Charles Darwent, Il Giornale dell’Arte 11/2015, 10 novembre 2015
BIANCO ANGLOSASSONE PROTESTANTE AFFETTATO
[frasi alla fine]
I critici d’arte, come gli artisti, possono finire per restare legati mani e piedi dalla loro stessa fama. Raggiungete il successo come pittori di fiori e il mercato farà di voi dei pittori di fiori. È andata così anche a Brian Sewell. scomparso il 19 settembre scorso all’età di 84 anni: il pubblico amava vedere in lui un burbero reazionario, anche se in realtà non lo era affatto. I suoi attacchi annuali al Turner Prize erano più che il semplice travaso di bile di un critico anziano. Per Sewell, l’arte era un affare serio, una cosa a parte. Mi è stato chiaro sin dal primo incontro con lui, vent’anni fa, quando terrorizzato critico d’arte inviato dal «New Statesman» a intervistare Sewell per stilarne un profilo, gli chiesi di scegliere un quadro dalla collezione della National Gallery e di parlarmene. Con mia piacevole sorpresa, scelse il «Cristo dopo la flagellazione contemplato da un’anima cristiana» di Velázquez (1628-29), un’opera che gli permise di recitare appieno la parte di Brian Sewell. Fu un pezzo di bravura. Un’appassionata descrizione di come Velázquez avesse trattato i muscoli addominali di Nostro Signore, del suo omoerotismo, del perché l’angelo tenesse le sue vesti in un modo così singolare. Sewell usò probabilmente il termine «callipigio»; se lo fece, dovetti prendere la precauzione di guardare da un’altra parte. Tutto ciò era prevedibile. Ma non la sua passione e La sua generosità.
Fare le cose per bene
Se è indiscutibile che Sewell scrivesse con maggiore autorità rispetto a qualsiasi altro critico britannico della carta stampata, lo faceva anche con maggiore sincerità. Due doti che non derivavano tanto dal genio innato o dalla sua formazione al Courtauld Institute quanto dagli anni di lavoro per la casa d’aste Christie’s. «Quando si prendono decisioni che possono avere conseguenze sulla vita di qualcuno», diceva, «bisogna fare le cose per bene». E per un critico fare bene richiedeva spazio e tempo: prima che l’«Evening Standard» passasse di mano nel 2009, le recensioni di mostre di Sewell potevano occupare due o più pagine. Maestosamente, apparivano dopo tutte le altre, dopo che l’autore aveva lentamente affinato le proprie impressioni prima di giungere a una buona conclusione e batterla a macchina.
Sessualità rapace
Fare bene significava anche essere trasparenti riguardo alla propria sessualità, cosa che Sewell fece in due biografìe, pubblicate nel 2011 e nel 2012. Testi che catalogavano una vita che chiaramente era stata per molti versi infelice: la nascita da madre nubile in un’epoca in cui l’illegittimità faceva scandalo: l’infanzia senza un padre; una rapace sessualità che, forse, era conseguenza di entrambe queste cause. L’ottica che Sewell utilizzava per registrare i propri exploit sessuali era accurata e sicura tanto quanto quella che applicava all’arte. Quando un’amica, membro della Royal Academy, che aveva appena letto il secondo volume della sua autobiografia, gli disse: «Ma Brian, di sicuro non puoi essere andato a letto con mille ragazzi in un anno!», Sewell replicò dolcemente: «Non ragazzi. Uomini».
La storia è notevole non solo per la sua puntigliosità. L’accademica in questione era una donna e un’astrattista, due categorie dell’essere che si riteneva Sewell non amasse. In realtà, i suoi amici più fedeli erano donne e i suoi gusti artistici più cattolici di quanto i suoi seguaci del ceto medio inglese supponessero. Che l’arte fosse intelligente, seria e fatta con maestria contava per lui più di quanto fosse antica, rappresentativa o maschia. Sewell, per lo sgomento dei suoi lettori, era un grande sostenitore delle opere di Jake e Dinos Chapman, meglio noti per i disegni di nasi di clown su stampe originali di Goya. Il suo attacco annuale al Turner Prize era più del semplice attacco di bile di un critico anziano che non riusciva più a capire il mondo moderno. Per Sewell, l’arte era un affare serio, una cosa a parte: un impegno morale. Cattolico non più praticante che trovava difficile l’intimità emotiva, si sentiva più a suo agio nelle gallerie che in chiesa o nelle relazioni.
