazione. Mi colpisce moltissimo anche la testimonianza di Martina Dolci. Ha diciotto anni, uno sguardo spaurito da cerbiatta. Martina in questo processo è un teste decisivo perché è lei che ha ricevuto l’ultimo messaggio di Yara, l’ultimo contatto in vita. La mattina mamma Maura Panarese, la signora Gambirasio aveva descritto il legame di ferro di queste tre amiche, che con regolarità sorprendente mangiavano insieme, andavano in palestra insieme, giocavano insieme, partecipavano alle gare insieme. L’avvocato Camporini chiede a Martina: «Ricorda di aver ricevuto il messaggio di Yara?». E alllora anche lei allarga i suoi occhi stupiti da cerbiatta: «No, non ricordo». Mi chiedo: ma come è possibile? L’evento più grande e terribile della sua vita, dimenticato così? «Ricorda se Yara aveva degli amori, se parlava di ragazzi?». E lei: «Veramente noi parlavamo poco di cose private, solo di ginnastica». L’avvocato è incredulo: «Ma non eravate amiche per la pelle?». E lei: «I nostri rapporti dipendevano soprattutto dalla ginnastica». È a questo punto del pomeriggio che mi chiedo: hanno solo paura o nascondono qualcosa? Anche Laura Capelli era stata una maestra di Yara, anche lei ha oggi venticinque anni. È lei che aveva avvisato Silvia Brena, quella sera. Anche Laura è carina, seria, scrupolosa. Ma a tratti anche lei non ricorda bene: «Capisce, è passato tanto tempo». Le chiedono: «Ricorda che il fratello della Brena frequentasse il centro?». Risposta: «No, assolutamente». Allora l’avvocato Camporini si spazientisce: «Ma come? Se nella testimonianza aveva detto che aveva lavorato al bar!». E lei: «Ha ragione, avevo dimenticato». La mattina, la signora Gambirasio aveva rivelato una circostanza incredibile: la tata di Yara, che le dava una mano a casa, e che nel tempo era diventata una delle sue migliori amiche, era la signora Aurora Zanni. Ma la signora Zanni era anche la moglie del cugino di Giuseppe Guerinoni, l’autista che nel 1969 aveva avuto una storia con Ester Arzuffi. Guerinoni è il padre naturale di Massimo Bossetti. Fa un po’ di impressione scoprire che il figlio di Aurora, Damiano, all’epoca ventenne, fosse un habituè della casa dei Gambirasio. Il ragazzo nei giorni del delitto era nel Mato Grosso, ma frequentava un luogo cruciale di questo delitto, la discoteca «Sabbie mobili». Sarebbe sua la traccia di Dna da cui si è risaliti alla Arzuffi, e quindi a Bossetti. Anche Silvia Brena in aula ripete: «Frequentavo la discoteca Sabbie mobili». Il corpo di Yara è stato ritrovato nel campo di Chignolo, esattamente di fronte alla discoteca. Chiedono alla Brena, ancora una volta: «Si ricorda dove è stato ritrovato il corpo di Yara?». La risposta, so che non ci crederete, è: «No, non mi ricordo». Ho ascoltato con attenzione la mamma di Yara. Mentre parla Silvia ripenso alle sue parole. Sono rimasto stupito dal rigore della signora Maura, dalla sua meticolosità, dalla sua precisione. Ad un certo punto, durante la deposizione, si finisce a parlare – perché nei processi capita anche questo – della biancheria intima di Yara: «Ricorda quale reggiseno indossasse?», chiede l’avvocato Camporini. E la presidente: «Ma avvocato, come pretende che si ricordi? Anche io ho una figlia, so di cosa parlo!». E la madre di Yara, impassibile: «Mi permetta, presidente, ma ricordo benissimo che era un reggiseno rosa, sportivo, reagalatole dalla zia». A questo punto l’avvocato è incuriosito: «E come fa ad esserne sicura?». Risposta: «Ho comprato io tutta la biancheria di Yara. Erano pochi capi. E quando quella mattina ho visto quel rosa, ho capito che aveva scelto quello». Faccio un altro esempio. La madre di Yara racconta di essere entrata in allarme già alle 18.45: «Io le avevo detto di tornare alle 18.30. Lei voleva tornare più tardi. Le ho detto: allora alle 18.45. Non avrebbe mai potuto tardare senza informarmi». E il percorso del ritorno: «Le avevo detto quale strada fare, incrocio per incrocio. E le avevo raccomandato di passare sul lato del marciapiede dove sono i lampioni, quello con più luce». Allora la presidente le dice: «Ma mica può essere sicura che lo facesse…». E la signora Maura: «E invece lo sono. Le spiego. Quando tornavo da fuori, se era nell’orario in cui Yara rincasava, facevo quel percorso con la macchina, proprio per incrociarla: nel 99% dei casi la trovavo proprio lì». Poteva accadere una cosa così a una madre come questa? Mentre passano le ore, e sfilano i testimoni, mi viene in mente questo mondo dove Yara è cresciuta. Regole e orari, una madre straordinaria, affettuosa, ma attentissima. Mamma Maura dice: «A catechismo non ci era voluta andare più per una sua scelta. La palestra era un luogo sicuro». Aggiunge: «So che qualcuno la prendeva in giro per l’apparecchio. Ragazzate. Mi pare che la chiamassero “Coyote”. Ma non erano cose serie». Gli avvocati, però, trovano, spulciando in biblioteca, che Yara aveva preso in prestito due libri sul bullismo (uno si intitola «Brutta», la storia di una figlia angosciata da una madre oppressiva). Lei rimane stupita: «Non li avevo visti». Il signor Gambirasio piange e fa piangere tutti quando racconta con una voce bellissima che si arrochisce e si incrina: «Era il collante, il sale di questa famiglia, aveva l’argento addosso! Tu le chiedevi un bicchier d’acqua, e lei te lo portava facendo la ruota». E ride, e piange, e non c’è soluzione di continuità. Piange e singhiozza soprattutto quando è costretto a ripercorrere il suo girovagare disperato per le strade, e gli precipita addosso l’angoscia di quella sera. Non vuole crollare. Si ferma. La presidente lo aiuta con una domanda. Ma lui piange di nuovo. Racconta, però, c’è la strada era bloccata per dei lavori. Molti non si accorgono delle conseguenze di questa battuta, ma la pm Ruggeri e gli avvocati sì. Se c’erano i lavori com’è possibile che Bossetti girasse in tondo con il suo furgone “da predatore?”. Quella frase, tra le lacrime, ha incrinato un teorema dell’accusa. È un processo così, intricato come un sudoku. Dietro ogni dettaglio c’è una conseguenza, dietro ogni lacrima c’è un colpo di scena. Ma la vera notizia sono queste ragazze che sembrano saltate fuori da un altro mondo, da un film come “Il giardino delle vergini suicide”, di Sofia Coppola, queste ragazze belle e smemorate, che forse tacciono solo per prudenza, ma che forse nascondono qualcosa. Yara era una tredicenne che stava esplodendo nella sua vitalità, e che è entrata in contatto in palestra con il mondo dei grandi. Forse in palestra ha trovato il bandolo che l’ha portata fuori dal sentiero sicuro della sera? Forse la discoteca Sabbie mobili era l’epicentro della vita, ma anche un porto di mare? L’unico ufo, in questa giornata, l’unico che non ha legami con questo mondo, paradossalmente, è Massimo Bossetti. L’unica cosa sui cui le amiche di Yara rispondono tutte la stessa cosa, senza amnesie, e guardandolo negli occhi: «Non lo abbiamo mai visto». E’ incredibile anche il chiasmo che lega le due famiglie, i Gambirasio e i Bossetti: due madri che comandano ogni cosa, due padri che lavorano, portano i soldi, e tornano nei cantieri dal weekend delegando alle moglie, come dice Fulvio, «L’amministrazione della famiglia». Mentre l’udienza sta per finire ripenso al racconto di Silvia Brena. Quella sera, racconta, dopo aver pianto ed essersi disperata, era andata in oratorio fino alle 23.00. Poi era andata a bere al pub “Agadà”. Poi, a sentire i racconti, aveva pianto di nuovo, tutta la notte. Forse un percorso normalissimo, per certe ragazze di questa generazione: disperazione a intermittenza. Forse dietro questi silenzi e questi omissis c’è un’ombra, un sospetto indicibile, qualcosa che noi non sappiamo. È sera: seguo Silvia nel tribunale mentre accompagnata da un poliziotto esce percorrendo i corridoi, e rimango colpito da un piccolo colpo di scena. Silvia arriva in una stanzetta in cui ci sono tutte le altre amiche che dopo aver testimoniato l’hanno aspettata: cinque ragazze, le ex compagne e le ex istruttrici. Escono, varcano il portone, rispondono «No comment» ai giornalisti appostati con la sicurezza che potrebbe avere Belen Rodriguez. Salgono le scale di un parcheggio, e se ne vanno tutte insieme, portandosi dietro tutti i dubbi di questo enigma. Luca Telese ###