Non era questo, però, che interessava al suo pubblico. Quel che il pubblico voleva, e che spesso otteneva, era un anticonformista dalla lingua tagliente, plasmato, pensava erroneamente, sulla sua immagine conservatrice. Per questo Sewell era in parte, se non del tutto, da biasimare. I media si accorsero in fretta delle sue caratteristiche di bianco anglosassone protestante e affettato, e costruirono il personaggio di conseguenza. Se avesse smesso di attingere al linguaggio aulico vittoriano con termini quali «panjandrum» (pezzo grosso), «hobbledehoy» (adolescente goffo e impacciato), «callipigio», i suoi lettori ne sarebbero rimasti delusi; e così il suo datore di lavoro. È tipico, anche se deprimente, che la prima risposta alla notizia della morte di Sewell da parte di una delle testate consorelle dell’«Evening Standard» è stata la pubblicazione di un pezzo online dal titolo «Nove tra le più feroci frecciate di Brian Sewell». L’ultima volta che lo vidi, prima della sua lunga malattia, nelle gallerie della Royal Academy si aggiunse a noi un terzo critico. Anche lui aveva appena finito di leggere le memorie di Sewell: c’era qualcosa, chiese, che Brian non avesse fatto? Aggiunsi che, a quanto pareva, io ero l’unico uomo di Londra con cui non fosse andato a letto. Sewell, con un sorriso indifferente, si girò verso di me e disse, dolcemente: «Oh, davvero?». Da allora il terzo critico mi guarda con sospetto. Per la cronaca, ahimè, davvero non l’abbiamo fatto.
VI RICORDATE LE SUE CATTIVERIE NEL GIORNALE DELL’ARTE?–
«Il pericoloso mestiere del critico...
Mi sono guadagnato da vivere con il mestiere di critico d’arte per dieci anni esatti, non uno di più. Fin dall’inizio capii che era la maniera migliore per farsi dei nemici e perdere gli amici. (...) Sono stato preso a ombrellate sulla testa e sulla schiena, e con un ombrello bagnato (un’arma in effetti poco pericolosa, ma sgradevole e viscida), da un gallerista di Bond Street che riteneva avessi messo in dubbio la qualità della sua merce e la sua buona reputazione. [...] Quand’ero soltanto il critico d’arte del «Tatler», un mensile mondano un po’ maldicente e privo della minima influenza, sfoggiai per qualche settimana un occhio nero e un livido giallastro su una guancia. Quando Waldemar Januszczak disonorò le colonne del «Guardian» con calunnie contro di me, il mio contrattacco legale ebbe tale successo che il direttore del giornale acconsentì a che scrivessi io stesso le scuse che Waldemar fu costretto a pubblicare come sue (i suoi lettori abituali avranno notato, in tale occasione, un’insolita felicità di linguaggio di stile)»
Le mutande della regina Vittoria e il pene rinsecchito di Napoleone...
«Il primo Ministro delle Belle Arti mai nominato nel nostro Paese possiede una collezione non di disegni di antichi maestri o di giovani contemporanei, ma di mutande lunghe della regina Vittoria. Alle aste di Christie’s appassionati collezionisti si accalcano ad acquistare qualsiasi berretta da notte, calzino da letto o corsetto che goda di reputazione regale. Il valore di miracoloso feticcio dato al vestiario gode di antica reputazione. (...) Lo stesso potere si rilevava in altre reliquie, schegge della Vera Croce, spine della corona di Cristo, mentre pezzi e pezzetti tagliati via dai corpi dei santi erano oggetto di commercio in tutta Europa, quale moneta corrente di cura e salvezza. In tempi più moderni e protestanti può darsi che l’idea di miracolo sia svanita dalla fede, ma rimane un residuo di superstizione, una confusa e indefinibile convinzione che il potere dell’oggetto si trasferisca in qualche modo a chi lo possiede. Non sono sicuro di come ciò abbia funzionato nel caso del pene rinsecchito di Napoleone comparso alcuni anni fa a un’asta di Christie’s, anche perché ai suoi bei tempi era stato uno strumento di successo notevolmente scarso, ma certamente le mutandine di Elvis Presley offrivano qualche maschia speranza, e il reggipetto di Marilyn Monroe conteneva una promessa di sottile sensualità. Gli inglesi, tuttavia, hanno la tendenza a non dire la verità su questi argomenti, e adducono il Gabinetto delle Curiosità come spiegazione della loro mania di collezionare ricordi del genere. L’arte e i manufatti prodotti dai membri della famiglia reale si collocano naturalmente in questa categoria di oggetti
Andy Warhol, il san Paolo del tedio (è l’artista che ci siamo meritati)
«...A Warhol piaceva annoiarsi: «Starsene seduto a guardar fuori della finestra, questo sì che è bello. Sì. Veramente. I miei film sono soltanto un modo per occupare il tempo». Divenne il san Paolo del tedio, e cercò di convertirci tutti agli immemori piaceri del torpore intellettuale. Era privo di senso morale; i giovani mantenuti e le ragazze spettinate che formavano il suo entourage si nutrivano di cubetti di zucchero inzuppati di Lsd, e aspiravano in comune il fumo dei mozziconi umidi di saliva delle sigarette imbottite di erba; mano a mano che il tempo passava secondo lo stile di Warhol, i partecipanti a quelle vane orge cercavano il congiungimento sessuale ma, distrutti dalla droga, snervati, incapaci, mezzi addormentati, semisvegli, giacevano impotenti in un limbo di energie fiaccate. Warhol, il voyeur alla mescalina, attraverso la serie delle sue nottate così affollate, manteneva un’incessante «levée» di parrucchieri per signora, di calzolai e di tenori italiani, tutti in cerca di quel quarto d’ora di fama con cui egli li seduceva; nella caligine allucinatoria non riuscì mai a identificare chiaramente il suo Ottaviano...»
Grazie, Monsieur Fabris, per aver dichiarato falsi quegli Utrillo
«...Sarei propenso a dire che i giapponesi, un popolo di killer di balene e di delfini famoso per la ferocia dei suoi comportamenti verso prigionieri e civili nell’ultima guerra, meritano che si vendano loro dei falsi e che ogni simpatia nei loro confronti sarebbe sprecata, ma l’intera faccenda solleva la questione più grave dei rapporti tra i venditori d’asta e gli esperti. Io non credo negli esperti. Credo nell’onesta espressione di un’opinione, non nell’infallibilità. L’arte del conoscitore e la storia dell’arte non sono scienze esatte, misurabili con mezzi tecnici, ma sono materia di giudizio articolato basato sulla conoscenza, sull’esperienza, sulla ricerca e su quell’elemento imponderabile che si chiama «occhio»; alcuni di noi possiedono la cosiddetta «reazione istintiva», un nodo allo stomaco accompagnato da un’esclamazione soffocata, «Dio mio!» di fronte a un Elsheimer o un Rubens mai pubblicati che occhieggiano non identificati dalle pareti di una casa d’aste; alcuni di noi provano disgusto, addirittura nausea, quando vedono nelle stesse sale dei dipinti sostenuti da un profluvio di dottrina e di perizie, e che sanno essere dei falsi, delle copie, dei «pastiche» o dei surrogati, perché glielo dicono gli occhi o lo stomaco».
Perfino l’arte hitleriana era meglio dell’inesistente «età d’oro» ungherese
«... La fiacchezza dei dipinti trova conferma in un artigianato di gusto esecrabile: mobili orribili e volgari, in parte di gusto floreale, in parte d’ispirazione architettonica, e in ceramiche anche peggio, luccicanti e opalescenti. I bronzi sono una mediocre collezione di donne nude, di uomini in posa e di cavalli quasi al galoppo, quel genere di insensatezze nazionalistiche che persino gli scultori preferiti da Hitler facevano con più stile. Il tutto riesce a creare un’atmosfera irrimediabilmente provinciale, ridicola e spregevole....»
Nessun confine tra grande arte e bassa pornografia
«È da tanto che sostengo che molti dei capolavori del Rinascimento non erano delle solenni dichiarazioni destinate alla mente e allo spirito, ma erano invece volutamente intesi a vellicare i sensi nel senso pornografico dell’espressione e che davvero, prima dell’invenzione della macchina fotografica, il confine fra la grande arte e la bassa pornografia era difficile da tracciare, e che fu per valide ragioni pratiche che la brachetta diventò l’elemento tipico dell’abbigliamento maschile nel Rinascimento. Pensiamo alle Veneri di Tiziano, rappresentate frontalmente e volutamente provocanti; pensiamo alla sua Europa, che giace sulla schiena del toro, abbandonata nell’attesa del piacere, non certamente rappresentata come una fanciulla spaventata né come una vergine aggrappata alla sua virtù; e pensiamo a come lo stesso Tiziano gioisca nel rappresentare i misteri lesbici di Diana e Callisto, e il giro obliquo mediante il quale Giove s’intromise. Né Correggio era più incline alla virtù, con la sua Danae che si apre all’eiaculazione di monete d’oro di Giove, e Io che stringe la nube al seno nello stesso stato d’estasi della santa Teresa di Bernini con il suo angelo...»
Per Turner, Stirling ha fatto il figlio rachitico di Stoccarda
«... Ora la galleria Turner (alla Tate Gallery) è finita, ed è un disastro. Concorrono a questo disastro due elementi, la galleria e i dipinti, e due personaggi, l’architetto, James Stirling, e Turner stesso. Stirling ha dato un progetto che si può soltanto descrivere come il figlio rachitico di Stoccarda; la sua fondamentale incomprensione delle finalità di una galleria d’arte lascia annichiliti... [...] Non si può dir nulla in favore della sua galleria, e tutto ciò che si può dire di essa è che è mediocre, brutta, volgare, priva di funzionalità, e che il progetto di Stirling non sarebbe mai stato accettato se i committenti fossero stati in grado di leggere le piante e gli alzati»
Perché sparare a Leonardo
«... Viviamo in un’epoca di piccoli vandalismi; i giovani negri del nostro Paese hanno tante scuole di graffiti che bastano a insegnare anche ai più piccoli a tracciare scarabocchi su ogni superficie disponibile (ho intervistato recentemente il capo di una di queste scuole, e ho appreso che la sua ambizione è quella di «scrivere» su tutti i muri di Buckingham Palace); in Italia i ragazzi dipingono l’unghia dell’alluce del «David» di Michelangelo, non condividendo la nostra reverenza per il passato storico e gli oggetti di grande bellezza nati nel ricco humus della nostra cultura, e siamo arrivati al punto che essi vorrebbero distruggere sia gli uni sia l’altra a seconda del loro ghiribizzo...»